Giovane poesia in Svizzera Italiana (2)
Jurissevich - Martela - Lonati
Elena Jurissevich, Salmi di secondo tipo, Viganello, alla chiara fonte, 2005, pp. 35.
Elena Jurissevich è nata a Lugano nel 1976, laureata presso la Facoltà di Teologia protestante di Losanna e di Lettere di Ginevra; è attualmente assistente in Ebraico e Antico Testamento a Ginevra.
Christophe Martella, Brisco Delago, Viganello, alla chiara fonte, 2005, pp. 60.
Christophe Martella è nato a Brissago il 27 gennaio 1978, studia lettere a Milano. È alla sua prima raccolta di poesie.
Leopoldo Lonati, Le parole che so, postfazione di Dubravko Puek, Chiasso, edizioni Leggere, 2005, pp. 115.
Leopoldo Lonati (1960) vive a Lugano. Gli è precedentemente accaduto di pubblicare Res Rem Rien con dieci incisioni di Samuele Gabai (Hic et nunc e Giorgio Upiglio, Vacallo-Milano, 1996) e Griselle (Leggere, Chiasso, 1998).
Tre poesie
Sono la tigre che ti stria il costato per
abbeverarsi di sale alla collottola
sono la gazzella che si genuflette contro la lama rossa
dell'alba e il gelso assetato che ti mummifica fra i bachi
sono l'homeless che ti dorme sul catrame dietro lo scooter
sono la parrucchiera che ti strimpella i capelli e tu l'orchestri ridendo
sono l'autostrada che ti spande e la casa che ti addensa in legno
e sono questo pulviscolo che d'un dito scosti dal labbro.
Elena Jurissevich (da Salmi di secondo tipo)
T'incontro e ho a noia i pronomi, le storie che dietro si tirano, strascico di un vestito da sposa di seconda mano. Noia o forse scomoda indisposizione per ciò che vivo e non calza il presente, piede che calca la mia vita. Ma è l'ingiuria che mi chiedi.
A fatica spunto il primo salto di rospo dal torbido fango nello stagno nuovo; il balzo rompe la quiete, s'agitano i riflessi, festanti scintille e colori. Come la pelle novella splende nell'acqua diafana e fresca. Sono. Come. Allora il fondo degli avvenimenti si rivela nello stravolgerli, chiamarli per simbolo, farli altro. Come i pronomi.
Solo le storie andate che si fanno epifania nel presente, doni duraturi, resistono e sono altro.
Una cicatrice, feticcio di virilità che si era persa. La chiave di casa che custodisco prima d'uscire da una qualche porta di servizio, di rado passando per l'atrio o la corte guarnita di piante da frutto, un arancio nano, un ulivo in fiore, qualche ortensia o la passiflora rasa al muro, che portano all'uscio maestro.
mai i nomi non mentono.
Christophe Martella (da Brisco Delago)
Peggio sarebbe finire sul banco
Degli imputati per un maledetto
Massaggio cardiaco andato male
Per avergli sfondato il petto io
Che l'avevo tirato fuori dopo
Che erano finiti tutti dentro
L'acqua e uno era perfino volato
giù
dal ponte
Un occhio volto dentro
E uno in basso e uno
Leopoldo Lonati (da Le parole che so)
Poesia che spezza la crosta del silenzio par Pierre Lepori
La Svizzera Italiana pullula di giovani poeti (cfr.juillet04poesia.htm) : è un dato degno di nota, poiché - se è vero che tradizionalmente la letteratura svizzera di lingua italiana ha dato nomi illustri alla letteratura tout court (Bianconi, Martini, Giorgio e Giovanni Orelli, Pusterla), da anni non si vedeva una tale voglia di versi nella regione. Grazie anche all'apparire di nuove sigle editoriali (progetti anche minuscoli ma con ambizioni d'apripista e di raffinata qualità) le voci giovani - scomposte talvolta, più spesso impressionanti per maturità - sono ormai in gran numero. Questo in una regione in crisi e mutazione, che sembra aver smarrito la voglia di qualità intellettuale e creativa (tra manie di grandezza, imperativi turistici e provincialismo ereditario). Nel teatro e nella poesia, molti giovani svizzero-italiani trovano oggi uno spazio in cui dire la lacerazione e la difficoltà di essere al mondo, partendo da un io spesso soffocato, cercando nella poesia una resistenza in forma di parole.
Elena Jurissevich non è la promessa di una nuova voce poetica: è qualcosa di simile a quel che Pierre Emmanuel ha definito un "geyser", una forza espressiva rude e potente che, dalle lande carsiche dell'indicibilità s'apre un varco e riversa d'emblée sul lettore un lirismo incandescente. "Tre cose più di tutto all'universo / esserci, essere vera, dire vero", s'apre con questa epigrafe Salmi di secondo tipo (si noti il cimento d'un titolo programmatico e si tenga presente che Jurissevich è titolare di una licenza in teologia ed una in lettere) che bene racconta la necessità di una "poesia onesta", che ha come fine ultimo la dicibilità, la rottura di una crosta di silenzio. Poesia esplosiva, dunque, che tuttavia rifiuta abbastanza risolutamente l'autobiografia in versi, l'enfasi di un troppo impudico disvelarsi. Lo stile è tutto in bollori e fratture, tutt'altro che "spontaneista". La scrittura di Jurissevich, fin dalle prime pagine, s'apparenta fortemente all'esperienza poetica di Jolanda Insana (come non pensare a La stortura di fronte a versi come "Troppa carne accalcata. Non sazia. / non ti voglio, al macello"; "sciaborda e rossa ti fracassa") ed anche alle più giovani Rosaria lo Russo (più barocca, tuttavia) ed Elisa Biagini, non a caso traduttrice in italiano dell'americana Sharon Olds (Satana dice). Stessa lingua ispida, piena di sprezzature, di bruschi passaggi di registro; si prenda l'incipit del volumetto: "Perché è ciclopico lo scarto fra noi e / le Candy Candy che sussurrano a una barbie il segreto di un nome", in cui anche il ritmo del primo classicissimo endecasillabo giambico è scassinato nel giro d'un inarcatura muta. Stessa volontà di tuffarsi nel profondo per trarne i gioielli grezzi di una scena primaria, in cui il corpo è al centro del dire e la lingua si fa pelle che a stento contiene. Stessa opposizione forte tra un io fortemente connotato come femminile e un tu maschile, patriarcale o familiare. Non sarà dunque un vezzo classificatorio includere questa poesia in un drappello piuttosto compatto di poetesse carnali e drammatiche, in cui ai nomi sin qui già citati si possono aggiungere anche l'austriaca Evelyn Schlag e certamente della neocastellana Monique Laederach.
E' un libro d'esordio anche quello di Christophe Martella, studente in lettere a Milano, che a partire dal titolo (Brisco Delago) e dalla nota liminare "Al gentile lettore" tenta di presentarsi sotto il segno di un certo straniamento, presentandoci le carte sparse, trovate in una buia cantina, di un Ludwig Hohl contemporaneo, disattribuendosi dunque le poesie del suo libretto. Operazione forse non del tutto necessaria (anche se bene denota l'idea di una poesia come "messaggio nella bottiglia"), perché Martella è ben edotto di poesia contemporanea e non cede quasi mai alle lusinghe di una poesia confessionale. Dalla sua, questo giovane autore ha infatti un senso preciso e potente della realtà corporea, un forte e nostalgico sentimento del tempo, una danza riuscitissima di immagini e atmosfere. La parte in prosa poetica (Preludi frammenti) è certamente la migliore di quest'esordio, capace al contempo di rendere la realtà atmosferica con giusta trasparenza e le difficoltà del poeta a restituirla in parole: "La tesa piana del lago si abbandona, lirico simulacro, in un canto - forse più pallida eco - sul molle ritmo dei colori del bosco, malcerto riflesso nell'ampio abbraccio dei monti. Danzano luce e lago, svogliati ballerini, una sarabanda avvolti nei loro mantelli d'inverno, vecchi complici scivolano sul ghiaccio del cielo, tracciando forme di noiosa perfezione, pacata come chi s'ama da tempo, danza e oltre non può andare." Più leziosi e linguisticamente studiati appaiono invece i versi veri e propri, che ritrovano compattezza e forza là dove accettano di frangersi e rompere maggiormente il ritmo (Venezia) oppure osando una maggiore temperatura emotiva e profetica, come nel testo d'ascendenza manzoniana che chiude la raccolta: "Alta s'è levata la dura selce / nella notte scura del sacrificio / del primo 'io' del primo 'tu' guerriera".
Non è invece un esordio, ma una conferma molto attesa, quella di Leopoldo Lonati, che a dieci anni dal discreto volumetto di Griselle, si ripresenta ora - sotto la stessa meritoria sigla editoriale (legata alla libreria Leggere di Chiasso) questo Le parole che so. Già il precedente volume (che a sua volta raccoglieva, tra gli altri testi, il folgorante Res Rem Rien, sequenza d'esordio pubblicata nel 1996) dava la misura di un poeta dell'estrema rarefazione, che anziché trovare il gelo, nel restringere a budello la materia delle parole, attingeva una forte temperatura emozionale; bastino tre versi come "Rimane solo / Un embolo di luce / Titubante" a garantircelo. Il nuovo libro conferma l'impressione dell'esordio e giovandosi dell'acuta postfazione di Dubravko Puek c'indica anche con più chiarezza la scelta di un dettato prosciugato fino allo spasimo (che l'autore condivide con il postfatore). Ma questo libro si apre anche a una maggiore complessità: alla consueta attenzione metatestuale ("Ma le parole le parole / (come i sogni) sanno di noi / Cose che noi stessi ignoriamo / di noi"), s'aggiunge una più decisa impronta poematica (fino ad assumere una forma strattonata di requiem) ed anche qualche spostamento di una lingua sempre sorvegliata verso l'alto, come nel cristico Ufficio delle tenebre che chiude il libro e non può non far pensare alla crocifissioni di Bacon e di Giovanni Testori. Il linguaggio, sempre in una sua economia sorvegliatamente "cantabile", osa dunque incandescenze d'ascendenza mistica ("Senza rimorsi / È / Acqua che cambia letto / Letto che cambia cielo / Cielo che cambia / / È / La cancellatura / Tra l'urto e il miraggio / È / Il dispetto del volo"), anche se le improvvise impennate sono talvolta controbilanciate da tuffi ironici o stranianti ("Dentro questo / qui-e-ora / et labora"). E' un libro, quello di Lonati, che occorre leggere a più riprese, percorrendolo nelle sue scanalature di umana sofferenza, un libro popolato di clangori e dolcezze, che nonostante taluni tratti provocatori (per il lettore) non ha traccia di edonismo poetico.
Il che è un po' la costante di queste giovani voci poetiche, nate in anni in cui la superficialità sembra prendere il sopravvento, una poesia necessaria e onesta (con tutte le sue sbavature e i suoi tentennamenti), un gesto di scrittura estremamente responsabile (con sé ed il mondo), libero dai condizionamenti geografici contingenti, dà oggi i suoi fiori blu nella Svizzera Italiana.
Pierre Lepori
© LeCultur@ctif
febbraio 2005
Intervista con Leopoldo Lonati par Simona Sala ("Azione")
Il libro si sarebbe potuto anche chiamare Belet , come la prima poesia della raccolta. Belet come la parola berbera che denota il grasso che resta all'interno di un contenitore una volta che l'olio se ne è andato. Belet , come "la parte migliore" , ciò che resta. In fondo come la poesia, che è la parte migliore del linguaggio umano. Con Le parole che so Leopoldo Lonati è giunto alla sua terza prova poetica ( dopo Res Rem Rien del 1996 e Griselle del 1998), e che qualcosa è cambiato è chiaro sin da subito. L'ermetismo che contraddistingueva le poesie contenute in Griselle, e che le rendeva a tratti anche ostiche, ha lasciato il posto a una apertura e a una chiarezza lessicale nuove, che non è esagerato definire a tratti quasi sfrontate. Ma se il poeta originario di Chiasso di colpo si appella a figure forti, consegnando al lettore dei versi molto evocativi, facendo perfino riferimento a elementi organici, non lo fa gratuitamente, tanto per colpire chi lo leggerà. Di nuovo, poiché Lonati non è poeta da lasciare le cose al caso, la sua è una poesia dettata anzitutto da una dichiarata ricerca introspettiva, e in questo caso, per questi versi, la ricerca scaturisce dalla perdita irreparabile che si concretizza nel lutto. Assieme al lutto, poi, tutto ciò che spesso lo precede e lo segue: la malattia, il decadimento fisico prima, il distacco, la perdita, il vuoto, poi. In un dopo tremendamente inesorabile e difficile da sostenere e affrontare nella quotidianità.
Chiediamo a Lonati se è stato diverso l'approccio alla poesia, alla stesura, rispetto a Griselle. La forte evocatività di certe immagini è il risultato di un nuovo percorso di ricerca interiore?
Direi piuttosto il risultato di un approfondimento maggiore. Mi è comunque difficile parlare di un libro in cui grande attenzione è stata a data alla ricerca dell'essenzialità. Al di là di quella a che può essere vista come la continuità della ricerca attraverso una parola
sostanziale, possiamo scorgere un elemento di rottura in una scrittura meno ermetica, meno criptata e in un certo senso più leggibile.
Come sono collegate le tre parti di cui è costituito il libro?
L'anticamera del cervello è il luogo delle idee non pensate fino in fondo. O che perlomeno così volevano essere. È lo sforzo di dare spazio ai pensieri senza sottoporli ad una eccessiva sorveglianza concettuale. Il tentativo di " annotarli" così come nascevano. Se prendiamo dei versi come " Chi c'è se c'è nella pelle del vuoto o / che si gira e rigira il mondo in bocca / come una caramella " , non rappresentano certamente la mia visione del mondo, ma mi sembrava importante che anche immagini come questa trovassero il loro posto. Le parole che so riprende in maniera a più organica alcuni temi della prima sezione: in particolare il tema dell'individuo come essere in continuo divenire e come preso tra a due fuochi, da una parte la sua a sete di infinito, dall'altra il confronto inevitabile e ininterrotto con il "qui ed ora" . Ufficio delle tenebre, è un discorso che nasce innanzitutto dal desiderio di misurarmi con un evento unico come quello della Passione, un tema che forse lascerà perplesso qualcuno. Credo si tratti di un'urgenza di scrittura nata anche dalla convinzione che una delle questioni mai risolte e comunque cruciali sia proprio quella del sacrificio. Ufficio delle tenebre è comunque, al di là di questo, la ricerca di un punto di vista da cui poter guardare alla vicenda umana nel tentativo di capirci qualcosa, almeno un niente.
La morte è un tema predominante all'interno del libro. Ma non siamo di fronte a una morte negativa, semplicemente distruttiva o annientatrice. La conoscenza della morte ti porta a non essere più la stessa persona. E questo è un tema che ci traghetta anche alla seconda parte del libro.
Direi che è proprio l'esperienza umana ad essere un processo di apprendimento e di cambiamento continuo e alla fine catastrofico, ma nel senso etimologico del termine; intendo dire che l'esperienza umana è l'esperienza di un essere che alla fine si ritrova completamente girato sottosopra o rovesciato come un guanto dagli avvenimenti della vita. L'uomo è visto come una continua variante di se stesso, e la vita risulta come una sorta di continuo depistaggio della morte. Non credo sia possibile fare un discorso e dunque una poesia sull'uomo ignorando questo gioco vita-morte e che ne costituisce fin dall'inizio l'essenza. E in fondo, se sospendiamo almeno per un attimo il giudizio etico o morale sulla sua opera, mi pare che sia sempre sorprendente vedere come l'opera dell'uomo sia essenzialmente l'opera di un condannato a morte; e che probabilmente proprio per questo riesce a sprigionare un'energia formidabile, dirompente e a volte devastante.
Ma se la nostra vita è in fondo quello che lei definisce un depistaggio della morte, la poesia cela in sé una speranza?
Non credo. O per lo meno non direttamente. Di per sé credo che la speranza abbia altre sorgenti. La poesia mi appare piuttosto come il luogo della testimonianza di una ostinazione dell'uomo alla speranza, un po' come l'animale affamato che s i aggrappa e avvinghia a qualunque cosa gli capiti a tiro pur di sopravvivere. È certo che spesso mi capita di essere meravigliato di fronte alla potenza data alla parola. La mia esperienza di poesia mi ha permesso di scoprire come di fronte al dolore e a un certo male di vivere, ma anche di fronte all'enormità del bello, la parola o il testo poetico diventino una specie di meccanismo compressore che ti permette di ridurre lo spazio di cose altrimenti troppo ingombranti. A volte si dice che la poesia sia un congegno che genera amore. Lo è probabilmente nella misura in cui permette di comprimere o di assumere comprimendo cose che altrimenti toglierebbero spazio al nuovo e dunque all'amore e alla vita. Forse genera perché assimila e trasforma. È qualcosa che ti permette di fare il salto dal reale al simbolico e di vedere tutto un po' meglio. Che ti permette di tanto in tanto di uscire dalla nebbia. "L'occhio è nella parola", diceva Edmond Jabès. Anche se poi bisognerebbe vedere cosa è diventata la parola nel mondo d'oggi.
Rimane comunque, specie nella prima parte, una poesia fatta di elementi minimi che si esprimono in un frammento. Perché questa scelta di forma?
La scelta è data in parte dal fatto di non essere mai riuscito ad adottare delle misure diverse. Dall'altra vi è l'idea della poesia come testimonianza di un'esperienza umana che riesce comunque a percepire, vedere, ascoltare, annusare solo frammenti di vita. La totalità è qualcosa che mi sfugge. E poi il frammento mi dà l'idea della poesia come una sorta di cuneo da mettere sotto al tavolo o sotto l'armadio di casa per farlo ballare un po' meno. Eliot diceva: "Con questi frammenti ho puntellato le mie rovine" . Mi vengono in mente quei film di Chaplin dove le baracche stavano in piedi perché c'era un legno a sostenerne il tetto. La poesia è forse un po' come quel legno. Non so se davvero possa così tanto, ma che possa servire a rinforzare qua e là le quattro cose della nostra vita, questo sì.
Simona Sala
Azione 43
http://www.azione.ch
26 ottobre 2005
Brisco Delago (Pietro Montorfani, Giornale del Popolo)
L'instancabile editrice "alla chiara fonte" di Viganello ha recentemente proposto un altro giovane poeta ticinese di sicuro interesse, il brissaghese Christophe Martella. Accolto nella collana "Quadra", il volumetto di Martella si mostra, sin dal titolo, profondamente intriso di vita lacustre: Brisco Delago, nome fittizio di poeta fittizio, occhieggia infatti la pseudo-etimologia di "Brissago" da "briscola di lago". Una celebrazione non troppo velata del proprio comune d'origine, quasi una dichiarazione d'amore ad una terra facilmente "poetica" da parte di un non ben noto poeta Brisco... Ci si chiederà forse le ragioni di un libro a cornice, con finto ritrovamento di carte sparse in una cantina. L'operazione del Martella, introdotta da una prosa iniziale di rara bravura letteraria, ha però un significato preciso nella fortissima "volontà di poesia" dell'autore (il lettore è costretto, dal meccanismo stesso del libro, a prestare doppia attenzione alle parole, inseguendo il binario "Martella" non meno di quello "Delago"). Volontà di poesia che si esplicita, innanzitutto, nel ricorrere ai molti generi della scrittura letteraria, dall'elegia alla prosa poetica, dalla lirica amorosa all'epica al frammento memoriale. Il lessico ricercato e l'andamento non banale della sintassi danno ai testi del Martella un sapore antico, quasi una patina classica che sorprendentemente non stride con i sobri e prosaici contenuti dei testi (celebrazioni di amori passati, occasioni di vita, ricordi familiari): la commistione alto-basso, nobile-popolare, ricercato-prosaico è - pur con qualche sbavatura - il merito principale di questo libretto (che eccede di qualche pagina la misura solita della collana). A mo' di esempio si legga il testo conclusivo, un epillio dall'inizio folgorante ("Alta s'è levata la dura selce / nella notte scura del sacrifico / del primo "io" del primo "tu" guerriera") che recupera a ritroso le molte figure umane presentate nella raccolta creando ad hoc, per ognuna di esse, una nuova connotazione epica ("c'è chi porta il fardello oltre il fiume, / c'è la madre-sposa dal prato freddo / (...) chi suona la campana, e taciturno / tutto ha chiaro/ (...) e poi il pittore / a capo della congrega che mise / in salvo e poi sposò quella ragazza / famosa nella battaglia"): il taglio fortemente letterario di queste definizioni si stempera con l'andare dei versi (ma senza soluzione di continuità) recuperando nel finale una dimensione più quotidiana e colloquiale di vita di lago ("Infine chi, come disse un oriundo / n'est qu'une miette au millieu de l'océan / un giorno all'aperitivo d'un banchetto"). Le prove migliori del Martella nascono proprio, a nostro parere, dai riverberi del Verbano: già si segnalava su queste pagine, nell'estate di qualche anno fa, la cristallina purezza di Dei velieri il palore; a raccolta conclusa, alla nostra personale classifica aggiungiamo volentieri Il mimo.
Pietro Montorfani
Giornale del Popolo
http://www.gdp.ch/
11 febbraio 2006
Nel mondo rarefatto di Lonati (Yari Bernasconi)
Scriveva Leopardi che "un'idea senza parola o modo di esprimerla, ci sfugge, o ci erra nel pensiero come indefinita e mal nota a noi medesimi che l'abbiamo concepita". Potrebbe partire da qui una riflessione sull'ultima raccolta poetica di Leopoldo Lonati Le parole che so (Chiasso, Edizioni Leggere, 2005), che già nella sua struttura sembra presentare diversi livelli di controllo della parola: dopo due poesie introduttive (la seconda recita "I nomi sono lì da lungo tempo / Noi diamo la caccia ai loro pensieri"), infatti, la prima sezione Nell'anticamera del cervello, che propone versi "Impreparati, / Così senza foglie / Come pensieri..." (è Hölderlin, in epigrafe), s'oppone alle sette calibratissime poesie della sezione centrale, appunto Le parole che so; ma, a loro volta, le due sezioni confluiscono nel sanguigno inferno mistico della terza ("in confusione demoniorum", cita una poesia; "Dio mio Dio mio perché mi hai tradito // E si sentiva il sangue nella bocca"), dove qualcosa - incurante dell'esperienza passata - sfugge nell'ultima, bianchissima pagina, che quasi in calce bisbiglia "E tutto come niente fosse stato". Ma la poesia di Lonati - di cui ricordiamo la sequenza d'esordio Res Rem Rien, pubblicata con dieci incisioni di Samuele Gabai nel 1996, e Griselle, del 1998 - è prima di tutto uno stile tanto rarefatto e perentorio da sorprendere, talvolta, lo stesso scrittore ("Al limite uno sputo / Di catarro e sangue e... // Che non ti venga in mente"), e una pagina sfruttata in tutti i suoi spazi e i suoi silenzi, con versi e parole ad arrampicarsi per il declivio degli accapo o a insinuarsi in quegli angoli bassi solitamente destinati al pollice di chi tiene il libro aperto. Un dettato che, evolutosi sorprendentemente dal già notevole Griselle, permette al poeta - con le parole di Dubravko Puek, che ha firmato la postfazione Oltre le cose - un "sommesso diario e confessione di pietoso disegno delle cose care, delle esperienze dolorose, degli incontri, delle persone conosciute e perdute". Questa sentita e sofferta - ma lucidissima - introspezione è tanto combattuta che, in diversi passaggi, sembrano più voci a giocarsi la partita, a rispondersi e a rilanciare: l'io, che spesso è noi ("Cioè noi o meglio / io"), o tu ("Il mio corpo il mio tu il mio / universo mentale"), si frammenta fino alla completa debolezza del soggetto ("Il mio male e il mio me / Tra me e me il tradimento di me / Il sospetto di me"). Senza perdere, però, l'insita, paradossale speranza: "E come una preda ci strasciniamo / La speranza come una preda o come / L'ultima scatola di conserva o / La tua stessa carne la tua testa e i tuoi polmoni / E la speranza cieca e attorcigliata e / Avvinghiata come un animale / Sulla sua preda sulla sua scatola / Di conserva // E non c'è nulla non c'è proprio nulla / Nulla di salutare in tutto questo / Nulla se non questo restare / Sospesi / sopra il nulla".
Yari Bernasconi
Giornale del Popolo
http://www.gdp.ch/
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