Emanuela Bonacorsi

Nota bio-bibliografica

Emanuela Bonacorsi (1974) si è laureata in Lingua e Letteratura russa presso l'Università Ca' Foscari di Venezia con una tesi di traduzione su Viktor Pelevin. Si occupa in particolare di letteratura russa contemporanea. Di Mikhail Shishkin ha tradotto e curato i romanzi Capelvenere e La Presa di Izmail e il saggio L'uomo come dichiarazione d'amore della luce . Di recente pubblicazione su “Progetto grafico” (Roma) il saggio: Samizdat: l'editoria clandestina in epoca sovietica e le traduzioni Il samizdat sovietico di Dmitrij Prigov, La lezione di Metropol' di Evgenij Popov.

 

Intervista con Emanuela Bonacorsi (Yari Bernasconi)

Emanuela Bonacorsi, lei è traduttrice dal russo. Traduce (e commenta: le sue note sono sempre molto incisive), tra le altre cose, un autore russo a cui, in Svizzera, siamo molto legati: Mikhail Shishkin (Capelvenere , 2006, e La presa di Izmail , 2007, entrambi proposti dall'interessante casa editrice romana Voland, www.voland.it). Per cominciare: cosa significa dedicarsi a due lingue apparentemente così lontane e farle comunicare fra loro? Più tecnicamente, poi, quali sono le peculiarità della traduzione dal russo all'italiano?

Per parlare della traduzione potrei utilizzare la metafora del tradurre come “traghettare”, quindi attraversare a bordo di un'imbarcazione precaria il flusso narrativo; il traduttore costruisce la sua barca con materiali trovati sulla riva (la lingua d'arrivo e il suo equipaggiamento culturale) che vanno immediatamente a contaminarsi con tutti gli elementi che la corrente porta (la lingua di partenza) e con la corrente stessa (stili e invenzioni). La traduzione nasce dall'incontro tra le identità delle due lingue che si permutano tra loro, è atto di scrittura oltre che di ri-scrittura, è un lavoro di spostamenti e acquisizioni molteplici, quindi fa appello a tutti i livelli e dans tous le sens di tutte le possibilità della lingua d'arrivo. Nell'attraversamento il traduttore paradossalmente non dispone più di alcuna lingua certa, in questa sospensione la traduzione diviene ascolto: capire non tanto e non prima il senso, quanto percepire l'organismo vivente del testo. Più le lingue si allontanano tra loro per ceppo d'origine, per evoluzione, per regolazioni interne, più quanto detto si esaspera, ad esempio per venire a noi, tra italiano e russo, dove la distanza tra le lingue si amplifica nella distanza tra le culture. Il traduttore impara a inserirsi tra due mentalità e vivere nel confronto tra due diversi modi di esprimersi, tenendo conto che le diversità sono più frequenti delle affinità. Il trasloco da una lingua all'altra indica un'ipotesi suggestiva: perché il portare un oggetto da un posto all'altro, significa mettere in rilievo non l'oggetto ma il luogo, e quindi non la singola parola ma il luogo-lingua in cui si va a collocare. Il luogo-lingua è proprio l'habitat, il contesto, il quadro di riferimento che guida il traduttore. Al suo interno il traduttore orienta la parola. La mera competenza linguistica non basta alla traduzione. È semmai la cassetta degli attrezzi da cui si sviluppa una competenza ulteriore di ri-scrittura nel senso più alto e a un tempo umilmente artigianale del termine. Ma c'è un paradosso: il traduttore sa che non è possibile trasferire l'opera in un'altra lingua senza perdite. Spesso per essere fedeli al testo occorre allontanarsene. Dato che la lingua di arrivo può esprimere il medesimo concetto o la stessa immagine in modalità ben diverse o radicalmente opposte. Forse va detto che il protagonista di Capelvenere è un dragomanno, un interprete nel senso antico del termine, e che questa figura è stata coniata da Shishkin a partire dalla sua esperienza biografica di interprete ma anche dalla valenza che questa funzione traduttoria ha nella sua idea di scrittore. Lo scrittore è colui che traduce la vita in parola e quindi media l'esperienza e il simbolo. Per un traduttore un romanzo simile assume una connotazione meta-traduttoria essendo una riflessione su come tradurre uno stato dell'esistenza, terrestre e mortale, in un altro, simbolico ed eterno. La parola in Shishkin ha il peso (o la leggerezza?) dell'eternità, è il linguaggio stesso che restituisce alla vita e vince la morte, quindi la traduzione deve tenere conto di questo “peso” della parola. La scelta di utilizzare “dragomanno” per interprete, un termine arcaico, potenzialmente infelice dal punto di vista popolare, fa riferimento alla forza evocativa di questa parola, al suo significato sincretico di guida, mediatore, diplomatico tra mondi lontanissimi. Per quel che riguarda la traduzione dal russo all'italiano bisogna tener conto delle peculiarità della lingua russa, quel “qualcosa che le appartiene in modo esclusivo, un qualcosa che essa è” per dirla con Marina Cvetaeva. Alcune specificità sono la ricchezza di suffissi e prefissi che offrono innumerevoli possibilità di aggiungere significati inattesi e creare neologismi, le variazioni semantiche consentite dai due aspetti del verbo, perfettivo e imperfettivo, l'ordine delle parole spesso inverso a quello italiano, la precisione millimetrica dei termini che in italiano produce inevitabilmente uno sviluppo più lungo della pagina, con la necessità di controllarne le derive prolisse. Sono questi i casi in cui sia il testo che il ritmo vanno resi re-inventandoli.

Shishkin: cosa pensa di questo notevolissimo narratore? Che spazio si sente di dargli all'interno della letteratura contemporanea (russa e non solo)?

Ho avuto la fortuna di conoscere Shishkin oltre che di tradurlo, cosa non scontata nel rapporto fra scrittore e traduttore. Quindi quando lei mi chiede cosa penso di Shishkin io devo a un tempo distinguere e unire lo scrittore e il testo. Durante le traduzioni abbiamo spesso lavorato insieme e lui mi ha letto a voce alta interi passaggi. Quindi ho potuto tradurre con “nell'orecchio il battito” del russo, “la sinfonia che si muove nel profondo” per citare Rimbaud. Non dimentichiamo poi che Shishkin sta compiendo un'esperienza artistica nel senso più completo, dove arte e vita sono in contatto diretto. Per esempio la sua scelta di vivere e soprattutto scrivere in russo vivendo lontano dalla Russia è fondamentale per capire la sua prosa. La sua lontananza dalla Russia gli concede il recupero pieno di una lingua letteraria fuori dagli schemi, esente da minimalismi, colta e realistica insieme, sorvegliata e libera, capace di continui trapassi di registro e svincolata da cliché di ambienti o di correnti più o meno accreditati. Il suo “esilio”, seppure in questo caso un esilio della postmodernità che è a sua volta un tratto di stile, affaccia sulla lingua madre e vi si installa come in una casa. La sua lingua infatti è quella di un esule, che si è portato con sé la lingua che ha imparato e non la dimentica, anzi straordinariamente la ritrova. La mette in salvo. Parlando con lui, un giorno mi ha detto che non è interessato al linguaggio di strada. Ogni volta che torna a Mosca è colpito dal deperimento linguistico corrente. Per cui il suo vivere immerso in una lingua straniera - lo svizzero-tedesco - diviene una sorta di cuscinetto che allontana la prospettiva sulla lingua d'origine, consentendo di metterne a fuoco i contorni amati. Sembra quasi che tramite questa accorta delocazione lo scrittore da un lato attinga più liberamente alla lingua letteraria e dall'altro colga il suono autentico della parola viva come accade in una lingua ricordata. Questa posizione fa di lui un “caso” nel panorama della letteratura russa contemporanea. Gli scrittori russi più noti in occidente nei loro romanzi danno un ritratto dissacrante e di rottura rispetto sia alla storia che alla tradizione letteraria, servendosi di uno stile spezzato, breve, moderno. Shishkin per contro rigetta tutti i diktat stilistici in voga, ad esempio il cliché minimalista, il turpiloquio, l'azzeramento della memoria colta, parla della Russia scandagliandone le radici colte e popolari e le fa rivivere, ripristina un periodare ampio, da perdere il fiato, un'architettura testuale impervia, persino una mole narrativa, nel senso meramente quantitativo delle pagine, che rimandano al romanzo della tradizione russa. Quindi il suo spazio nella letteratura attuale non solo russa è quello di una voce contemporanea che però porta con sé la sapienza, la solennità ma anche il tratto leggero, la maestria, quello che in arte si chiamerebbe la “mano”, ovvero il saper scrivere ad infinitum , saper orchestrare, oggi, un virtuosismo polifonico.

Cosa pensa del rapporto tra Shishkin e l'illustrissima tradizione letteraria russa? Le faccio questa domanda perché mi pare uno dei nodi fondamentali dei romanzi tradotti apparsi finora. Ricordo inoltre un passaggio ironico e particolarmente - credo - significativo di Capelvenere , in cui un uomo (il fidanzato di Isabella) scrive dal fronte nel dicembre del 1915: «Ieri per la prima volta mi sono davvero trovato in pericolo. Una granata è caduta a due passi da me. Dio mi ha risparmiato. [...] E sai qual è stata la cosa più curiosa? I miei pensieri nel momento in cui la granata volava verso di me. Forse credi che il tuo eroe guardando il cielo si sentisse come Andrej Bolkonskij sul campo di Austerlitz o qualcosa del genere? Niente affatto. Pensavo distrattamente che qui hanno inventato di tenere nelle tasche del cappotto piccoli scaldini: braci che ardono in una custodia metallica rivestita di velluto. È una vera fortuna non essere morto in quel momento! Sarebbe stato un peccato morire con tali sciocchezze in testa».

Forse in parte ho già risposto. Devo però precisare che uno scrittore da un lato inventa il suo dire dall'altro include in quel dire anche l'idea di ciò che lo scrittore deve essere. In questo Shishkin si ricollega alla grande tradizione letteraria russa perché il suo concetto di scrittore è un concetto “forte”, così come nei suoi romanzi balzano sulla scena la vita stessa e la meditazione sui grandi temi. Se prendiamo i capolavori di Dostoevskij, uno fra tutti i Karamazov , ebbene da un lato c'è il grande romanzo di meditazione ma dall'altro c'è anche il romanzo a trama, la venatura di “giallo”, la ricostruzione della società del tempo e la storia delle anime. In Shishkin, l'aspetto colto e filosofico non esclude una portata di intrattenimento, una maestria di suspense che cattura il lettore nei suoi ingranaggi dirottandolo in una miriade di storie. Nella Presa di Izmail sin dalle prime pagine la descrizione precisa dei gesti, dei fatti e delle cose si articola nella slavina di parole, un periodare torrenziale che ricorda principalmente Gogol'. Ma questa continuità con la tradizione è completamente rinnovata, nel senso che tutte le connessioni sequenziali e i trapassi del racconto saltano perché saltano tempo e spazio, tocca al lettore ripescare le minuscole tracce disseminate, stabilire le connessioni fra storie e personaggi, un modo di costruire il romanzo che si pone lungo la scia che nel '900 va da Proust a Joyce a Svevo, e aggancia saldamente Shishkin alla modernità. Lo spinge poi oltre perché la frantumazione delle storie, la disgregazione dell'identità dei personaggi e la reversibilità delle sequenze narrative sono endemiche. Il debito al passato letterario è sfacciatamente dichiarato dal primo all'ultimo rigo di Capelvenere , ma ancor più, nella Presa di Izmail , attraverso la messe di rimandi, reminiscenze, citazioni che si intrecciano e vivono in totale simbiosi con l'ispirazione e l'invenzione. Le fondamenta su cui poggia l'opera di Shishkin sono quindi le letterature classiche (greca, latina, russa dalle origini fino a noi), ma la sua struttura non è né centripeta né lineare come nel romanzo di tradizione, gli accessi sono infiniti, il lettore può farvi incursioni anche disordinate ma compiute. E questo rinnovamento dell'architettura del testo si ritrova spesso nelle opere destinate a modificare il canone, per cui va detto che è la forma stessa di questi romanzi a essere nuova e spiazzante.

Insomma, Shishkin è un autore decisamente complesso. Il suo stile, tanto in Capelvenere quanto ne La presa di Izmail , si spinge con incredibile facilità e naturalezza tra vari registri linguistici, nonché tra un genere e l'altro. Quali sono le maggiori difficoltà che ha incontrato nel tradurre i due romanzi? E, più in generale, come ha vissuto e come vive l'esperienza di traduzione con Shishkin?

Se tradurre è traghettare, posso dirle che all'inizio del lavoro mi sono sentita su un guscio di noce! Credo anche di essere colata a picco più volte. Ricordo che l a prima volta che ho sfogliato il dattiloscritto di Capelvenere , cioè ho compiuto quel sopralluogo del testo originale che è il primo approccio di ogni lavoro di traduzione, una specie di viaggio in una terra straniera di cui si nota l'orografia, ho visto un paesaggio vasto, multiforme per varietà di stili e registri linguistici, e popolato da una folla di personaggi o comparse. Anche tipograficamente mostra questo aspetto di varianza e ricorrenza (basta pensare all'impaginato del diario, delle interviste, delle lettere, dell'autobiografia e della sintesi finale che apre a una prosa lirica). Di fronte a libri come questi nasce subito la necessità di capire come son fatti, di scarnificarli o tracciarne, come indica Valerio Magrelli, “una piantina”. Da un lato c'è la vastità del testo, il fatto che quando lo stai attraversando perdi l'orizzonte e talvolta non sai più esattamente dove ti trovi, entri ed esci dalle parole dello scrittore, ti immergi ed emergi dalla pagina, finisci con lo scandire la tua vita su questo ritmo. Dall'altro ci sono improvvisi ostacoli magari minimi ma apparentemente insuperabili, che richiedono un tempo indeterminato per essere risolti. Mi riferisco agli aforismi linguistici, ai realia, ai neologismi, che danno per scontato uno sfondo culturale diverso e quindi paiono impermeabili alla traduzione e devono essere prima compresi per trovarne il traslato; oppure ai passi in slavo antico che ho reso rifacendomi al nostro volgare ma dove la solennità o l'ironia vanno largamente perdute: talvolta per continuare a navigare si deve buttare qualcosa anche se prezioso e si ha un senso di sconfitta quando la traduzione tocca il suo paradosso, d'altronde il traduttore deve anche rendere fruibili le plaghe più ardue del testo e lo fa accontentandosi di restituire il sapore della lingua più che il contenuto letterale; per quelle parti dove occorreva il sostegno di una spiegazione, non ho potuto abolire le note ma, per non rendere invalicabile il testo e strabico il lettore, ho cercato di limitarle e sono state riportate alla fine del libro. Il lavoro più complesso è stato quello di far sentire l'amalgama di stili, di generi e registri: è un'opera che contiene decine di lingue, che a volte alterna versi e prose, filastrocche e scioglilingua, e che soprattutto trova la sua cifra inconfondibile nello spiazzamento e nei trapassi di stile. In Capelvenere , per esempio, le lettere che il padre scrive al figlio alternano la quotidianità prosaica e contemporanea e lo stile arcaico, magico e giocoso. Ne è perfetta sintesi l'appellativo del bambino Nabuccodonosauro che si forma da Nabuccodonosor e Dinosauro. Altro aspetto difficoltoso per la resa in italiano è stata la varietà di metafore sofisticate e inusuali. Nell'opera di Shishkin emerge un tratto visivo forte, c'è una lettura del paesaggio, delle cose come fossero simboli, segni grafici. A tal punto è presente questo aspetto che Shishkin per precisare meglio i significati delle immagini e scene più inconsuete ha voluto disegnarmele.

Quali sono i suoi progetti futuri di traduttrice? Continuerà a lavorare con Shishkin?

Al momento sto traducendo un romanzo di Elena Bochorishvili, scrittrice georgiana che vive in Canada. Opera , questo il titolo, sarà pubblicato sempre dalla casa editrice romana Voland che da anni porta coraggiosamente e caparbiamente in Italia gli autori dell'est più innovativi. E naturalmente mi auguro di continuare a tradurre Shishkin, di avere presto tra le mani un suo nuovo romanzo.

Propos recueillis par Yari Bernasconi