Di come la farfalla tornò
bruco
Limmagine della Svizzera: storia di una metamorfosi
1848-1998: un anniversario-occasione
per riflettere sul nostro Paese e sulla sua immagine. E perché
no? via internet . E perché no ? via Culturactif e la
sua finestra.
Proviamoci dunque. Non si può,
credo, parlare dellimmagine del proprio Paese e dei
suoi mutamenti senza parlare anche un po di se stessi.
Poiché limmagine è qualcosa di impalpabile,
di soggettivo, qualcosa filtrato dalle radici, dalle esperienze,
dagli incontri di ognuno. E pure poiché la propria
Patria, prima di essere una questione di passaporto, è
una questione di affetti. Torniamo quindi indietro nel tempo,
nel mio tempo, agli anni Sessanta- Settanta. Ad una soffitta
nellantica casa paterna. Al confine Sud della Svizzera.
La storia in soffitta
"Chi era quelluomo in uniforme,
lo sguardo fiero ?" Me lo chiedevo osservando il quadro
che riposava in un angolo, del solaio come una vecchia locandina
di un film dimenticato. Era, mi spiegarono, il generale Henri
Guisan, che ci aveva difesi dalla guerra. "E quellaltro,
ancora sotto il cui ritratto stava scritto Potete uccidere
me ma lidea che è dentro di me non morirà
mai"? Altra domanda, altra spiegazione: era Giacomo
Matteotti, deputato socialista italiano massacrato dai fascisti
nel 1924. Due domande fra le tante che da bambina mi ero posta
per capire chi e cosa cera prima. Guerre, generali,
assassini, fascisti. Davanti a me avevo il boom economico,
il benessere, tutto era diverso. Il passato tanto lontano.
Così tassello dopo tassello, risposta dopo risposta,
mi ero costruita una visione degli anni addietro. Mio padre
raccontava le storie di frontiera, i suoi ricordi di gioventù,
la mobilitazione del nonno, i bagliori di morte che si vedevano
guardando verso Milano al momento dei bombardamenti. A scuola
imparavo date, memorizzavo fatti, volti,cifre. Il quadro della
mia Patria si faceva più dettagliato.
Il mio Paese era stato neutrale: armato
fino ai denti e chiuso dentro le sue alpi era stato risparmiato
dalla tragedia bellica e, forte del suo attaccamento agli
antichi ideali di libertà non aveva ceduto alla follia
nazi-fascista. Almeno così credevo. Cre-de-vo. Lo mostravo
allora con fierezza quel librettino rossocrociato alle frontiere.
Mi sembrava quello di un paese graziato da dio o dal destino:
un paese prospero, anzi il più prospero del globo,
che vedeva uomini e donne di altri paesi vicini giungervi
con la valigia in mano alla ricerca di lavoro. Che terra benedetta
la nostra! Io, ticinese con le radici vicino a quella che
noi chiamiamo "la ramina" (la rete di frontiera),
lessi così il passato. Quanti figli del baby-boom elvetico
avranno fatto la stessa cosa? Con altri aneddoti, altre vicende
personali, altri ricordi, altri quadri scovati nelle soffitte
di altri cantoni e di altri nonni.
Come era bella quella farfalla. Aveva
i suoi granitici miti, la sua bella immagine. Ad uso interno
ed esterno.
Le crepe nel granito
Poi vennero gli anni Ottanta-Novanta.
Le prime vere crepe. La montagna di schede ammucchiate dalla
polizia federale svelavano una Svizzera che a modo suo aveva
preso parte alla guerra fredda. Migliaia di cittadini ignari
erano stati osservati, pedinati, registrati e giustamente
si sentirono traditi. Un primo capitolo del nostro passato
andava riscritto: in casa nostra, nel gelo della guerra fredda,
cera stato un Grande fratello dalle lunghe antenne orientate
ad Est che spiava i suoi cittadini. Brutta faccenda. Venne
affrontata con coraggio: la voglia di catarsi era grande.
Erano gli anni del magico 1989 che, sulle rovine del Muro,
figliarono slanci ideali di pace eterna. Molti di questi morirono
in tenera età. Tanti li uccise la tragedia dellex-Jugoslavia.
Celebrammo comunque noi stessi come
avremmo voluto essere, o ancora credevamo di essere, con il
Settecentesimo: 1291-1991, lultima volta dei miti inscalfiti,
noi migliori, noi baciati dalla sorte, noi esempio per altri
popoli, noi grandi lavoratori, mentre tutto attorno stava
cambiando. Fu quello uno degli ultimi battiti dali della
farfalla del dopoguerra. Il suo fascino, va pur detto, aveva
contagiato anche chi ci guardava da fuori e ogni tanto ci
visitava da turista. Da noi tutto era così pulito,
funzionante, tranquillo. Tutto cioccolato ed orologi, un Heidiland
senza ombre negli articoli e nei documentari che parlavano
di noi. E poi eravamo in testa alle classifiche della ricchezza
pro capite mondiale. Col nostro superfranco allestero,
non passavamo certo inosservati. Cosa si voleva di più?
Così, fra le altre cose, il 6 dicembre 1992 dicemmo
no alla nostra adesione allo Spazio economico. La farfalla
era un riccio. Che diamine? Potevamo cavarcela da soli, Bruxelles
era soltanto una Babele di burocrazia, una torre che non avrebbe
mai funzionato. E il Ticino seguì la Svizzera tedesca.
Ma alla prima crepa nellimmaginario
collettivo se ne aggiunsero altre: concrete e tangibili. Le
portò la crisi economica, una crisi profonda, strana
e tenacissima che ci colse di sorpresa e ci angosciò.
Colpì portafoglio e morale. Sì, perché
in un batter docchio - nel giro di qualche anno- spazzò
via le certezze accumulate in decenni. La disoccupazione,
la nuova povertà, i crateri nelle finanze pubbliche,
la solidarietà confederale che cominciava a scricchiolare.
Uno scricchiolio da noi tramutatosi in un accentuato (e spesso
facilone) riflesso antibernese. Perfino le grandi banche (sempre
meno elvetiche e sempre più globalizzate) cominciarono
a licenziare a go-go. e a fondersi le une con le altre. Du
jamais vu. E quei negoziati con Bruxelles che avanzavano a
singhiozzo. Ma come? Perché ci facevano attendere tanto?
E coserano quelle code alla frontiera perché
non avevamo sottoscritto gli accordi di Schengen? E gli esperimenti
locali fatti con leuro a due passi dal nostro confine?
Dopo le certezze i dubbi. I dubbi di oggi. Il continente si
muove: che faccia sul serio? che la scommessa, dura e difficile,
dellEuropa dei Quindici questa volta riesca? La farfalla
si è ormai posata, le sue ali sono di piombo. Blocher
può continuare a nutrire pericolose illusioni: la realtà,
per chi la sa vedere, è e sarà sempre più
testarda.
E poi, per finire, anche quellaltra
brutta storia riaffiorata dal passato: una storia fatta di
oro rubato ai nazisti finito nei forzieri della banca nazionale
e di conti bancari che dormivano sonni tranquilli, prima che
un senatore americano si decise a farne (più per proprio
tornaconto che per ideali ma questo per noi poco cambia) il
suo cavallo di battaglia politico. Un altro capitolo da riscrivere.
Un altro sfregio alla nostra immagine, quella che ci portiamo
appresso, dentro di noi fra i nostri affetti, e quella di
chi ci osserva dallesterno. Eh sì, davanti ai
ritratti di Guisan e di Matteotti ci sarebbe molto, molto
altro da spiegare ai ragazzini di oggi E vero, potremmo
dire loro che allora eravamo in buona compagnia, che altri
paesi si comportarono come noi, che a tacere non fummo i soli,
che tanti patteggiarono con il Terzo Reich, che cera
la guerra. E potremmo anche dire, anzi diciamo, che dietro
i j'accuse c'i sono affari miliardari e che l'argomento assicura
altre oceano voti e successi elettorali e che la buona volontà
elvetica nel riparare gli errori compiuti non viene riconosciuta.
Ma l'immagine quasi immacolata che ci portavamo dentro è
finita in mille pezzi. Era tanto bella quanto fasulla. La
farfalla ha ormai lasciato il posto ad un bruco, insicuro,
lento, impaurito.
Un bruco alla ricerca di una nuova
identità che per il momento erra fra ricordi, vecchi
piedestalli e nuovi problemi.
Il coraggio di osare
E verranno gli anni Duemila. Noi siamo
fiduciosi: quell"animaletto" riuscirà
a superare le prove, a guardarsi allo specchio senza ipocrisia,
a ricostruire il suo passato e a rilustrare quegli ideali
che effettivamente sono suoi ed appartengono alla sua storia,
a quella vera. Non quella del primo della classe senza macchia,
ma quella di uno stato Willensnation che fin qui è
riuscito a far convivere democraticamente diverse etnie sviluppando
un sistema politico basato sul dialogo, sul rispetto reciproco,
sullamicizia confederale. Un sistema da ammodernare
profondamente, coraggiosamente e rapidamente: siamo alle soglie
del nuovo secolo in un mondo globalizzato che richiede ben
altre velocità istituzionali (che non sono più
quelle della nostra democrazia direttissima) e anche maggiori
aperture, economiche e politiche. Ma un sistema, e ci teniamo
a sottolinearlo contro tentazioni nichiliste, che contiene
un capitale inestimabile di valori democratici di cui anche
il mondo nellera di internet ha bisogno. Eccome se ne
ha bisogno: sono il solo antidoto contro conflitti e guerre.
Non compiamo quindi lerrore di rinnegare e buttare tutto
e/o quello di barricarci in casa . E chissà che non
sia proprio il riandare al 1848, alla sua forza innovativa
e rivoluzionaria, la ricarica necessaria per ripensare a fondo
la Svizzera.
Il mio più che un interrogativo
è un auspicio: urge osare, anche a rischio di sbagliare.
Ne siamo ancora capaci?
di Monica Piffaretti
direttrice de LaRegioneTicino
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