Giovane poesia in Svizzera
Italiana (2)
Jurissevich - Martella - Lonati
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Jurissevich
- Martela - Lonati |
Elena Jurissevich, Salmi di secondo
tipo, Viganello, alla chiara fonte, 2005, pp. 35.
Elena Jurissevich
è nata a Lugano nel 1976, laureata presso la Facoltà
di Teologia protestante di Losanna e di Lettere di Ginevra;
è attualmente assistente in Ebraico e Antico Testamento
a Ginevra.
Christophe Martella, Brisco Delago,
Viganello, alla chiara fonte, 2005, pp. 60.
Christophe Martella
è nato a Brissago il 27 gennaio 1978, studia lettere
a Milano. È alla sua prima raccolta di poesie.
Leopoldo Lonati, Le parole che
so, postfazione di Dubravko Puek, Chiasso, edizioni
Leggere, 2005, pp. 115.
Leopoldo Lonati (1960)
vive a Lugano. Gli è precedentemente accaduto
di pubblicare Res Rem Rien con dieci incisioni di
Samuele Gabai (Hic et nunc e Giorgio Upiglio, Vacallo-Milano,
1996) e Griselle (Leggere, Chiasso, 1998).
Les jeunes poètes sont très
nombreux en Suisse italienne (cf. http://www.culturactif.ch/livredumois/juillet04poesia.htm)
. Or s'il est vrai que le Tessin a donné produit
des auteurs illustres (Bianconi, Martini, les Orelli, Pusterla),
un tel désir de poésie ne s'était pas
manifesté depuis longtemps. Ces jeunes voix sont
quelque fois encore maladroites, mais le plus souvent elles
impressionnent au contraire par leur maturité. Trois
livres sont présentés dans cette page, signés
Jurissevitch, Martella et Lonati.
Les poèmes d'Elena Jurissevitch relèvent d'un
surgissement rude et puissant, incandescent. La poésie
cultuvée de Christophe Martella se signale avant
tout par un sens précis et puissant du corps, et
par un sentiment nostalgique et fort du temps. Ses vers
sont parfois encore trop étudiés, et Martella
donne le meilleur de lui même là où
il ose davantage. Leopoldo Lonati, lui, avait déjà
publié un premier recueil prometteur il y a dix ans.
Ce nouveau livre confirme les tendances et les qualités
du précédent: une poésie du mot raréfié,
de la formule réduite au minimum vital, mais non
dénuée d'une dimension métatextuelle,
et qui ose prendre dans ce dernier recueil une direction
parfois mystique, contrebalancée par des éclats
ironiques.
(D'après l'article de Pierre
Lepori, ci-dessous)
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Tre
poesie : Jurissevich, Martella, Lonati |
Sono la tigre che ti stria il costato
per
abbeverarsi di sale alla collottola
sono la gazzella che si genuflette
contro la lama rossa
dell'alba e il gelso assetato che ti mummifica fra i bachi
sono l'homeless che ti dorme sul catrame
dietro lo scooter
sono la parrucchiera che ti strimpella i capelli e tu l'orchestri
ridendo
sono l'autostrada che ti spande e la casa che ti addensa
in legno
e sono questo pulviscolo che d'un dito
scosti dal labbro.
Elena Jurissevich (da Salmi
di secondo tipo)
T'incontro e ho a noia i pronomi, le
storie che dietro si tirano, strascico di un vestito da
sposa di seconda mano. Noia o forse scomoda indisposizione
per ciò che vivo e non calza il presente, piede che
calca la mia vita. Ma è l'ingiuria che mi chiedi.
A fatica spunto il primo salto di rospo dal torbido fango
nello stagno nuovo; il balzo rompe la quiete, s'agitano
i riflessi, festanti scintille e colori. Come la pelle novella
splende nell'acqua diafana e fresca. Sono. Come. Allora
il fondo degli avvenimenti si rivela nello stravolgerli,
chiamarli per simbolo, farli altro. Come i pronomi.
Solo le storie andate che si fanno epifania nel presente,
doni duraturi, resistono e sono altro.
Una cicatrice, feticcio di virilità che si era persa.
La chiave di casa che custodisco prima d'uscire da una qualche
porta di servizio, di rado passando per l'atrio o la corte
guarnita di piante da frutto, un arancio nano, un ulivo
in fiore, qualche ortensia o la passiflora rasa al muro,
che portano all'uscio maestro.
mai i nomi non mentono.
Christophe Martella (da Brisco
Delago)
Peggio sarebbe finire sul banco
Degli imputati per un maledetto
Massaggio cardiaco andato male
Per avergli sfondato il petto io
Che l'avevo tirato fuori dopo
Che erano finiti tutti dentro
L'acqua e uno era perfino volato
giù
dal
ponte
Un occhio volto dentro
E uno in basso
e uno
Leopoldo Lonati (da Le parole
che so)
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Poesia
che spezza la crosta del silenzio par
Pierre Lepori |
La Svizzera Italiana pullula di giovani poeti (cfr. http://www.culturactif.ch/livredumois/juillet04poesia.htm)
: è un dato degno di nota, poiché - se è
vero che tradizionalmente la letteratura svizzera di lingua
italiana ha dato nomi illustri alla letteratura tout
court (Bianconi, Martini, Giorgio e Giovanni Orelli,
Pusterla), da anni non si vedeva una tale voglia di versi
nella regione. Grazie anche all'apparire di nuove sigle
editoriali (progetti anche minuscoli ma con ambizioni d'apripista
e di raffinata qualità) le voci giovani - scomposte
talvolta, più spesso impressionanti per maturità
- sono ormai in gran numero. Questo in una regione in crisi
e mutazione, che sembra aver smarrito la voglia di qualità
intellettuale e creativa (tra manie di grandezza, imperativi
turistici e provincialismo ereditario). Nel teatro e nella
poesia, molti giovani svizzero-italiani trovano oggi uno
spazio in cui dire la lacerazione e la difficoltà
di essere al mondo, partendo da un io spesso soffocato,
cercando nella poesia una resistenza in forma di parole.
Elena
Jurissevich non è la promessa di una nuova
voce poetica: è qualcosa di simile a quel che Pierre
Emmanuel ha definito un "geyser", una forza espressiva
rude e potente che, dalle lande carsiche dell'indicibilità
s'apre un varco e riversa d'emblée sul lettore
un lirismo incandescente. "Tre cose più di
tutto all'universo / esserci, essere vera, dire vero",
s'apre con questa epigrafe Salmi di secondo tipo
(si noti il cimento d'un titolo programmatico e si tenga
presente che Jurissevich è titolare di una licenza
in teologia ed una in lettere) che bene racconta la necessità
di una "poesia onesta", che ha come fine
ultimo la dicibilità, la rottura di una crosta di
silenzio. Poesia esplosiva, dunque, che tuttavia rifiuta
abbastanza risolutamente l'autobiografia in versi, l'enfasi
di un troppo impudico disvelarsi. Lo stile è tutto
in bollori e fratture, tutt'altro che "spontaneista".
La scrittura di Jurissevich, fin dalle prime pagine, s'apparenta
fortemente all'esperienza poetica di Jolanda Insana (come
non pensare a La stortura di fronte a versi come
"Troppa carne accalcata. Non sazia. / non ti voglio,
al macello"; "sciaborda e rossa ti fracassa")
ed anche alle più giovani Rosaria lo Russo (più
barocca, tuttavia) ed Elisa Biagini, non a caso traduttrice
in italiano dell'americana Sharon Olds (Satana dice).
Stessa lingua ispida, piena di sprezzature, di bruschi passaggi
di registro; si prenda l'incipit del volumetto: "Perché
è ciclopico lo scarto fra noi e / le Candy Candy
che sussurrano a una barbie il segreto di un nome",
in cui anche il ritmo del primo classicissimo endecasillabo
giambico è scassinato nel giro d'un inarcatura muta.
Stessa volontà di tuffarsi nel profondo per trarne
i gioielli grezzi di una scena primaria, in cui il corpo
è al centro del dire e la lingua si fa pelle che
a stento contiene. Stessa opposizione forte tra un io fortemente
connotato come femminile e un tu maschile, patriarcale o
familiare. Non sarà dunque un vezzo classificatorio
includere questa poesia in un drappello piuttosto compatto
di poetesse carnali e drammatiche, in cui ai nomi sin qui
già citati si possono aggiungere anche l'austriaca
Evelyn Schlag e certamente della neocastellana Monique Laederach.
E' un libro d'esordio anche quello
di Christophe Martella,
studente in lettere a Milano, che a partire dal titolo (Brisco
Delago) e dalla nota liminare "Al gentile lettore"
tenta di presentarsi sotto il segno di un certo straniamento,
presentandoci le carte sparse, trovate in una buia cantina,
di un Ludwig Hohl contemporaneo, disattribuendosi dunque
le poesie del suo libretto. Operazione forse non del tutto
necessaria (anche se bene denota l'idea di una poesia come
"messaggio nella bottiglia"), perché Martella
è ben edotto di poesia contemporanea e non cede quasi
mai alle lusinghe di una poesia confessionale. Dalla sua,
questo giovane autore ha infatti un senso preciso e potente
della realtà corporea, un forte e nostalgico sentimento
del tempo, una danza riuscitissima di immagini e atmosfere.
La parte in prosa poetica (Preludi frammenti) è
certamente la migliore di quest'esordio, capace al contempo
di rendere la realtà atmosferica con giusta trasparenza
e le difficoltà del poeta a restituirla in parole:
"La tesa piana del lago si abbandona, lirico simulacro,
in un canto - forse più pallida eco - sul molle ritmo
dei colori del bosco, malcerto riflesso nell'ampio abbraccio
dei monti. Danzano luce e lago, svogliati ballerini, una
sarabanda avvolti nei loro mantelli d'inverno, vecchi complici
scivolano sul ghiaccio del cielo, tracciando forme di noiosa
perfezione, pacata come chi s'ama da tempo, danza e oltre
non può andare." Più leziosi e linguisticamente
studiati appaiono invece i versi veri e propri, che ritrovano
compattezza e forza là dove accettano di frangersi
e rompere maggiormente il ritmo (Venezia) oppure
osando una maggiore temperatura emotiva e profetica, come
nel testo d'ascendenza manzoniana che chiude la raccolta:
"Alta s'è levata la dura selce / nella notte
scura del sacrificio / del primo 'io' del primo 'tu' guerriera".
Non è invece un esordio, ma
una conferma molto attesa, quella di Leopoldo
Lonati, che a dieci anni dal discreto volumetto di
Griselle, si ripresenta ora - sotto la stessa meritoria
sigla editoriale (legata alla libreria Leggere di Chiasso)
questo Le parole che so. Già il precedente
volume (che a sua volta raccoglieva, tra gli altri testi,
il folgorante Res Rem Rien, sequenza d'esordio pubblicata
nel 1996) dava la misura di un poeta dell'estrema rarefazione,
che anziché trovare il gelo, nel restringere a budello
la materia delle parole, attingeva una forte temperatura
emozionale; bastino tre versi come "Rimane solo
/ Un embolo di luce / Titubante" a garantircelo.
Il nuovo libro conferma l'impressione dell'esordio e giovandosi
dell'acuta postfazione di Dubravko Puek c'indica anche
con più chiarezza la scelta di un dettato prosciugato
fino allo spasimo (che l'autore condivide con il postfatore).
Ma questo libro si apre anche a una maggiore complessità:
alla consueta attenzione metatestuale ("Ma le parole
le parole / (come i sogni) sanno di noi / Cose che noi stessi
ignoriamo / di noi"), s'aggiunge una più
decisa impronta poematica (fino ad assumere una forma strattonata
di requiem) ed anche qualche spostamento di una lingua
sempre sorvegliata verso l'alto, come nel cristico Ufficio
delle tenebre che chiude il libro e non può non
far pensare alla crocifissioni di Bacon e di Giovanni Testori.
Il linguaggio, sempre in una sua economia sorvegliatamente
"cantabile", osa dunque incandescenze d'ascendenza
mistica ("Senza rimorsi / È / Acqua che cambia
letto / Letto che cambia cielo / Cielo che cambia / / È
/ La cancellatura / Tra l'urto e il miraggio / È
/ Il dispetto del volo"), anche se le improvvise
impennate sono talvolta controbilanciate da tuffi ironici
o stranianti ("Dentro questo / qui-e-ora / et labora").
E' un libro, quello di Lonati, che occorre leggere a più
riprese, percorrendolo nelle sue scanalature di umana sofferenza,
un libro popolato di clangori e dolcezze, che nonostante
taluni tratti provocatori (per il lettore) non ha traccia
di edonismo poetico.
Il che è un po' la costante
di queste giovani voci poetiche, nate in anni in cui la
superficialità sembra prendere il sopravvento, una
poesia necessaria e onesta (con tutte le sue sbavature e
i suoi tentennamenti), un gesto di scrittura estremamente
responsabile (con sé ed il mondo), libero dai condizionamenti
geografici contingenti, dà oggi i suoi fiori blu
nella Svizzera Italiana.
Pierre Lepori
© LeCultur@ctif
febbraio 2005
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Intervista
con Leopoldo Lonati par Simona
Sala ("Azione") |
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Il libro si sarebbe potuto
anche chiamare Belet , come la prima
poesia della raccolta. Belet come la parola
berbera che denota il grasso che resta all'interno
di un contenitore una volta che l'olio se ne
è andato. Belet , come "la parte
migliore" , ciò che resta. In fondo
come la poesia, che è la parte migliore
del linguaggio umano. Con Le parole che so
Leopoldo Lonati è giunto alla sua terza
prova poetica ( dopo Res Rem Rien del
1996 e Griselle del 1998), e che qualcosa
è cambiato è chiaro sin da subito.
L'ermetismo che contraddistingueva le poesie
contenute in Griselle, e che le rendeva
a tratti anche ostiche, ha lasciato il posto
a una apertura e a una chiarezza lessicale nuove,
che non è esagerato definire a tratti
quasi sfrontate. Ma se il poeta originario di
Chiasso di colpo si appella a figure forti,
consegnando al lettore dei versi molto evocativi,
facendo perfino riferimento a elementi organici,
non lo fa gratuitamente, tanto per colpire chi
lo leggerà. Di nuovo, poiché Lonati
non è poeta da lasciare le cose al caso,
la sua è una poesia dettata anzitutto
da una dichiarata ricerca introspettiva, e in
questo caso, per questi versi, la ricerca scaturisce
dalla perdita irreparabile che si concretizza
nel lutto. Assieme al lutto, poi, tutto ciò
che spesso lo precede e lo segue: la malattia,
il decadimento fisico prima, il distacco, la
perdita, il vuoto, poi. In un dopo tremendamente
inesorabile e difficile da sostenere e affrontare
nella quotidianità.
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Chiediamo a Lonati se è
stato diverso l'approccio alla poesia, alla stesura, rispetto
a Griselle. La forte evocatività di certe
immagini è il risultato di un nuovo percorso di ricerca
interiore?
Direi piuttosto il risultato di un
approfondimento maggiore. Mi è comunque difficile
parlare di un libro in cui grande attenzione è stata
a data alla ricerca dell'essenzialità. Al di là
di quella a che può essere vista come la continuità
della ricerca attraverso una parola
sostanziale, possiamo
scorgere un elemento di rottura in una scrittura meno ermetica,
meno criptata e in un certo senso più leggibile.
Come sono collegate le tre parti
di cui è costituito il libro?
L'anticamera del cervello
è il luogo delle idee non pensate fino in fondo.
O che perlomeno così volevano essere. È lo
sforzo di dare spazio ai pensieri senza sottoporli ad una
eccessiva sorveglianza concettuale. Il tentativo di "
annotarli" così come nascevano. Se prendiamo
dei versi come " Chi c'è se c'è nella
pelle del vuoto o / che si gira e rigira il mondo in bocca
/ come una caramella " , non rappresentano certamente
la mia visione del mondo, ma mi sembrava importante che
anche immagini come questa trovassero il loro posto. Le
parole che so riprende in maniera a più organica
alcuni temi della prima sezione: in particolare il tema
dell'individuo come essere in continuo divenire e come preso
tra a due fuochi, da una parte la sua a sete di infinito,
dall'altra il confronto inevitabile e ininterrotto con il
"qui ed ora" . Ufficio delle tenebre, è
un discorso che nasce innanzitutto dal desiderio di misurarmi
con un evento unico come quello della Passione, un tema
che forse lascerà perplesso qualcuno. Credo si tratti
di un'urgenza di scrittura nata anche dalla convinzione
che una delle questioni mai risolte e comunque cruciali
sia proprio quella del sacrificio. Ufficio delle tenebre
è comunque, al di là di questo, la ricerca
di un punto di vista da cui poter guardare alla vicenda
umana nel tentativo di capirci qualcosa, almeno un niente.
La morte è un tema predominante
all'interno del libro. Ma non siamo di fronte a una morte
negativa, semplicemente distruttiva o annientatrice. La
conoscenza della morte ti porta a non essere più
la stessa persona. E questo è un tema che ci traghetta
anche alla seconda parte del libro.
Direi che è proprio l'esperienza
umana ad essere un processo di apprendimento e di cambiamento
continuo e alla fine catastrofico, ma nel senso etimologico
del termine; intendo dire che l'esperienza umana è
l'esperienza di un essere che alla fine si ritrova completamente
girato sottosopra o rovesciato come un guanto dagli avvenimenti
della vita. L'uomo è visto come una continua variante
di se stesso, e la vita risulta come una sorta di continuo
depistaggio della morte. Non credo sia possibile fare un
discorso e dunque una poesia sull'uomo ignorando questo
gioco vita-morte e che ne costituisce fin dall'inizio l'essenza.
E in fondo, se sospendiamo almeno per un attimo il giudizio
etico o morale sulla sua opera, mi pare che sia sempre sorprendente
vedere come l'opera dell'uomo sia essenzialmente l'opera
di un condannato a morte; e che probabilmente proprio per
questo riesce a sprigionare un'energia formidabile, dirompente
e a volte devastante.
Ma se la nostra vita è
in fondo quello che lei definisce un depistaggio della morte,
la poesia cela in sé una speranza?
Non credo. O per lo meno non direttamente.
Di per sé credo che la speranza abbia altre sorgenti.
La poesia mi appare piuttosto come il luogo della testimonianza
di una ostinazione dell'uomo alla speranza, un po' come
l'animale affamato che s i aggrappa e avvinghia a qualunque
cosa gli capiti a tiro pur di sopravvivere. È certo
che spesso mi capita di essere meravigliato di fronte alla
potenza data alla parola. La mia esperienza di poesia mi
ha permesso di scoprire come di fronte al dolore e a un
certo male di vivere, ma anche di fronte all'enormità
del bello, la parola o il testo poetico diventino una specie
di meccanismo compressore che ti permette di ridurre lo
spazio di cose altrimenti troppo ingombranti. A volte si
dice che la poesia sia un congegno che genera amore. Lo
è probabilmente nella misura in cui permette di comprimere
o di assumere comprimendo cose che altrimenti toglierebbero
spazio al nuovo e dunque all'amore e alla vita. Forse genera
perché assimila e trasforma. È qualcosa che
ti permette di fare il salto dal reale al simbolico e di
vedere tutto un po' meglio. Che ti permette di tanto in
tanto di uscire dalla nebbia. "L'occhio è
nella parola", diceva Edmond Jabès. Anche
se poi bisognerebbe vedere cosa è diventata la parola
nel mondo d'oggi.
Rimane comunque, specie nella
prima parte, una poesia fatta di elementi minimi che si
esprimono in un frammento. Perché questa scelta di
forma?
La scelta è data in parte
dal fatto di non essere mai riuscito ad adottare delle misure
diverse. Dall'altra vi è l'idea della poesia come
testimonianza di un'esperienza umana che riesce comunque
a percepire, vedere, ascoltare, annusare solo frammenti
di vita. La totalità è qualcosa che mi sfugge.
E poi il frammento mi dà l'idea della poesia come
una sorta di cuneo da mettere sotto al tavolo o sotto l'armadio
di casa per farlo ballare un po' meno. Eliot diceva: "Con
questi frammenti ho puntellato le mie rovine" .
Mi vengono in mente quei film di Chaplin dove le baracche
stavano in piedi perché c'era un legno a sostenerne
il tetto. La poesia è forse un po' come quel legno.
Non so se davvero possa così tanto, ma che possa
servire a rinforzare qua e là le quattro cose della
nostra vita, questo sì.
Simona Sala
43
26 ottobre 2005
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Brisco
Delago (Pietro Montorfani, Giornale
del Popolo) |
L'instancabile editrice "alla
chiara fonte" di Viganello ha recentemente proposto
un altro giovane poeta ticinese di sicuro interesse, il
brissaghese Christophe Martella. Accolto nella collana "Quadra",
il volumetto di Martella si mostra, sin dal titolo, profondamente
intriso di vita lacustre: Brisco Delago, nome fittizio di
poeta fittizio, occhieggia infatti la pseudo-etimologia
di "Brissago" da "briscola di lago".
Una celebrazione non troppo velata del proprio comune d'origine,
quasi una dichiarazione d'amore ad una terra facilmente
"poetica" da parte di un non ben noto poeta Brisco...
Ci si chiederà forse le ragioni di un libro a
cornice, con finto ritrovamento di carte sparse in una
cantina. L'operazione del Martella, introdotta da una prosa
iniziale di rara bravura letteraria, ha però un significato
preciso nella fortissima "volontà di poesia"
dell'autore (il lettore è costretto, dal meccanismo
stesso del libro, a prestare doppia attenzione alle parole,
inseguendo il binario "Martella" non meno di quello
"Delago"). Volontà di poesia che si esplicita,
innanzitutto, nel ricorrere ai molti generi della scrittura
letteraria, dall'elegia alla prosa poetica, dalla lirica
amorosa all'epica al frammento memoriale. Il lessico ricercato
e l'andamento non banale della sintassi danno ai testi del
Martella un sapore antico, quasi una patina classica che
sorprendentemente non stride con i sobri e prosaici contenuti
dei testi (celebrazioni di amori passati, occasioni di vita,
ricordi familiari): la commistione alto-basso, nobile-popolare,
ricercato-prosaico è - pur con qualche sbavatura
- il merito principale di questo libretto (che eccede di
qualche pagina la misura solita della collana). A mo' di
esempio si legga il testo conclusivo, un epillio dall'inizio
folgorante ("Alta s'è levata la dura selce
/ nella notte scura del sacrifico / del primo "io"
del primo "tu" guerriera") che recupera
a ritroso le molte figure umane presentate nella raccolta
creando ad hoc, per ognuna di esse, una nuova connotazione
epica ("c'è chi porta il fardello oltre il
fiume, / c'è la madre-sposa dal prato freddo / (...)
chi suona la campana, e taciturno / tutto ha chiaro/ (...)
e poi il pittore / a capo della congrega che mise / in salvo
e poi sposò quella ragazza / famosa nella battaglia"):
il taglio fortemente letterario di queste definizioni si
stempera con l'andare dei versi (ma senza soluzione di continuità)
recuperando nel finale una dimensione più quotidiana
e colloquiale di vita di lago ("Infine chi, come
disse un oriundo / n'est qu'une miette au millieu de l'océan
/ un giorno all'aperitivo d'un banchetto"). Le
prove migliori del Martella nascono proprio, a nostro parere,
dai riverberi del Verbano: già si segnalava su queste
pagine, nell'estate di qualche anno fa, la cristallina purezza
di Dei velieri il palore; a raccolta conclusa, alla
nostra personale classifica aggiungiamo volentieri Il
mimo.
Pietro Montorfani
11 febbraio 2006
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Nel
mondo rarefatto di Lonati (Yari
Bernasconi) |
Scriveva Leopardi che "un'idea
senza parola o modo di esprimerla, ci sfugge, o ci erra
nel pensiero come indefinita e mal nota a noi medesimi che
l'abbiamo concepita". Potrebbe partire da qui una riflessione
sull'ultima raccolta poetica di Leopoldo Lonati Le parole
che so (Chiasso, Edizioni Leggere, 2005), che già
nella sua struttura sembra presentare diversi livelli di
controllo della parola: dopo due poesie introduttive (la
seconda recita "I nomi sono lì da lungo tempo
/ Noi diamo la caccia ai loro pensieri"), infatti,
la prima sezione Nell'anticamera del cervello, che
propone versi "Impreparati, / Così senza foglie
/ Come pensieri..." (è Hölderlin, in epigrafe),
s'oppone alle sette calibratissime poesie della sezione
centrale, appunto Le parole che so; ma, a loro volta,
le due sezioni confluiscono nel sanguigno inferno mistico
della terza ("in confusione demoniorum",
cita una poesia; "Dio mio Dio mio perché
mi hai tradito // E si sentiva il sangue nella bocca"),
dove qualcosa - incurante dell'esperienza passata - sfugge
nell'ultima, bianchissima pagina, che quasi in calce bisbiglia
"E tutto come niente fosse stato". Ma la poesia
di Lonati - di cui ricordiamo la sequenza d'esordio Res
Rem Rien, pubblicata con dieci incisioni di Samuele
Gabai nel 1996, e Griselle, del 1998 - è prima
di tutto uno stile tanto rarefatto e perentorio da sorprendere,
talvolta, lo stesso scrittore ("Al limite uno sputo
/ Di catarro e sangue e... // Che non ti venga in mente"),
e una pagina sfruttata in tutti i suoi spazi e i suoi silenzi,
con versi e parole ad arrampicarsi per il declivio degli
accapo o a insinuarsi in quegli angoli bassi solitamente
destinati al pollice di chi tiene il libro aperto. Un dettato
che, evolutosi sorprendentemente dal già notevole
Griselle, permette al poeta - con le parole di Dubravko
Puek, che ha firmato la postfazione Oltre le cose
- un "sommesso diario e confessione di pietoso disegno
delle cose care, delle esperienze dolorose, degli incontri,
delle persone conosciute e perdute". Questa sentita
e sofferta - ma lucidissima - introspezione è tanto
combattuta che, in diversi passaggi, sembrano più
voci a giocarsi la partita, a rispondersi e a rilanciare:
l'io, che spesso è noi ("Cioè
noi o meglio / io"), o tu ("Il mio corpo il mio
tu il mio / universo mentale"), si frammenta fino alla
completa debolezza del soggetto ("Il mio male e il
mio me / Tra me e me il tradimento di me / Il sospetto di
me"). Senza perdere, però, l'insita, paradossale
speranza: "E come una preda ci strasciniamo / La speranza
come una preda o come / L'ultima scatola di conserva o /
La tua stessa carne la tua testa e i tuoi polmoni / E la
speranza cieca e attorcigliata e / Avvinghiata come un animale
/ Sulla sua preda sulla sua scatola / Di conserva // E non
c'è nulla non c'è proprio nulla / Nulla di
salutare in tutto questo / Nulla se non questo restare /
Sospesi / sopra il nulla".
Yari Bernasconi
Page créée le: 14.02.06
Dernière mise à jour le: 29.09.06
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