Guglielmo Volonterio, Dalle suggestioni del Parco alla Grande Festa del Cinema. Storia del Festival di Locarno 1946-1997,
Venezia, Marsilio, 1997, pp. 381.

Sul blasone per altri aspetti immacolato del Festival cinematografico di Locarno, che si accinge a festeggiare il mezzo secolo di vita, c'e' un'ombra nera. Nel '49 anziché premiare Ladri di biciclette di Vittorio De Sica, la giuria fece la vigliaccata di laureare un film francese oggi dimenticato, La ferme des sept pechés; e poiché anche i giurati erano sette, circolò subito la battuta "il Festival dei sette peccatori". Altre più pacifiche etichette furono applicate negli anni successivi alla rassegna: "Festival tranquillo", "Festival della cordialità". In una corrispondenza del lontano '52 scrivevo: "Questo di Locarno e' un festival alla buona, nonostante gli sforzi degli organizzatori per conferirgli un minimo di solennità.

Ogni sera nel Parco del Grand Hotel viene alzata la bandiera del Paese che presenta il film e il pubblico ascolta in piedi il relativo inno nazionale. Ma l'atmosfera ufficiale e' contraddetta dall'altoparlante che decanta i pregi dei prossimi film o le delizie del bar sottostante il teatro all'aperto". Il clima da sagra paesana era tuttavia percorso da fremiti irrequieti, che costituiscono il basso continuo del ponderoso saggio (400 pagine) di Guglielmo Volonterio Dalle suggestioni del Parco alla Grande Festa del Cinema - Storia del Festival di Locarno 1946 - 1997 (Marsilio). Un libro tanto impegnato e approfondito da costituire una delle cose che altri festival più grossi possono invidiare alla manifestazione verbanese. Sulla Mostra del Lido, per esempio, non esiste niente di simile. Comunque, ad onta del titolo scelto per il libro, Volonterio si rivela insensibile tanto alle suggestioni d'epoca quanto all'attuale festa: ovvero la mobilitazione serale di sei o sette mila spettatori nella platea di Piazza Grande davanti allo schermo più gigantesco d'Europa. In realtà l'autore gira e rigira il suo acuminato coltello in tutte le piaghe della rassegna: inizia con l'affermare che nacque a Locarno, "ambiente inadatto perché culturalmente involuto, chiuso su se stesso, sospettoso", solo perché a Lugano si erano rifiutati di tirar fuori i soldi; e continua deprecando i vizi congeniti di cinquant'anni di gestione: la diffidenza dei produttori, la grettezza degli esercenti, l'offensivo disinteresse di Cinecittà, gli ostinati tentativi del governo di Berna per imporre le proprie direttive all'insegna del brutale motto "Chi paga comanda", gli aperti attacchi degli svizzeri tedeschi. Su quest'ultimo aspetto ho qualche buffo ricordo personale. Di quando i giornali zurighesi attaccarono La Regina d'Africa di John Huston perché faceva perseguitare Bogart e la Hepburn dai germanici durante la prima guerra. O di quando sul retro delle fotografie del film bellico britannico La giungla degli implacabili ('55) apparve la cauta stampigliatura "Questa immagine non deve venir riprodotta nella BundesRepublik". O, peggio ancora, di quando nell'imminenza della proiezione di Le quattro giornate di Napoli (e vent'anni dopo il corrispettivo evento storico) fu affisso un manifesto in cui si leggeva, a beneficio degli ospiti tedeschi: il Grand Hotel "distanziert sich" (prende le distanze). Volonterio si sofferma su un diffuso atteggiamento di anticomunismo viscerale, tirando in ballo un'infame schedatura di tipo maccartista che certamente ci sarà stata. Su questo punto, però, le mie impressioni divergono. Infatti nel '58 scrivevo: "Negli anni grigi della "guerra fredda" gli amici ticinesi hanno saputo restare al di fuori della mischia, non hanno chiuso le porte in faccia a nessun Paese e a nessuna cinematografia: potremmo dire che hanno preso alla lettera lo "spirito di Locarno". Mi riferivo alla famosa e illusoria conferenza della pace svoltasi proprio al Grand Hotel nell'ottobre del '25; e anche al fatto che dalla Mostra di Venezia per cinque anni interi, dal '48 al '52, era stata cancellata la partecipazione dell'Urss. Nella stessa occasione, avendo ascoltato le doglianze del coraggioso animatore del festival, l'oriundo romagnolo Vinicio Beretta, che di svizzero non aveva proprio niente al di fuori del palpito libertario di Guglielmo Tell, vaticinavo: "Per non naufragare nel generico, Locarno dovrà puntare su una specializzazione. Potrebbe diventare il festival dei giovani registi di tutto il mondo: un banco di prova e un terreno d'incontro per gli esordienti, che in nessun altro luogo troverebbero un'accoglienza altrettanto generosa". E' accaduto proprio questo, dopo gli alti e bassi degli Anni '60 e '70, con l'avvento nell'81 di un direttore rigoroso e illuminato come David Streiff, al quale e' succeduto senza apparenti scosse il sinologo italiano Marco Müller. Tutti e due messi in grado di svolgere i loro ambiziosi e giovanilistici progetti dall'usbergo di un presidente di pura razza imprenditoriale lombarda. Onnipresente, pragmatico, sornione nel giocare al ribasso sul terreno intellettuale (in realtà e' un infallibile collezionista di arte moderna...), Raimondo Rezzonico può ricordare il vecchio Angelo Rizzoli quando fingendo di non capire le cose della cultura si batte immancabilmente dalla parte giusta. Oggi Locarno e' un festival che fa storia a sé, con Raimondo che invoca coram populo la Madonna del Sasso perché non faccia piovere sugli spettatori di Piazza Grande e Marco che rende omaggio in perfetto cinese ai delegati asiatici sempre più numerosi. Un appuntamento da non perdere, con i suoi riti cinefili di massa, le sue splendide retrospettive, le sue occasioni dialettiche. Volonterio definisce questo territorio del cinema d'autore uno "spazio autonomo"; e infatti solo qui si possono vedere bande di giovani prendere d'assalto le proiezioni dei film difficili, applaudire o fischiare, interrogare i cineasti. Da assiduo pellegrino del Verbano, dove ho fatto molte parti in commedia incluso il giurato e il produttore occasionale (Vela d'Argento per I basilischi, esordio di Lina Wertmuller) potrei scrivere un libro anch'io; e sarebbe, caro Volonterio, meno buono del tuo ma più assolutorio. Perché Locarno mi sembra ormai una componente essenziale del panorama culturale europeo. Senza questo grande piccolo festival il cinema moderno non sarebbe lo stesso.

Tullio Kezich
© Corriere della Sera
5.9.1997