L'Associazione Globus et Locus nasce nel 1997
con lo scopo di - citiamo dallo statuto - «affrontare le problematiche che le trasformazioni economiche, culturali e sociali, collegate ai processi di globalizzazione in atto, stanno producendo nel contesto italiano». Da qui nasce il termine “glocalizzazione”: di cosa si tratta?
Il termine “glocal” è stato coniato all'inizio degli anni '90 da Roland Robertson. In sintesi, si tratta della connessione diretta a livello culturale ed economico fra eventi globali e quelli locali. Ciò è stato reso possibile in primo luogo a causa dell'azzeramento del tempo e dello spazio provocato dalla mobilità crescente. Oggi, chiunque può arrivare in qualsiasi luogo del globo in meno di 24 ore e i segni si muovono istantaneamente. Un esempio per tutti a livello culturologico. La casa editrice “Epoche”, diretta dalla ticinese Gaia Amaducci e che traduce in italiano la letteratura africana, ha portato in Ticino l'Africa e si suoi temi allorché sono state organizzate conferenze e presentazioni di una realtà poco nota da noi. Il local Ticino si è quindi arricchito di una consapevolezza cominciando a interagire con una dimensione per lo più sconosciuta da noi. Che poi la casa editrice stessa abbia la sua ragione sociale a Milano ha avuto in questo caso un'importanza relativa: oggi essa è presente e apprezzata nella Svizzera italiana. Per quel che concerne l'associazione Globus et Locus, essa riunisce Regioni, Camere di Commercio, Fondazioni e Università del Nord Italia comprendendo nella sua partnership anche la Città di Lugano. La filosofia di Globus et Locus è transfrontaliera con particolare attenzione al modello confederale svizzero, tollerante, decentrato e aperto alle minoranze e quindi intrinsecamente glocal.
All'interno del programma della Globus et Locus ha preso spazio il “Progetto Italici”, che riguarda da vicino anche la Svizzera italiana. Cos'è l'italicità? In cosa consiste il progetto?
Il Progetto Italici ha per scopo di stringere i contatti all'interno di una comunità globale di 250 milioni di persone con cultura e valori condivisi gli italici essendo gli italiani, gli svizzeri italiani, i dalmati, gli istriani, i maltesi, i sammarinesi, i rispettivi oriundi nel mondo e tutti gli italofili. I valori italici sono quelli “storici” della tolleranza, della pace, dell'accoglienza, del buon gusto e del buon vivere. Quest'estate, a seguito di un interessante dibattito sull'identità ticinese svoltosi sui quotidiani svizzeroitaliani e che presto sfocerà in un libro pamphlet, il tema di una seconda appartenenza italica, accanto a quella nazionale svizzera, è stato recepito come positivo e apportatore di significato per tutti gli italofoni elvetici. Riconoscersi nell'italicità aiuta, infatti, sia a difendere la lingua italiana in Svizzera sia a considerare proprio la Svizzera italiana come il barometro dell'efficacia del confederalismo elvetico. Qualora la cultura italofona fosse misconosciuta in Svizzera si potrebbe ancora parlare di confederalismo e di attenzione alle minoranze? La risposta è ovviamente no ed è rallegrante che il mondo politico svizzero e finanche la sua diplomazia comincino a rendersene conto.
Ci permetta un certo stupore: ci convince l'idea di allacciare contatti facilitati dalla lingua, dalla mobilità e dai nuovi mezzi di comunicazione fra comunità geograficamente lontane e con storie diverse. Ma in che cosa i valori di “pace”, di “accoglienza”, di “buon gusto” sarebbero particolarità italiche? Dall'impero romano alla Lega dei Ticinesi, passando dalla storia dei comuni e le repubbliche e tutta la storia del Novecento, non ci sembra che gli italici siano «storicamente» più (o meno) portati di altri sulla pace. Per quanto riguarda la tolleranza, non ci risulta che gli «italici» siano più tolleranti di altri - alcune dichiarazioni recenti di esponenti politici italiani sugli omosessuali, per fare un esempio, sarebbero impensabili o addirittura illegali in alcuni paesi d'Europa o negli Stati Uniti. Il buon gusto, poi, è una nozione assolutamente soggettiva, che ognuno o quasi si attribuisce… In che cosa, dunque, la nozione di «italicità» che lei espone sarebbe diversa da un patriottismo di vecchio stile, con la semplice aggiunta di un carattere transnazionale, in una specie di «Grande Italia»?
L'italicità, più che un tratto caratteriale che definirebbe per ascendenza “di sangue” un'intera popolazione di un dato territorio e tutti i suoi discendenti, è un sentimento o una tendenza o un'aspirazione. Questo sentire e questa tendenza hanno sì radici storiche - gli italiani e gli italofoni confinanti sono stati più invasi che invasori, ad esempio - ma soprattutto derivano da un sostrato psicologico che il grande antropologo francese René Girard definisce “attenzione per le vittime” o “capacità di compassione”. Forse questo tratto empatico è stato inculcato come tendenza agli italici dai loro tutt'ora forti legami a livello familiare, e quindi condivisi, sta di fatto che a tutt'oggi, a parte i casi terribili delle metropoli spersonalizzanti, l'integrazione degli stranieri in arrivo in Italia (ma anche nel Canton Ticino) risulta più facile e più immediata, nonostante i mille problemi che sorgono a tal riguardo e le proteste populiste portate avanti da partiti isolazionisti, io li definirei “provincialisti”. Ognuno ha il provincialismo che si merita, si potrebbe dire, e la recente storia svizzera, col sistematico rigettare sugli “stranieri” delle difficoltà nazionali, lo dimostra. Ma si può, in coscienza, dire allora che la Svizzera non sia un Paese di accoglienza quando, storicamente e anche politicamente, lo è sempre stato (il Ticino lo è stato moltissimo)?
Per quel che riguarda Italia e italicità, bisogna distinguere. L'italicità, in quanto comunità di sentimento, non ha molto a che fare con lo stato-nazione Italia. Anzi, i tratti più riconoscibili dell'italicità si possono notare nell'incrocio culturale: i campanili delle chiese dalmate sono una copia in piccolo del campanile veneziano di San Marco (me lo ha fatto notare il celebre romanista berlinese Trabant); la star del basket americano Kobe Bryant, di colore e figlio di un cestista che giocava in Italia, parla un perfetto italiano e negli Stati Uniti è considerato una figura che rappresenta anche i tratti italici; lo stesso René Girard, francese che insegna a Stanford in California e che ho intervistato a Lugano per un quotidiano ticinese in occasione di un convegno, mi disse: oh, eccomi finalmente nel paese dove il dolce sì risuona - ci trovavamo in Ticino, in Svizzera. Insomma, l'italicità non rappresenta un Paese nazionale o il suo sistema economico o la sua storia, ma riunisce coloro che si identificano in un patrimonio culturale (ma io lo chiamerei umanistico) in grado di accettare l'altro e di provare condivisione e compassione per il diverso da sé. I tratti più immediati dell'italicità, quella simpatia e quella gioia di vivere che a qualche nordico - ma non a Goethe - potrà risultare a volte anche un po' invadente, avvicinano le genti di tutto il mondo anche ai prodotti fabbricati dagli italici (intendiamoci, gli italici di Roma ma anche quelli di Toronto e di Sydney). Sono convinto che il successo del fashion di matrice italica o della cucina “italiana” (molti, nel mondo, aprono ristoranti “italiani” che di italiano hanno solo il nome) ha a che fare proprio con questa gioia di vivere e con un'intrinseca condivisione dei valori della vita - voglia di pace, tolleranza, gusto per le cose belle. Potrà sembrare anche un cliché, ma parecchi italici - per tendenza o aspirazione - fanno veramente le cose “con amore”.
Tabù (Edizioni dell'Istituto Italiano di Cultura di Napoli) è il suo ultimo libro, un romanzo breve, uscito nell'aprile di quest'anno. La storia si sviluppa attorno ad Ascanio Rimaboschi, un giovane giornalista italiano nato e cresciuto in Svizzera, già docente all'Università di Zurigo e giramondo, che scatena «grandi polemiche» per la pubblicazione di un feuilleton su Martin Heidegger. Un episodio che lo catapulta in Italia, l'Italia agognata e sognata, alla corte del vecchio politico Carlo Corelli, per la realizzazione di un «progetto globale»: riunire gli italici di tutto il mondo, «come lui, con l'Italia nel cuore». Fino a che punto Ascanio Rimaboschi corrisponde a Sergej Roic? È, come sembra, il suo attaccamento al discorso sull'italicità ad averle ispirato il romanzo?
Tabù è un romanzo di fiction, che tuttavia prende spunto dalla realtà. Ogni giorno che passa un numero sempre maggiore di italici nel mondo si riconoscono sia nel nome che nei valori italici. In che modo questo “progetto globale” di una comunità di sentimento sovranazionale verrà attuato non è ancora dato di sapere. Nel romanzo ho cercato di tracciare una via e il personaggio di Ascanio Rimboschi, che per certi versi mi assomiglia, per altri è una finzione che dà, lo spero, slancio alla storia. Il titolo, Tabù , non è stato scelto a caso essendo i temi e i personaggi che vanno al di là di un discorso nazionale o nazionalistico rari se non inesistenti. Carlo Corelli, il grande vecchio, veglia sulla comprensione e la riuscita dell'idea italica. Alla fine avrà ragione lui?
Eppure, restando alla finzione del suo romanzo, Ascanio Rimaboschi s'immerge nell'ideale italico anche per opporsi alla realtà che l'aveva visto nascere e crescere, il «paese di strade diritte, di buone scuole, di chiese in cui nessuno, mai, avrebbe confessato alcunché»: la Svizzera. Quella Svizzera che, dice Ascanio, «per certi versi è ancora più tedesca della Germania»: significativo, visto che «gli italici dovevano lasciarsi alle spalle il peso della storia europea, i massacri, la supposta superiorità di questa o quell'altra razza, insomma, l'arroganza germanica, e librarsi sulle ali di arte, pace, qualità della vita, abbracciando convinti la tollerante, cantabile esistenza italica».
Per arrivare al punto, abbiamo l'impressione che,
parallelamente a ciò che lei ha chiamato «comunità di sentimento sovranazionale», delle voci - forse involontarie, forse fuori controllo - sottolineino una certa superiorità intrinseca del valore italico, come se questo fosse più giusto o più vero di altri. Allo stesso tempo, il personaggio di Carlo Corelli (la cui carriera politica «era sfociata in qualcosa di più di un ruolo istituzionale: era un leader, nel Nord Italia»), a New York per un ciclo di conferenze mentre gli Stati Uniti vengono sopraffatti dalle conseguenze delle avventure militari in Arabia, dice qualcosa che, in un certo senso,
si tinge di toni populistici e ci spaventa un po': «Corelli conosceva la storia di Roma e riteneva che essa, la storia, fosse veramente e compiutamente magistra vitae . Gli americani, la cui città si stendeva ai suoi piedi, non avevano imparato. Non sapevano. Non potevano. Non avrebbero risolto. [...] Loro, gli americani, hanno bisogno di un Galba pacifico e capace, si disse dopo essersi svegliato, inquieto, nel cuore della notte. Hanno bisogno di un generale della pace. Di un'idea di pace». Come risponde a queste perplessità?
Spero che il lettore di Tabù o colui che si avvicina all'italicità non cada nella consueta trappola di considerare un'idea che si propone positiva, come lo è senz'altro quella italica, come tentativo di dimostrare la superiorità di un popolo o di un'idea di fronte ad altri popoli e ad altre idee. L'italicità è una comunità di sentimento, un modo e forse anche un metodo per aprirsi alla vita e ai suoi valori più umani: bellezza, buon gusto, buon vivere, arte, pace. La nota un po' polemica che si può cogliere nel romanzo l'ho ricavata da un articolo della NZZ di qualche anno fa quando un corrispondente della testata zurighese commentò una conferenza tenutasi in città sull'Umanesimo latino. Il commento era arrogante: adesso anche i latini ci insegnano come vivere. L'italicità, direi, suggerisce che c'è un modo di vivere e di rapportarsi fra le persone più diretto e migliore rispetto all'efficientismo che a volte sconfina nell'aridità che si può cogliere nelle cittadelle del potere finanziario svizzero oppure in alcune delle peggiori nemesi del modo di pensare germanico. Per quel che concerne il generale romano Galba, si tratta invece di una battuta. Galba, nelle cronistorie di Tacito, viene dipinto come colui che tutti credevano il più adatto a governare, se non avesse governato veramente. Da qui il Galba “pacifico e capace”, tutto il contrario del Galba storico, sconfitto e incapace di unire Roma. A cura di Francesco Biamonte e Yari Bernasconi
Page créée le 03.12.07
Dernière mise à jour le 03.12.07
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