Mattia Cavadini
Il poeta ammutolito, Marcos y Marcos, 2004
Mattia Cavadini/ Il poeta ammutolito
Crollata la fiducia nell'onnipotenza della letteratura e nei suoi paradisi artificiali, si consolida un nuovo filone poetico, basato sul ritorno al reale, sulla cancellazione dell'io lirico e sulla ricerca di una possibile congiunzione fra gli elementi del vissuto e i segni dello scrivere.
Un filone poetico di cui Philippe Jaccottet e Fabio Pusterla, entrambi svizzeri ma appartenenti a domini linguistici e culturali diversi, rappresentano due delle voci più interessanti.
La poesia, con Ioro, si vota alle cose, si radica nella realtà; il linguaggio si libera del demiurgismo e dello stilismo di secoli, per farsi semplice, trasparente, lasciando piena iniziativa al reale, all'affiorare delle cose, nel loro transito dalla vita alla morte.
"Il poeta ammutolito" è dunque colui che, taciuto l'io (e le sue brame di dominio, possesso e successo), si dedica alla trascrizione delle cose così come sono, nel loro splendore-orrore, nella loro enigmaticità.
Mattia Cavadini è nato a Sorengo nel 1970 e vive tra Lugano e la Valsolda. Scrittore, critico letterario e giornalista radiofonico, è autore di un breve romanzo, Inganno turrito, Casagrande 1995, e della raccolta di racconti Sullo sfondo, Manni 2002. Ha pubblicato una monografia sull'opera di Giorgio Manganelli. La luce nera, Bompiani 1997 e numerosi interventi critici sulla letteratura italiana e francese del Novecento.
Il poeta ammutolito, Marcos y Marcos, 2004
En bref en français
Après un premier ouvrage critique consacré à Giorgio Manganelli, Mattia Cavadini met le cap sur une littérature totalement différente: celle des poètes qui ont choisi de s'attacher au réel, aux choses, au vécu quotidien. Tandis que chez Manganelli l'écriture est un monde en soi, créé de toutes pièces par un auteur-démiurge, qui donne par ce travail un sens à une vie qui en serait dépourvue, des poètes tels que Jaccottet ou Pusterla recherchent d'après Cavadini une transparence et un simplicité propres à révéler les choses "telles qu'elles sont", en leur laissant formuler leur énigme, en laissant émaner d'elles une dimension sacrée. Leur poésie veut adhérer aux choses dans leur essence, dans leur présence même - sans les ramener à la mémoire que l'on peut en avoir, sans même s'arrêter sur l'usage que l'on pourrait en faire. Ces poètes cherchent à mettre le lecteur en présence de ces choses en s'effaçant eux-mêmes.
Le livre montre cette dynamique chez Jaccottet d'abord, puis 'étend à Pusterla, qui a acquis une connaissance approfondie du poète de Grignan en le traduisant, et en a été durablement marqué dans sa propre poésie selon Cavadini.
Cette interprétation est toutefois mise en discussion par Pietro Montorfani dans son article du Giornale del Popolo, pour qui l'effacement du poète est une vue de l'esprit: selon ce critique, la présence du poète, la spécificité de son regard dans sa différence d'avec le lecteur, autrement dit sa subjectivité est en réalité d'autant plus forte qu'elle est peu explicitée.
Indice
Introduzione
1. Verso la realtà
2. Dai "phantasmata" ai "signa"
3. La cancellazione dell'io
4. Un parlare basso ed esatto
5. Poesia e ontologia
I. Philippe Jaccottet
1. L'avantesto
2. L'Effraie
3. L'Ignorant
4. Airs
5. A la lumière d'hiver
6. Pensées sous les nuages
7. "Je recommence, parce que ça a recommencé..."
II. Fabio Pusterla
1. Concessione all'inverno
2. Bocksten
3. Le cose senza storia
4. Pietra sangue
Bibliografia
Da ascoltare: Fabio Pusterla legge Philippe Jaccottet
Parlare è facile (da Canti dal basso, in Philippe Jaccottet, Alla luce d'inverno. Pensieri sotto le nuvole, a.c. di Fabio Pusterla, Milano, Marcos y Marcos, 1997).
Ascoltare la lettura (MP3) (4,4 Mo)
Cinque domande a Mattia Cavadini (Pierre Lepori)
Il suo percorso di saggista, Mattia Cavadini, è assai singolare. Un suo primo saggio - dedicato alla figura del grandissimo scrittore sperimentale Giorgio Manganelli - mostrava una sua chiara adesione a un'idea di letteratura totalmente "altra" (ricreazione perfetta, tutta interna al linguaggio, senza possibilità di comunicazione con il "reale"). In questo suo saggio lei parte da un chiaro rifiuto del "vedere opaco dell'immaginazione". Come si è compiuto questo percorso dalla letteratura-letteratura alla letteratura-mondo, per quali vie sotterranee possiamo collegare la figura di giocoliere delle parole di Manganelli e la "fedeltà al reale" di Jaccottet e Pusterla?
Entrambi i libri partono da un'idea soggettiva e partecipata di letteratura. Il saggio su Manganelli aderisce all'idea di letteratura come pseudoteologia, come teologia dell'immaginario. La scrittura viene descritta come una sorta di dio barbaro cui lo scrittore si vota, scrivendo. E' una scrittura che con la sua pienezza risarcisce lo scrittore dell'insignificanza della realtà. Completamente agli antipodi è invece l'idea di letteratura descritta nel "poeta ammutolito": la scrittura qui si vuole aderente alla realtà. Adesione che si compie per sottrazione: lo scrittore cancella il proprio io e accoglie le cose nella loro essenza (attraverso una scrittura che si vuole trasparente come il cielo). E' chiaro che non è solo l'idea di letteratura che cambia, ma anche la concezione-intuizione del mondo. Chiedere alla letteratura (e all'immaginazione) di scontare l'insignificanza del reale implica una posizione negativa e nichilista. Diversamente cercare dentro le cose una intrasignificazione, una loro Inngkeit, implica una fiducia se non addirittura una fede nel reale (in cui si ravvisano scintille di senso). Cosa lega queste due concezioni apparentemente agli antipodi? La ricerca di un senso. Inizialmente cercato in modo surrettizio dentro la scrittura, nel mondo immaginario; poi rintracciato felicemente dentro il reale (nel visibile alla ricerca dell'invisibile). Le vie sotterranee che mi hanno condotto da una concezione all'altra sono da rintracciare nelle esperienze personali, che sono così forti che possono essere comunicate solo allusivamente: nascita, morte, intuizione di un altrove.
Une fois n'est pas coutume, vorrei interrogarla sul titolo del suo denso saggio: è forse bene sgombrare il campo da un possibile equivoco: Il poeta ammutolito rivendica una vera e propria eclissi dell'autore-demiurgo, ma non postula certo una poesia "senza il caldo di me/ o almeno il mio ricordo" (Luzi). Come si colloca l'io-lirico rispetto all'effacement?
Temo che la risposta a questa domanda mi traghetti su un terreno pericoloso e seducente, quello che unisce psicologia e religione in un groviglio esoterico. E' certo che l'io-lirico (con la sua voce, le sue esperienze, i suoi affetti, il suo calore) non può essere trascurato o negletto. Il problema allora è quello, ancora una volta, di leggere dentro gli avvenimenti che segnano l'io (a volte anche dolorosamente) il loro significato ulteriore; significato che consente, nel migliore dei casi, anche un'evoluzione personale. In termini esoterici si parla di passaggio dall'Io al Sé (ma questo è ambito mistico che attiene solo a pochi iniziati); in termini più semplici potremmo parlare di capacità di vedere dentro l'individuale il significato universale delle proprie esperienze. Ed è quello che dovrebbe fare la poesia se non vuole franare rovinosamente nella mitografia privata.
La direzione della sua ricerca, mi sembra, non è soltanto poetica, ma anche e soprattutto spirituale (con riferimenti precisi alla filosofia buddhista, ma anche a un valore "eucaristico" della poesia, presente in certa tradizione italiana): la poesia, in questo senso, per lei, si avvicina alla mistica, in particolare nel caso di Jaccottet? Stupisce di più, questa tensione mistica rispetto a un poeta più laico, talvolta anche più "politico" qual è Pusterla
Effettivamente a me interessa la scrittura unicamente come percorso di conoscenza, come strumento di contatto e avvicinamento a una dimensione metastorica. In questo senso mi piace pensare il percorso creativo come a un mezzo che consente di trasformare il tempo in spazio, l'istante in eternità. Una sorta di pratica mistica che mette in contatto chi scrive con la permanenza, con quel nucleo irriducibile che si sottrae alla fuggevolezza. Questa è sicuramente una riflessione che consapevolmente entra nel percorso creativo di Jaccottet (così come la riflessione attorno alla necessità della cancellazione dell'io, come testimoniano molti suoi scritti poetici e diaristici), meno consapevolmente (mi pare) si insinua invece nei testi di Pusterla. Eppure, soprattutto in "Bocksten" e ne "Le cose senza storia" questa tensione verso un nucleo altro e irriducibile, verso una verità metastorica mi sembra che si respiri anche in Pusterla (come ho cercato di evidenziare nel libro). L'aspetto della consapevolezza conta poco. Basta ricordare cosa diceva Platone: la divinità parla per voce dei poeti a loro insaputa. E' però interessante osservare che le due raccolte di Pusterla che maggiormente risentono di questa tensione siano concomitanti con due esperienze di vita che introducono necessariamente ad una riflessione sul non-essere: la morte del padre (per quanto riguarda "Bocksten") e la nascita della prima figlia (per quanto attiene a "Le cose senza storia"). Per cui non mi sembra assolutamente casuale che in quelle due raccolte la voce di Pusterla si sia arricchita di una sacralità che in altre poesie e raccolte viene invece offuscata e inquinata da uno sguardo più ideologico e politico.
"Uno sguardo trasparente, senza memoria, senza storia, capace di rendre le monde au visage de sa présence" (Bonnefoy): lei mette in forte evidenza il tema del reale, il rovello dell'adesione quasi-senza-letteratura a una numinosità delle cose. Come si colloca, in questo contesto, il tema dello sguardo, molto presente in Jaccottet? E che cos'è il linguaggio, per Pusterla e Jaccottet?
Lo sguardo è essenziale. Così come l'udito e gli altri sensi. Purché sia scevro da ideologia (e non sempre è così), desideri e paura. Solo a una pura ricettività (animale e infantile) si offre il mistero del reale. Detta così è semplice, più difficile è attuarla e praticarla. Jaccottet se ne è accorto, nel suo lungo percorso di scrittura, a volte aderendo a volte confessando l'impossibilità di guardare le cose pacificamente ed equanimemente. Il dolore, la rabbia, così come l'idolatria e l'eccessivo amore a volte offuscano lo sguardo. Ecco allora che il percorso prima di essere letterario è un lavoro sull'io, di lenta purificazione.
Per quanto attiene al linguaggio, l'ideale sia per Pusterla che per Jaccottet mi sembra di poter dire sia quello di una fitta trasparenza. Ovvero un linguaggio che sia trasparente nei riguardi del reale (quindi coincidenza fra cosa e parola, fra significato e significante), che vi aderisca pienamente, dando però il senso di una profondità, di una porosità (profondità e porosità che qualificano non solo le parole ma anche le cose, che si superano costantemente in altro, che spesso sono simboli, segni, allusioni a una realtà altra).
Nel suo libro lei sceglie due poeti con una visione del reale estremamente prossima: sappiamo che Fabio Pusterla, più giovane, ha tradotto lungamente le opere di Philippe Jaccottet. Lei crede che l'attività di traduttore di Pusterla lo abbia influenzato nelle scelte poetiche; ha trovato tracce di una filiazione diretta, in questo senso, nell'opera dei due poeti?
Assolutamente sì. Ma penso che la lezione di Jaccottet (lezione legata da un lato alla pratica dell'effacement, dall'altro alla coincidenza fra vita e scrittura) sia stata accolta da Pusterla perché predisposto all'ascolto di questa particolare lezione. Il libro che risente maggiormente di questo tirocinio è ovviamente "Le cose senza storia", concomitante all'incontro e alla traduzione di alcune raccolte di Jaccottet. D'altronde il titolo è già una sorta di riconoscimento di questo tirocinio: l'idea di aderire alle cose nella loro essenza, al di là della storia, della memoria o del possibile uso e possesso è una enunciazione di senso che il primo Pusterla non si sarebbe sognato di affermare e che segna un passaggio evolutivo nella sua poetica.
Intervista a cura di Pierre Lepori
Mattia Cavadini / Il poeta ammutolito - estratti
La poesia sarà concertazione piena, totalizzante, degli oggetti e dei gesti dentro l'orizzonte dell'immanenza. L'imaginatio, la vanitas mitopoietica, vengono sacrificate alla prassi della pura denotazione. Le pregiudiziali fantastiche che ineriscono alla relazione soggetto-oggetto sono come rimosse. Gli objecta sono rappresentati nel loro ontismo. Ciò non significa neutralizzazione o appiattimento, ma rivelazione di una Innigkeit impreveduta, emersione del sacro dall'intima porosità del reale:
Il faut se vouer à l'ici et au maintenant qui sont l'épiphanie de la finitude, et y forcer le langage. 1
Per fare questo occorre un atto di accettazione. Accettare d'essere null'altro che testimoni, testimoni dei moti della terra. Terra che ci invita a confidare nella finitude, giacché nulla scampa alla bi-unità di vita-morte. E sarà proprio nell'assunzione della propria finitude che si spalancherà l'accesso al sacro (il sacro nel sensibile). Iscrizione di un senso, di una promessa nella realtà. Promessa in re, e non post o ante rem (questo fu l'errore delle poetiche di fine-inizio secolo: rifiutare il quotidiano in nome dell'assoluto).
Contro l'orfismo romantico e decadente di fine Ottocento, che si spinge sino nel cuore del nostro secolo, sorge dunque una nuova istituzione poetica: il cosismo, la poetica delle cose, per cui ciò che il poeta intende comunicare "viene reso attraverso maniere di equivalenze ricercate in oggetti convenienti"2 . Istituzione che in Italia muove da Pascoli ai Crepuscolari, dai Crepuscolari a Montale, da Montale ai poeti d'oggi (fra cui Pusterla). Più in dettaglio, considerando non solo l'oggetto tematico (le cose) ma anche la produzione testuale (il prosaismo), occorre anche menzionare, in un'inchiesta sui debiti, la componente sperimentale e avanguardistica Lucini-Gozzano-Campana-novissimi, la cometa di Saba con la sua coda (Penna, Bertolucci, Caproni), nonché la riscoperta, sotto influsso pavesiano, dei dialettali (Tessa, Noventa). In Francia, la medesima istituzione, ha i propri antesignani nel Rimbaud di Mémoire e nel Nerval di Myrtho, di Delfica e di Artémis; antesignani cui fanno seguito i poeti post- e antisurrealisti, quali (per fare solo alcuni esempi) Ponge, Deguy, Thomas, Bonnefoy, Char e Jaccottet. Si tratta, come lo suggeriscono i nomi stessi, di un'istituzione poetica che, nonostante si impegni a rappresentare una realtà inafferrabile, rifiuta altresì il ricorso ad associazioni gratuite e ad artifici autoreferenziali. Si tratta di un'istituzione poetica che smette i panni sontuosi del simbolismo, per indossarne di più comuni. La poesia diventa, montalianamente, cronaca di triti fatti:
Le quotidien: allumer le feu (et il ne prend pas du premier coup, parce que le bois est humide, il aurait fallu l'entasser dehors, cela aurait pris du temps), penser aux devoirs des enfants, à telle facture en retard, à un malade à visiter, etc. Comment la poésie s'insère-t-elle dans tout cela? Ou elle est ornement, ou elle devrait être intérieure à chacun de ces gestes ou actes: c'est ainsi que Simone Weil entendait la religion, que Michel Deguy entend la poésie, que j'ai voulu l'entendre. Reste le danger de l'artifice, d'une sacralisation "appliquée", laborieuse. Peut-être en sera-t-on reduit à une position plus modeste, intermédiaire: la poésie illuminant par instants la vie comme une chute de neige, et c'est déjà beaucoup si on a gardé les yeux pour la voir. Peut-être même faudrait-il consentir à lui laisser ce caractère d'exception qui lui est naturel. Entre deux, faire ce qu'on peut, tant bien que mal. Sinon risque d'apparaître le sérieux du sectaire, la tentation de porter la bure du poète, de s'isoler, en "oraison" (ce qui gêne quelquefois chez Rilke). Pour moi du moins, je dois accepter plus de faiblesse. 3
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Mallarmé fu, in Occidente, tra i primi a invitare a "la disparition élocutoire du poëte"4 . Invito che mirava ad un'idea assoluta dell'arte, all'idea dell'"uvre pure". Scordare l'Io per cedere l'iniziativa alle parole, ad un sistema di simboli che dicessero il vuoto di un universo pervaso dalla distruzione, che accennassero all'informulato. L'invito di Mallarmé fu, dunque, un invito pericoloso: era la trasposizione formale del nichilismo filosofico: abolire l'Io e la soggettività ad immagine della caduta del tolemaismo, a rappresentazione della confusione di senso. Il rischio di un nichilismo formale, di una specularità letteraria era latente. La tentazione era nuovamente quella di cedere ad una visione assolutistica ed autoreferenziale della letteratura: letteratura come pseudoteologia, come demiurgismo registico.
Diversa è la motivazione che spinge Jaccottet ad affermare: "l'effacement soit ma façon de resplendir"5 ; diversa la motivazione che ha indotto Pusterla a dar voce alle cose senza storia. La fede negli oggetti, nella vita semplice, di tutti i giorni. Oggetti che sono chiamati ad esprimere, con la loro semplice presenza, quanto l'Io sa di non saper dire. A loro è concesso il compito supremo della poesia: mettere il mondo davanti alla sua presenza, lasciare che l'istante si manifesti nella pienezza senza memoria. La poesia viene così restituita all'immanenza, alla realtà. Ogni cosa si presenta nel suo aspetto assoluto, nella sua essenza, nella sua capacità di unirsi alle altre. Il reale si dissipa nel linguaggio, identificandosi con il vocabolo che lo rivela. La crisi dell'Io si risolve in una fiducia preidealistica e prekantiana nel reale, nell'intuizione dell'oggetto rappresentativo e delegato.
Il poeta ammutolito, Marcos y Marcos, 2004
Il poeta ammutolito / Pietro Montorfani
Riflessione sui poeti svizzeri e la ( finta) cancellazione di sé Se il poeta si sente di troppo
'Il poeta ammutolito' ( edizioni Marcos y Marcos) è una recente indagine critica di Mattia Cavadini sui nostri Pusterla e Jaccottet. Affrontando il tema della letteratura senza io, tra suggestioni Zen e crisi di fine Novecento. Ma per dire il reale ci vuole l'io.
Ogni testo lirico ha una sua ragione di fondo, un " perché" che lo fa esistere. In gran parte queste ragioni profonde traspaiono dal tono della poesia, nella voce di chi, con i versi, comunica con il lettore. Più difficile è capire che questa voce non è, in tutto, la voce dell'autore, ma una sorta di struttura intermedia, quasi un figura di narratore come ce ne sono nei romanzi. A questo personaggio intermedio la critica ha dato il nome di " io lirico". Nella storia della poesia occidentale ci sono stati autori, come Baudelaire o Rimbaud, con dei " se stesso" poetici tanto solidi e forti ( a tratti addirittura violenti) da riuscire ad imporsi al lettore, portandolo a condividere la loro visione del mondo. Ma non sempre l'io lirico raggiunge queste vette: soprattutto nel Novecento, secolo di crisi quant'altri mai, abbiamo poeti che conversano con i lettori in tono minore, avanzano dubbi e rifiutano di esporre certezze. Nel Novecento l'io lirico cerca di farsi da parte, continua a interpellare il lettore sulle cose della vita ma lo fa senza imporre nulla ( o quasi) della sua presenza. Mattia Cavadini, in un recente studio dal titolo Il poeta ammutolito. Letteratura senza io: un aspetto della postmodernità poetica ( Marcos y Marcos, marzo 2004), indaga questa dinamica di indebolimento dell'io lirico mettendo a confronto due importanti autori elvetici: Philippe Jaccottet e Fabio Pusterla. Sia Jaccottet che Pusterla sembrano infatti incarnare una tendenza poetica tipica dei nostri tempi, e non a caso, dato che i due poeti svizzeri sono voci importanti della letteratura francese e italiana contemporanea. Cavadini fa notare come Pusterla e ( soprattutto) Jaccottet nel corso della loro produzione poetica abbiano cercato di ridurre al minimo la presenza ingombrante dell'io lirico per lasciar parlare le cose, per mettere il lettore di fronte alla realtà senza alcun intermediario che dica " io". Ma è veramente possibile un'operazione di questo tipo? A livello di strutture letterarie sicuramente sì, meno convincente è però la riflessione di Cavadini quando sembra trattare indistintamente l'io lirico e l'io tout court del poeta: per dare voce alle cose occorrerebbe « spogliarsi, immiserirsi, non essere che coscienza pura, senza giudizio, senza desiderio, senza memoria » ( pag. 62), bisogna che il poeta « freni la propria immaginazione, dimentichi la propria cultura. È un lavoro di sottrazione: non essere che testimone » ( pag. 59), « diventando lui stesso fiore, uccello o montagna » ( pag. 80). Il critico fa sue le riflessioni di Jaccottet, che negli anni ' 60 era rimasto molto affascinato dagli haiku, cioè da quella tradizione lirica orientale caratterizzata da brevità e dalla rappresentazione di paesaggi e elementi naturali in una totale assenza dell'io lirico. È la poetica, dice Jaccottet, dell'effacement de soi, per essere unicamente testimoni delle cose. Ma come si fa a essere testimoni della cose senza un io ( pur celato tra le righe, pur zittito) che si indirizzi con forza al tu del lettore? La testimonianza è la forma comunicativa che più necessita di qualcuno che dica " io": si può essere, certo, delle semplici pellicole fotografiche su cui lasciar imprimere la realtà circostante, ma ogni poeta è una pellicola diversa, una diversa inquadratura e quindi una diversa finestra sul reale. Difficile credere che le cose possano parlarci da sole e che il poeta ne sia soltanto un portavoce passivo. Ogni gesto poetico ha all'origine una scelta che dice fortemente " io". Ezio Raimondi, nel suo capitale saggio Scienza e letteratura, nota che « quanto più l'oggetto si presenta in una forma oggettiva, tanto più il soggetto riafferma la propria esistenza » . D'altronde la stessa parabola lirica di Jaccottet sembra smentire, con gli anni, la poetica dell'effacement de soi: nei Chants d'en bas la morte di un amico, la scoperta della dimensione duplice ( alto e basso) del reale riporta a galla con forza un " io" e un " tu" che si erano soltanto assopiti. Infatti anche nei testi precedenti di L'ignorant e di AirsJaccottet « non abolisce l'io » ( Jean Starobinski). Questo perché il poeta romando, pur ispirandosi agli haiku, si ricorda della lezione di un altro grande poeta di paesaggi e oggettività: il Montale degli Ossi e, ancor più, dei Mottetti, poeta che come pochi altri ha sondato le dinamiche dell'io lirico perché non ha mai dimenticato che l'alterità ( in ogni forma: dalle donne amate, ai segni del reale, alla moglie morta) impone un " io" ben vivo che vi si rapporti.
PIETRO MONTORFANI
Giornale del Popolo
http://www.gdp.ch
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