Ilario Domenighetti à propos
de Plinio Martini
En bref et en français
Ilario Domenighetti. Il évoque
dans cette interview plusieurs aspects de l'uvre de
Martini, et commente la place qu'elle revêt dans le
panorama des lettres italiennes de son temps : une place
importante, que confirme l'intérêt croissant
du lectorat et des éditeurs, aussi bien dans le domaine
italophone qu'à l'extérieur.
Ecrivain largement autodidacte, Martini publie d'abord de
la poésie. Nourri aussi bien de lectures contemporaines
(Montale, Ungaretti) et plus anciennes (Leopardi, Pascoli),
il démontre dès cette période une capacité
d'assimiler plusieurs modèles et de les refondre
dans une écriture toute personnelle. C'est ensuite
essentiellement dans des articles que Martini défend
sa vision du monde et de son pays. Selon Domenighetti, le
passage à l'écriture romanesque survient à
partir du moment où le Tessin traditionnel, ses paysages
et ses valeurs apparaissent de fait condamnés à
l'auteur - de sorte que Martini, de militant, devient créateur
d'un monde perdu. Ses romans dépeignent le monde
tessinois dans une regard encore héritier de la vision
idyllique des Alpes d'un Zoppi ou d'un Chiesa, mais dans
lequel intervient une critique politique et sociale nouvelle;
il est l'un des premiers à avoir pressenti l'impact
désastreux des grands travaux hydroélectriques
de la Valle Maggia. Sa critique innovante de certains comportements
religieux fut en outre d'une acuité exceptionnelle.
Il serait réducteur de ne voir dans ses romans qu'un
portrait de ce pays à l'époque des migrations
transatlantiques : il s'agit aussi d'un journal de l'âme,
d'une recherche des raisons d'agir psychologiques profondes
de l'homme.
Si cette uvre en dépit de ses aspects tragiques
conserve une dimension optimiste, cela est dû à
l'amour porté par Martini à son pays et à
ses gens, et à sa conviction qu'il faut trouver le
moyen de vivre ensemble, où que ce soit.
Su Plinio Martini. Domande a Ilario
Domenighetti
Intervistandola dalla Svizzera
Romanda, vorrei partire da un episodio da lei ricordato,
l'incontro di Plinio Martini con Maurice Chappaz e Corinna
Bille, a Bosco Gurin, nel 1954
Anzitutto va detto che è stato
un incontro curioso e del tutto casuale, che io stesso ho
scoperto soltanto negli ultimi anni, prendendone poi spunto
per aprire la mia Introduzione alla raccolta di interventi
pubblici di Plinio Martini uscita nel 1999 con il titolo
Nessuno ha pregato per noi (Locarno, Dadò).
Martini per dieci anni è stato albergatore estivo
a Bosco Gurin, il suo secondo lavoro accanto a quello di
maestro di scuola elementare, una professione mal retribuita
in quei tempi e che quindi costringeva molti maestri ad
avere un secondo lavoro. Una sera la Bille e Chappaz capitano
nel suo albergo, tappa di una lunga camminata alpina poi
descritta dalla stessa Bille nel saggio À pied
du Rhône à la Maggia recentemente ripubblicato
(Ginevra, La Joie de Lire, 1999). Nel suo diario di viaggio
la Bille dedica un paragrafo a quell'incontro, mentre Chappaz
pochi mesi dopo pubblicherà in un giornale della
Svizzera Romanda la traduzione di una poesia della prima
raccolta di Plinio Martini, Paese così (1951).
Martini invece non parlerà mai da nessuna parte di
quell'incontro. Curioso è ricordare come dopo quella
sera i tre scrittori non si sarebbero mai più rivisti
e che in quella stessa sera, stando a una lettera inviatami
da Chappaz, Martini non parlò della sua attività
di poeta: che lo fosse se ne accorsero quando Martini qualche
tempo dopo spedì loro la sua prima raccolta di poesie.
Un incontro dunque che sembra essere stato piuttosto uno
scherzo del destino, che ha fatto incontrare casualmente
tre persone che poi si imporranno fra le voci più
rappresentative della letteratura Svizzera del Novecento
Bille e Chappaz, come detto, incontrano
in quel frangente un poeta: quanto contò (in positivo
e negativo) per Martini questa prima esperienza di scrittura
poetica (con i due libri Paese così e Diario forse
d'amore) per il futuro polemista e romanziere?
Contò anzitutto quanto contò
per tanti altri scrittori italiani di tutti i tempi che
arrivarono alla prosa dopo un più o meno lungo tirocinio
attraverso la poesia. Va poi ricordato che Plinio Martini
è stato sostanzialmente uno scrittore autodidatta,
se pensiamo che la sua formazione scolastica è stata
quella di maestro di scuola, alla Magistrale di Locarno,
dove secondo lo scrittore lo studio della letteratura del
Novecento si concludeva con D'Annunzio. Ora, se leggiamo
il commento di Alessandro Martini alla recente raccolta
di poesie di Plinio Martini, Prime e ultime, Locarno,
l'impressione edizioni, 2001, possiamo accorgerci come entro
le sue poesie fitti siano gli echi di molte voci recenti
(Ungaretti, Montale, ecc.) e più antiche (Pascoli,
Leopardi, ecc.) della tradizione poetica italiana. Sin dagli
esordi Martini non si pone quindi come un qualsiasi poeta
della domenica, ma già nei primi giovanili esercizi
poetici, esteticamente magari ancora grezzi, egli mostra
una naturale capacità di assimilare più modelli
di riferimento e di farli poi lievitare nella creazione
in proprio, ciò che preannuncia uno scrittore di
razza. D'altra parte, anche solo ponendo mente ai titoli
delle due prime raccolte da lei citate, ci accorgiamo che
essi anticipano i principali nuclei tematici e narrativi
dei futuri romanzi di successo. Per limitarci al Fondo
del sacco, non è forse questo romanzo il ritratto
di un "paese", l'affresco di una civiltà
agro-pastorale al tramonto presentata entro una tragica
storia d'amore raccontata attraverso la forma narrativa
di un diario?
Tra la prima produzione poetica
e i due romanzi principali, corrono poi più di vent'anni,
riempiti da una densa attività di articolista: per
quale motivo Martini, nel 1970, decide di trasfondere i
motivi polemici legati allo scempio della sua valle in una
narrazione, quella de Il fondo del sacco?
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Cominciamo col dire che,
quando Martini arriva al Fondo del sacco,
oltre a una densa attività di articolista
ha pure già alle spalle un'importante
attività di narratore, anche se soprattutto
di racconti, in particolare di racconti per
ragazzi. Addirittura aveva già scritto
una buona parte di un romanzo per ragazzi che
però lasciò incompiuto. Inoltre
va anche ricordato come lo scrittore nella sua
prima intervista radiofonica del 1954 (che si
può ascoltare sul sito http://www.rtsi.ch/scrittori)
manifesta esplicitamente la volontà di
scrivere un romanzo in un prossimo futuro. Ufficialmente
invece, Martini ricorda di essersi deciso a
scrivere Il fondo del sacco quando si
rende pienamente conto che la cultura del suo
paese è degna del massimo rispetto, anche
letterario. Da parte mia, tornando alla sua
domanda, avrei anche una spiegazione più
a carattere psicoanalitico: Martini scrive il
Fondo del sacco quando si rende conto che
la partita è ormai definitivamente persa,
cioè che la secolare cultura del suo
paese, l'antica civiltà di cui era stato
uno degli estremi testimoni e che aveva difeso
a lungo come articolista, stava per esser spazzata
via dagli interessi economici della nuova società
dei consumi e del 'benessere'. Allora scrive
Il fondo del sacco come una sorta di
freudiano lavoro del lutto, vale a dire per
ricreare dal di dentro ciò che stava
perdendo al di fuori.
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Lei stesso ha più volte
ricordato lo scarto stilistico esistente tra Il fondo del
sacco e il Requiem per zia Domenica (1976): in che modo
Martini rielabora il suo stile narrativo dopo il primo romanzo,
per quali motivi e sotto quali spinte?
Il fondo del sacco, come ci ha spesso
ricordato lo stesso autore, è un romanzo in prima
persona dove il paese e la sua storia è narrata dall'interno,
cioè dal punto di vista del protagonista, Gori, che
quel mondo l'aveva vissuto e assimilato direttamente e spontaneamente.
Tanto che per esercitare più a fondo la funzione
di critica sociale Martini deve inventare la figura del
giudice Venanzio. Martini ricordava pure come Il fondo
del sacco, per coerenza con la lingua e la cultura del
protagonista narratore, fosse stato pensato in dialetto
e scritto in italiano. Protagonista del Requiem per zia
Domenica è invece Marco, un intellettuale che
ritorna al suo paese per il funerale della zia e che cerca
di porre i luoghi d'origine a una certa distanza, per permettergli
una maggiore neutralità di giudizio. Così
la rivisitazione del passato viene filtrata attraverso i
libri della biblioteca personale di Marco e ne nasce l'insistito
gioco citazionale che caratterizza il romanzo. Fra il primo
e il secondo romanzo assistiamo insomma al passaggio da
un neorealismo per così dire naturale a una sorta
di neorealismo linguistico, essendo evidente in Requiem
per zia domenica la volontà di cogliere la realtà
soprattutto attraverso le espressioni verbali che la nominano.
Tuttavia, a monte di questa radicale virata stilistica,
sta la lezione espressionistica di Carlo Emilio Gadda, di
cui Martini, come si diceva per gli esordi in poesia, è
stato bravo a cogliere immediatamente la carica innovativa
e a piegarne e mediarne gli insegnamenti ai fini della propria
creazione. Ma a questo proposito, per una più ampia
trattazione della questione di Gadda in Martini, mi si permetta
di rinviare alla mia Introduzione alla recente riedizione
del Requiem per zia Domenica, Locarno, Dadò,
2003.
La dimensione linguistica dell'opera
narrativa di Martini è in parte segnata dalla presenza
del dialetto (penso ad esempio al "gran rincrescere"
che trapunta Il fondo del sacco): si può in questo
senso parlare di una "lingua martiniana" oppure
essa si apparenta ad altre esperienze letterarie alto-lombarde
e ticinesi?
La lezione di Pavese (La luna
e i falò) e di Fenoglio (La malora) sono
state indicate dalla critica come le fonti di ispirazione
più vicine nella concezione dello stile del Fondo
del sacco. Soprattutto da Fenoglio, e prima ancora da
Verga, Martini potrebbe essere stato legittimato al libero
uso di plurimi calchi dal dialetto. Tuttavia bisognerà
guardarsi dalle eccessive semplificazioni e provare un giorno
a studiare più da vicino la lingua di questo romanzo,
ciò che non è ancora stato fatto. Preliminarmente,
posso dire che il sostrato dialettale tende a farsi meno
importante nelle pagine ad esempio dove l'autore narra le
vicende svoltesi in America. Inoltre, contraddicendo lo
statuto del personaggio narratore poco alfabetizzato e di
scarsa cultura, la narrazione non va esente da citazioni
occulte che ne elevano il tasso di letterarietà:
da Dante a Manzoni, da Porta a Leopardi, da Joyce a Caldéron
de la Barca, ecc. Forse, come Lei ipotizza e una volta studiata,
può darsi che la lingua del Fondo del sacco
sveli qualche sua specificità, uno stile neorealistico
proprio a Martini.
"Eravamo un'isola fuori
dal tempo, una brancata di farina in fondo al sacco",
questa la frase da cui nasce il titolo del romanzo d'esordio
di Martini: il tema verghiano dei "vinti" e del
loro scontro con la modernità è un motivo
dominante dello scrittore di Cavergno. Eppure, non si può
dire che si tratti di una visione misoneista, con tentazioni
di ripiegamento: come si colloca Martini rispetto alla letteratura
ticinese del tempo, rispetto all'alpe idillica di Zoppi
o all'alpe tragica di Poma, ad esempio?
La domanda è complessa e domanderebbe
un saggio a parte. Per tentare di risponderle nel modo più
sintetico, converrà subito ricordare che l'alpe e
la civiltà contadina sono stati temi dominanti in
tanti romanzi che hanno fatto la storia della letteratura
svizzero italiana del Novecento. Ma fino a Chiesa e Zoppi
ha prevalso l'alpe angelicato, una realtà edulcorata,
pura, spesso rappresentata attraverso gli occhi ingenui
di un adolescente, ideologicamente incontaminata. A partire
dagli anni Sessanta però anche la letteratura svizzero
italiana cambia registro e la critica politica e sociale,
accanto alla sessualità, alla colpa, ecc. - nonché
allo scontro, cui Lei accenna, con la modernità -
diventano temi stabilmente presenti nelle nostre migliori
opere. Per il titolo del Fondo del sacco invece,
ha senz'altro ragione da una parte, dall'altra va ricordato
che si tratta di un titolo bifronte. Nella seconda pagina
del romanzo troviamo infatti una seconda motivazione che
è anche una seconda sua chiave di lettura dell'opera:
"forse mi può far bene a vuotare il sacco fino
in fondo". Come ricordavo prima, occorrerà quindi
leggere Il fondo del sacco certamente come il ritratto
di un 'paese così' e dell'epopea dell'emigrazione
oltreoceanica, ma ad un tempo anche quale rousseauiano 'diario
di un'anima', cioè quale scavo nelle ragioni più
profonde e psicologiche dell'azione umana.
Se la valle (Bavona) è
il centro del mondo martiniano, esiste nella sua opera anche
una grande attenzione alle radici della cultura ticinese:
penso in particolare ai dialoghi con il Giudice Venanzio
ne Il fondo del sacco, con posizioni durissime nei confronti
della "piccola mafia bardata di ideali illuministici
Una
merda". Si può dire che Martini sia stato anche
un'analista delle ragioni storiche del Sonderfall ticinese?
Mi è già occorso di
dire che a mio avviso Plinio Martini non aveva la stoffa
e nemmeno l'ambizione del maître à penser.
Puntò a più riprese l'indice contro lo sfruttamento
idroelettrico della sua Valle Maggia (con capitali in maggioranza
provenienti dalla Svizzera tedesca) e fu uno dei primi a
comprendere che le ciclopiche opere idroelettriche avrebbe
stravolto il volto del paese e cancellato tradizioni di
secolare durata. Si scagliò poi più volte
contro la miopia e l'astuzia di determinati uomini politici
che, in buona o cattiva fede, lasciarono che al Cantone
Ticino venisse sottratta una delle sue risorse economiche
più importanti, vale a dire l'acqua. Accanto a ciò,
mai sopita fu la sua critica a certi comportamenti religiosi.
Appunto, al centro del Requiem
per zia Domenica (pubblicato prima in tedesco che in
italiano!) v'è una feroce critica a una tradizione
religiosa vissuta dal protagonista come deleteria e quasi
assassina; eppure tutto il libro - lei stesso lo ha notato
- è costruito su una fitta rete di riferimenti liturgici
e religiosi. Come si coniuga in Martini la critica alla
tradizione religiosa e il suo utilizzo narrativo?
È stata l'autorevole
voce di Giovanni Pozzi a riconoscere a Martini
un primato nella storia della letteratura del
Novecento italiano, quello di aver saputo rappresentare
come nessun altro scrittore la parte che la
devozione religiosa ha avuto nella coscienza
collettiva del popolo cristiano (E si badi che
l'ultimo romanzo di Umberto Eco, La misteriosa
fiamma della regina Loana, 2004, si fonda
in parte sui testi che Martini nel suo romanzo
mette più spesso nelle mani di zia Domenica).
Quindi, se nessuno può, crocianamente
parlando, non dirsi cristiano, siamo debitori
a Martini di avere saputo riportare alla luce
tutto quanto di crudele e deleterio ma anche
di nobile e filantropico la coscienza cristiana
ha saputo proporre. Martini conosceva bene quel
mondo cristiano per averlo frequentato sotto
varie forme e per essere stato a lungo un uomo
di fede cristallina; allo stesso tempo ne aveva
intuito la portata storica e di conseguenza
la portata romanzesca: Requiem per zia Domenica
è il mirabile esempio di questa felice
intuizione. Contemporaneamente è andato
individuando nell'ideologia cattolica due limiti
per lui inaccettabili, vale a dire la propagazione
di un sentimento di colpa ipertrofico soprattutto
rispetto alla sessualità e una troppo
scarsa sensibilità verso le ingiustizie
nei confronti degli umili, che anzi la religione
avrebbe collaborato a mantenere in condizioni
sociali soggiogate attraverso la proposta di
pratiche spirituali compensatorie e illusorie.
Ma anche questa è una domanda che richiederebbe
un discorso ben più lungo e articolato.
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In un'intervista del 1978 Martini
si "rimprovera" (sono parole sue) di essere stato
troppo "ottimista" nella sua produzione narrativa:
eppure un senso del tragico molto profondo è iscritto
in questa produzione. In quale senso è possibile
definirla ottimista?
Secondo me e secondo quanto ricordo
mi racontasse l'autore - ma anche qui la risposta è
difficile -, la vena ottimistica che, in articulo mortis,
Martini rivendicava alla sua opera deriva da due componenti
senz'altro presenti nei suoi romanzi, sotto la patina tragica.
Da una parte l'amore: per il suo paese e per la sua gente;
dall'altra il forte senso della comunità e la necessità
di orientare la propria vita in senso collettivo, in una
nuova società dove stava per trionfare il più
spietato individualismo: "Vivere insieme, non importa
dove, è l'unica cosa che conti", fa infatti
dire a Gori nel Fondo del sacco.
Nella stessa intervista Martini
(stanco e malato) dichiara di "essere stato trascurato"
dal suo paese: quali furono i rapporti intellettuali, culturali
e soprattutto la ricezione delle opere e del lavoro dello
scrittore, nel Ticino degli anni cinquanta-settanta?
Io stesso mi sono chinato su questa
questione con un articolo a cinque anni dalla morte dello
scrittore dal titolo che credo emblematico: Fortuna riflessa
di Plinio Martini nella Svizzera italiana ("Cenobio",
n. 3, luglio-settembre 1984, pp. 195-213). Dalle mie indagini
risultava che se Plinio Martini dopo Il fondo del sacco
ha sempre avuto una schiera fedele di lettori, la critica
nostrana si è invece interessata dello scrittore
solo dopo gli interventi di critici d'oltralpe o di quelli
italiani. Ma questo penso sia il destino di ogni scrittore
di provincia, tanto più vero per Martini che visse
appartato a Cavergno tutta la vita, lontano dalle casse
di risonanza che arriva comunque a garantire la frequentazione
di qualche salotto letterario sia pure effimero e localmente
circoscritto.
Il successo di Martini non è
poi però mai venuto meno, né in Ticino (dove
Il fondo del sacco ha raggiunto l'anno scorso la ventunesima
edizione), né in Francia, dove i due romanzi sono
tuttora nella collezione Babel di Actes Sud. Come si spiega
questo successo di un autore profondamente legato a un Ticino
ormai scomparso (non c'è, al limite, il rischio di
una lettura 'romantica' dei temi martiniani)?
Se fino agli inizi degli anni Ottanta
questo successo, unico nella storia editoriale del Ticino
letterario, poteva forse misurarsi in termini di soddisfacimento
di un bisogno nostalgico, luttuoso e romantico per quanto
era ormai irrimediabilmente perduto e irrecuperabile, oggi
questa spiegazione mi pare essere troppo semplicistica.
Per di più se si pensa che si tratta di un successo
e di un apprezzamento che negli ultimi anni è andato
sorprendentemente in crescendo: del Fondo del sacco,
ad esempio, fra il 2000 e il 2003 sono state stampate quattro
edizioni, che è un ritmo di stampa mai conosciuto
prima da questo romanzo; oppure, se prendiamo Requiem
per zia Domenica, la mia recente edizione commentata
(Locarno, Dadò, 2003) è andata presto esaurita
ed è subito stata stampata una seconda edizione:
e sì che si trattava di un romanzo vecchio di quasi
trent'anni! A tacere degli apprezzamenti critici, notevole
ad esempio la recensione da parte dell'esperto di narrativa
del "Sole-24 Ore" (Giovanni Pacchiano, 13 giugno
2004) che definisce il Requiem di Martini il miglior
romanzo di uno scrittore italiano degli ultimi trent'anni,
assegnandogli l'impegnativo contrassegno di 'capolavoro'.
Francamente per ora non so spiegarmi nemmeno io questi fenomeni,
di sicuro so che i romanzi di Martini occuperanno sempre
una posizione di preminenza almeno nella storia della fruizione
della letteratura della Svizzera italiana.
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