“Ut pictura poesis”

Intervista con Giovanni Orelli autore de “L’albero di Lutero”.

Lo scrittore ticinese al traguardo dei 70 anni pubblica una raccolta “autobiografica”di sonetti

Lui, la definisce la via più facile e divertente, eppure scrivere sonetti facile non è, affatto. Forse perché anche lui, come il sonetto, è un po’ complesso, prende spunto anche dalle cose occasionali, quelle che, inattese, colorano la vita sia nel bene che nel male. Una pennellata dopo l’altra dalle quali pian piano traspaiono i lineamenti di un’esistenza spesa amando la letteratura, amando fare letteratura. E a settant’anni scopre di aver voluto da sempre raccontarsi, non necessariamente al grande pubblico, anche solo a sé stesso, raccogliendo un diario che in realtà non ha mai avuto. Eppure “L’albero di Lutero” fresco di stampa delle edizioni Marcos y Marcos, diario è. Certamente non classico, non come lo abbiamo nelle nostre menti. Forse per questo è più accattivante, non scontato, fresco riga dopo riga, sorpresa dopo sorpresa cantate dai versi di sonetti scritti tenendo nel cuore il grande amore della prosa.

E allora lasciamo che sia lui a parlare di sé, a parlare di Giovanni Orelli diviso tra versi e narrativa.

Devo dire che prediligo entrambi i generi, la narrativa, per la quale sono forse più portato, e i versi. Perché scrivo versi? Vede, scrivere narrativa necessita di avere alcuni mesi a disposizione per poter sviluppare i temi, il montaggio, curare la lingua, curare tutto l’intersecarsi delle vicende. È come allenarsi per i 10 mila metri. Il sonetto, invece, è una corsa rapida, lo posso fare, se mi va bene, in una notte d’insonnia o di parziale insonnia.

Perché, lei soffre di insonnia “creativa”?

Succede regolarmente, mi alzo nel mezzo della notte per la provocazione di una lettura che sto facendo o per un fatto che mi ha colpito leggendo il giornale o che è capitato durante la giornata. Ecco che mi metto a scrivere qualche cosa. Bisogna dire che in vita mia non sono mai stato capace di tenere un diario e quindi questi sonetti in un certo senso sono una forma diaristica ed è per questo che abbondano di citazioni perché sono anche “frutto parassitario” di letture che ho fatto.

Leggendo i suoi versi mi sembra che oltre a queste citazioni – e sono parecchie – vi siano anche molti elementi personali. Non voglio sostenere che questi sonetti siano in tutto il diario che lei dice di non aver mai avuto, ma che in essi sia presente in gran quantità materiale biografico è innegabile... Mi corregga se sbaglio.

Non non si sbaglia e per dimostrarle che lei ha visto giusto vorrei ricordarle uno dei sonetti che mi pare tra i meglio riusciti, il 99, in cui io ricordo mia nonna Giacinta Forni da Villa Bedretto, la quale una volta venne in casa di mia madre per dirle che era rimasta commossa, quasi fino a piangere, nel vedere durante la messa – che allora, in età giovanile io frequentavo – che mi sorreggevo la mano durante la predica noiosa. Nella mia mano lei aveva visto la mano di suo marito, morto giovane, che mia madre non aveva mai conosciuto, avendo lei un anno quando il padre era scomparso. Ora il tema del “rifiorire” di un segno di un uomo antico, di una persona passata, in un carattere, in un tratto del nipotino, è un luogo comune della poesia, da Virgilio a Sanguineti.

Vuole farci l’esempio legato a questo suo ricordo?

Ho sempre nella mente il Virgilio dell’Eneide, Libro III: Enea che è fuggito da Troia e ha con sé il figlio Ascanio, incontra la vedova di Ettore. Questa donna che amava molto il marito ucciso e il figlio scelleratamente ammazzato dal figlio di Achille, vede nel cugino di suo figlio (il figlio di Enea, ndr) tutte le stesse sembianze del proprio figlio morto ed esclama «Tu sei l’immagine vivente del mio Astianatte». Questo è un fatto eterno, che ho vissuto anch’io in questa trepidante confessione di mia nonna e quindi quando rievoco questo fatto, pur non citando Virgilio, che era troppo immediato e troppo lontano per la lingua, mi riferisco a Dante che come ben sappiamo fu lettore di Virgilio. Ecco che quando faccio un sonetto emerge un fatto legato alla propria quotidianità e ad un episodio intimo della propria vita, ma che coinvolge sempre un fatto letterario. È una delle mie caratteristiche la combinazione tra fatto naturale e fatto culturale. Nonostante mi venga continuamente rimproverato da molti – ed io me ne infischio – non posso esimermi dal fare citazioni. Io mi sono nutrito di letteratura: non me ne pento, anzi me ne vanto.

Questa raccolta, naturalmente, non è nata in maniera organica. Raccoglie il lavoro di quanto tempo?

Devo dire che non faccio nulla per continuare il cimentarmi con il sonetto, ma è una specie di sostitutivo di quel diario che come già dicevo non sono riuscito a fare. Ho cominciato alcuni anni fa sulla base di alcune letture. Quando leggo un libro mi faccio un indice delle cose notevoli nell’ultima pagina, una sorta di indice personale. I sonetti sono nati come amplificazione di qualche punto di questo indice personale.

Mi pare che anche il titolo da lei scelto “L’albero di Lutero” sia in fondo una di queste amplificazioni?

Esatto. Ho letto un libro di monsignor Gianfranco Ravasi pubblicato un paio di anni fa. Lui fa una citazione: «come disse Lutero “anche se sapessi di morire domani pianterei lo stesso un albero di melo”». È una metafora molto bella della speranza nonostante tutto. Io sono per natura un po’ catastrofale, non ho mai nascosto la mia simpatia per uomini come Schopenhauer, Leopardi. Però mi ha fatto enormemente piacere questa confessione di speranza di Lutero, che è come dire debbo concedere qualcosa anche all’avvenire, anche alla fiducia, anche alla speranza che è fondamentale nel ruolo famigliare. Nel libro ho parole un poco dure con il concetto di “sacra” famiglia, “sacra” unione, di “sacro” matrimonio, ma il rapporto con i figli è fondamentale ed è di una importanza incredibile. Come dicevo prima parlando dell’episodio virgiliano, la mano che rinasce, il sangue che rinasce, l’occhio come trapiantato rifatto vivo. Elementi che sono anche in Shakespeare nel famoso Secondo Sonetto: «Quando tu cara signora che hai 40 anni, l’inverno scaverà trincee sulla tua fronte, la miglior vendetta che potrai fare contro il tempo è poter dire “ma il mio sangue è rifatto nuovo nel sangue di mio figlio”». C’è quindi il polo della speranza e i temi famigliari e privati si intersecano con quelli della letteratura.

Pubblicare una raccolta di sonetti con questo titolo così carico di elementi di speranza, in un momento importante della sua vita, al traguardo dei 70 anni, assume un significato estremamente particolare e che va ben oltre...

Il significato che va oltre c’è sempre e ci deve essere sempre, anche se per un verso pragmatico e immediato non mi faccio nessuna illusione. C’è una specie di sopraffazione di libri – l’abbiamo visto anche recentemente a Francoforte –, c’è una saturazione per la quale uno dovrebbe giungere quasi ad odiare il libro. Come uno che vivesse sempre al mercato delle cipolle, anche se gli piace la cipolla nel brodo, viene ad odiare le cipolle non potendone più di questa continua ripetizione. Tuttavia c’è sempre la speranza di incontrare anche il singolo lettore. Quando capita di incontrare qualcuno che mi dice «ho letto il primo sonetto» – che è quello in cui racconto di essere stato rapito per un quarto d’ora dalla visione di una donna su un balconcino nel mese di agosto, cosa che mi ha fatto grande piacere – ancora di più sono compiaciuto di questa condivisione da parte del lettore. Voglio dire che anche quando si scrivono poesie che hanno un fondo sul pessimistico, ma contengono anche più cripticamente un motivo di allegrezza, se quella allegrezza è condivisa da un lettore, questo è un argomento che fa piacere.

Tornando a quello che diceva prima, ossia allo scrivere sonetti perché in fondo sente il bisogno di colmare il vuoto di quel diario che non c’è mai stato, perché non programmare per il futuro un lavoro che tocchi la narrativa e le consenta di raccontarsi, come in fondo ha iniziato a fare con questi sonetti?

È l’intenzione che ho. Spero di liberarmi di alcuni impegni esterni e di dedicarmi nel 1999 soprattutto al lavoro che ho nella testa ma che deve essere tradotto in parole. Ora c’è anche da aggiungere che fare questo è un lavoro faticoso e lungo e che procede in un modo del tutto diverso dal sonetto. Generalmente se io scrivo un racconto parto dalla pagina in alto e vado da sinistra a destra riga dopo riga. Solo dopo ci sono interventi per il montaggio. Quando scrivo un sonetto è più divertente perché posso partire da una parola, dal fascino che essa ha, e poi giocare sulle rime. Facendo il sonetto credo si verifichi quello che i latini dicevano – e l’ho capito solo ora – col famoso detto «ut pictura poesis», cioè la poesia come la pittura. Quando un pittore comincia a fare un quadro non so se parte dagli occhi, dal mento, dalle labbra. Non parte comunque dall’alto a sinistra per andare a destra e poi dall’alto in basso come si fa con la prosa. Sono modi completamente diversi di procedere. Fare il sonetto è per un verso più comodo e scrivere prosa è forse più difficile. Probabilmente devo incoraggiare me stesso a ritornare alla prosa lasciando da parte il sonetto come fatto eccentrico e occasionale.

Giovanni Orelli, L’albero di Lutero - Marcos y Marcos editore. 75 pagg. – 16.000 lire.

Giovanni Conti