Pietro Montorfani
nuovo direttore della rivista Cenobio

Cenobio è la “Rivista trimestrale di cultura” ticinese fondata mezzo secolo fa da Pier Riccardo Frigeri (1918-2005) e quella che, negli anni, è diventata il periodico eclettico per definizione nella Svizzera italiana. Con l’arrivo, all’inizio del 2008, del nuovo direttore responsabile Pietro Montorfani (al posto di Manuel Rossello), Cenobio ha cambiato aspetto grafico e ha riorganizzato i propri contenuti.

Pietro Montorfani è nato a Bellinzona il 23 maggio 1980. Dopo aver lavorato come redattore culturale presso il “Giornale del Popolo”, si è trasferito negli Stati Uniti dove è stato per due anni assistente di letteratura italiana alla University of Mary Washington. Ha conseguito il dottorato in letteratura del Rinascimento all’Università Cattolica di Milano e ha esordito come poeta nel 2005, con la raccolta di poesie Intuisco che ridi, Viganello, Alla chiara fonte. Dal 1° gennaio del 2008 dirige la rivista “Cenobio”

 

Tre domande a Pietro Montorfani (par Yari Bernasconi)

Pietro Montorfani, lei succede a Manuel Rossello come nuovo direttore responsabile di “Cenobio” (il nuovo comitato di redazione comprende Christian Marazzi, Fabio Merlini e Daniela Persico). L’entusiasmo con cui affronta questa nuova avventura traspare immediatamente dalla sua frizzante introduzione al primo fascicolo del 2008 (N.1, Anno LVII, gennaio-marzo), Al lettore, dove si legge del nuovo «genere di interventi, rubriche e contributi che d’ora innanzi si vorrebbe cercare di proporre» e del desiderio di «un “eclettismo” [“Cenobio”, infatti, come lei stesso sottolinea, è una rivista culturale che si è detta sempre e prima di tutto eclettica] dei contatti oltre che dei contenuti»…

Con la formula “eclettismo dei contatti, oltre che dei contenuti” intendevo dar voce ad un desiderio che spero non sia soltanto mio, ma di tutta la redazione della rivista: condividere, all’interno di un rapporto umano stimolante e sincero, lo stesso interesse per la cultura e le manifestazioni artistiche del nostro tempo. Volevo insomma evitare che “Cenobio” diventasse soltanto una casella postale alla quale spedire saggi “con preghiera di pubblicazione”, invece di un preziosissimo luogo di confronto e di dibattito. È un modo di lavorare nella (e per la) cultura che ho appreso letteralmente “a tavola”, durante momenti conviviali con persone stimolanti come - per citare un esempio ticinese - il giovane cenacolo di poeti e di affezionati della poesia che ruota attorno alle edizioni “alla chiara fonte” di Mauro Valsangiacomo e di sua moglie Chiara. Con l’ausilio delle nuove tecnologie è diventato sempre più facile reperire materiale per una rivista culturale (settimanalmente ricevo email e contributi dai luoghi più lontani: Londra, Finlandia, Turchia, eccetera) ma nulla può sostituire il contatto diretto con le persone. Per questo vorremmo anche incrementare il numero di incontri pubblici e di manifestazioni, come è accaduto recentemente a Lugano in occasione del cinquantesimo dalla morte del poeta Valerio Abbondio. La stessa metafora del “cenobio” cui si ispira il titolo della nostra rivista sembra suggerire proprio questa dimensione, non elitaria ma “comunitaria” del mondo culturale.
Quanto all’eclettismo dei contenuti, negli ultimi anni i confini tematici della rivista si sono allargati a dismisura, ben oltre quanto poteva certo prevedere, mezzo secolo, fa il fondatore Pier Riccardo Frigeri (sono cambiati i tempi e nessuno si meraviglia di leggere su “Cenobio” ricerche a carattere sportivo, tecnologico o alimentare). Ci piacerebbe continuare anche in futuro in questa direzione tematicamente “ecumenica”, a patto però che dietro i testi si celi una vera necessità di indagine della realtà che ci circonda (e che non sia insomma un luogo dove coltivare piccoli narcisismi).

Nella già citata introduzione, lei parla di questi «anni segnati dal preoccupante avanzare di una non-cultura che ha i tratti di una nuova barbarie», insistendo sugli intenti – che non esiterei a definire “etici” – della rivista: «tramandare alle nuove generazioni – l’immagine è in The road (2007), il capolavoro apocalittico dello scrittore texano Cormac McCarthy – il sacro fuoco della tradizione, dell’educazione e della cultura, elementi necessari al sostentamento del genere umano non meno dell’acqua, del cibo o del sonno quotidiano». Quanto la spaventa questa giusta, nobilissima “missione”? Quali sono le sue più grandi paure? “Cenobio”, in fondo, è una rivista che al di là degli ambienti specialistici incute una certa diffidenza per la sua presunta complessità e specificità: come far fronte – sempre che per lei il problema esista – all’annosa opposizione tra linguaggio divulgativo e linguaggio scientifico?

Il problema del linguaggio, come della comunicabilità e della spendibilità degli argomenti proposti, attraversa il mondo della cultura e dell’arte in tutti gli ambiti. Una rivista come la nostra non avrà mai grande visibilità e nemmeno diverrà mai una rivista per tutti. Sarebbe come pretendere di riempire lo stadio di San Siro con un quartetto d’archi invece che con Vasco Rossi, è inutile illudersi su questo punto. Eppure è un tipo di attività che rimane necessaria e che, contrariamente a quanto molti dicono, non credo sia vicina all’estinzione. Ci sono cose che soltanto un quartetto d’archi può dire e che una rockstar, invece, non arriverà mai a suscitare: questa è, tutto sommato, la nostra forza, una forza che nasce dall’oggetto (la creazione artistica, la realtà in tutte le sue espressioni) e non dalla nostra volontà di divulgatori.
Certo alcuni accorgimenti sono possibili, per questo la mia prima scelta è stata un rinnovo della grafica: una rivista che assomiglia un po’ ad un sito web non è necessariamente più bella ma è sicuramente più vicina alle abitudini dei lettori di oggi. Vorrei inoltre, con il tempo, pubblicare su “Cenobio” articoli sempre più brevi (4 o 5 pagine) e senza note a piè di pagina, stimolando gli autori a dire quello che hanno in mente in modo più diretto e divulgativo nella certezza che, tolto qualche fronzolo, il “cuore” delle loro ricerche rimanga intatto. Ci saranno sempre altri luoghi pronti ad accogliere saggi di 30 o 40 pagine, ma se ho capito bene quali sono oggi i lettori di “Cenobio”, noi dovremmo cercare di muoverci con altri criteri. Lo stesso compromesso è stato ricercato recentemente in altri ambiti (“Cinema d’autore per tutti” è un’intelligente slogan della Sezione cinema dell’Ufficio federale della cultura, ad esempio) e pare funzionare. Con qualche modifica anche “Cenobio” potrà forse entrare nelle sale d’aspetto di medici e dentisti e farsi leggere anche solo per dieci minuti.

Per ciò che concerne la Svizzera italiana, «dimensione» che ovviamente resta «preponderante» per “Cenobio”, leggo con piacere che «sarà inevitabile […] un continuo sconfinamento verso sud (Milano e oltre), come verso tutti quei luoghi in cui affondano le diramazioni di questo insospettato “cenobio” virtuale». È fondamentale – non finiremo mai di ripeterlo – che la Svizzera italiana (in particolare il Ticino) approfitti anzitutto della sua posizione geografica favorevole e si allarghi culturalmente a sud, verso l’Italia, e a nord, verso civiltà diverse eppure confinanti come quella francese e quella germanica: non c’è maggior pericolo della chiusura a riccio, dei timori infondati per la perdita di una specificità locale che solo con l’apertura e il confronto può mantenersi, svilupparsi ed evitare un impoverimento generale. Cosa pensa dell’attuale situazione culturale (soprattutto letteraria) della Svizzera italiana? Cosa significa, per lei (che, non va dimenticato, è anche poeta), essere il direttore di una rivista nella Svizzera italiana?

Ho intuito per la prima volta quanto il mondo culturale ticinese spesso sopravvaluti se stesso quando mi sono trasferito a Milano per andare all’università. Pochissimi nomi, tra coloro i quali per molti di noi sono quasi dei “mostri sacri” (Orelli, Pusterla), hanno avuto laggiù una certa eco. Diciamo che questa mia esperienza milanese mi ha aiutato a calibrare i miei giudizi su di un orizzonte più vasto e complesso. Ho invece capito l’importanza straordinaria della nostra tradizione culturale (anche svizzera, anche ticinese) quando mi sono trasferito negli Stati Uniti, verso i quali nonostante alcune buone cose (il mio amato Cormac McCarthy, ad esempio) non dobbiamo avere alcun complesso di inferiorità, anzi. La globalizzazione culturale ha messo in circolo un gran quantità di autori e di artisti, ma non credo che l’entusiasmo di tante “scoperte” (il cinema sudamericano, la letteratura africana, la world music) sia destinato a durare troppo a lungo. L’Europa è da sempre, che si voglia o no, la depositaria e la garante delle più grandi conquiste culturali e artistiche: possiamo girare il mondo quanto vogliamo, ma alla fine torneremo sempre a Firenze, Venezia o Roma, ascolteremo sempre Bach e Mozart e non ci stancheremo mai di guardare i Rembrandt e i Caravaggio. La Svizzera italiana ha, evidentemente, una piccolissima parte in tutto ciò, ma fintanto che resterà attaccata alla locomotiva italiana (o francese, o tedesca, o britannica) avrà sempre qualche cosa da dire. Sono contento, da questo punto di vista, quando qualche giovane autore ticinese riesce a farsi conoscere anche in Italia, magari con una pubblicazione importante. Ma resto comunque convinto che quanto possiamo imparare da loro, specie in giovane età, resti maggiore di quanto possiamo offrire noi. Vorrei che il Ticino non rimanesse soltanto un piccolo biotopo culturale a cui guardare con curiosità, ma che sappia invece diventare ricettivo a quanto di meglio proviene dall’esterno.

Propos recueillis par Yari Bernasconi