Stefano Raimondi
Stefano Raimondi, La città dellorto,
Prefazione di Umberto Fiori, Bellinzona, Casagrande, 2002
Stefano Raimondi / La città
dell'orto
"Ciò che noi
facciamo e pensiamo è colmo dell'essere dei padri", quei padri
contro cui l'Io conduce "una silenziosa battaglia". Sono parole
di Walter Benjamin poste in esergo al poema che Stefano Raimondi dà
finalmente alle stampe nella sua interezza, dopo varie anticipazioni su
riviste o nel corso di pubbliche letture. Le parole di Benjamin ci conducono
al nòcciolo di quello che Milo De Angelis in Poesia
contemporanea ha definito un "requiem" dal tono "solenne
e ispirato". È il padre, infatti, il vero interlocutore -
visibile e invisibile - di questo libro, un padre che non è soltanto
privato ma anche pubblico e che sin dal titolo si incarna nei muri, nei
giardini e nelle voci di una città. Per questo, come scrive Umberto
Fiori nella prefazione, il libro di Raimondi è anche "un dolente
amoroso lai indirizzato a un "costato di calcine", alla "città
di sale", alla Milano "malabolgia" e "paradiso delle
cantine", alla cità delle guardiole, dei tombini come bocche
serrate dal ghiaccio, dei cortili dove si raduna una "tiepida stellata"".
Stefano Raimondi
è nato a Milano nel 1964. Laureato in filosofia. Ha pubblicato
Invernale (Lietocollelibri, 1999), Una lettura
d'anni in Poesia contemporanea,
a cura di Franco Buffoni (Marcos y Marcos, 2001). Sue poesie sono appparse
su "Nuovi Argomenti", "Idra", "Atelier".
Gli interventi critici su riviste e in volumi collettanei hanno trattato
autori come Philippe Jaccottet, Yves Bonnefoy, René Char, Paul
Celan, Nelly Sachs e il pittore Nicolas de Staël. È inoltre
autore della monografia critica La "Frontiera"
di Vittorio Sereni (Unicopli, 2000) e curatore del volume Poesia
@... Luoghi Esposizioni Connessioni (Cuem Edizioni, 2002). Collabora
a "Poesia" e "Pulp Libri". È tra i fondatori
della rivista "Materiali di Estetica".
Stefano Raimondi, La città
dellorto, Prefazione di Umberto Fiori, Bellinzona, Casagrande, 2002
Stefano Raimondi, quando la poesia ci accompagna
Nellintrodurre i due volumi di una sua recente
antologia della Poesia italiana del Novecento (Carocci, 2002) antologia
con qualche mira normativa di troppo e chiari intenti pedagogici
Niva Lorenzini teme il peggio per le nuove generazioni poetiche: I
rischi di un neoermetismo di ritorno di foggia nuovissima, dai
nuovi manierismi formali alla riproposta della separatezza di una poesia
intesa a contemplare il proprio ombelico si intravedono tutti,
e sono favoriti da una società che predilige le omologazioni e
gli appiattimenti, e tollera a fatica il dissenso, la conflittualità,
la presa di coscienza, il coraggio delle opinioni. Ci si
prospetta quindi un quadro a tinte fosche.
Eppure, se si avesse il coraggio di abbandonare
quel retrogusto marxiano che vuole la letteratura procedere per scatti
e capovolgimenti e la contemporaneità dissugarsi nella volontà
di sorpassamento costante, a noi pare che una nuova generazione di poeti
e parliamo specificamente dellItalia abbia davanti a sé
lo spazio di una sfida ben più stimolante dellidea di fondare
una corrente. Non certo quella di concentrarsi sullombelico del
proprio ego liricheggiante, quanto quello di ritornare allumanità
per quanto possa sembrare banale dirlo - al bisogno di dire come
essere umano, cui sta di fronte un lettore a sua volta alla ricerca dellincontro.
Fino al capovolgimento positivo, propositivo, di questo rapporto.
Questo mi spinge
a ritenere scrive Fabio Pusterla che
il criterio della necessità, che io stesso adotto in quanto lettore,
non riguardi tanto il rapporto tra testo e autore (era il poeta fortemente
motivato a scrivere ciò che ha scritto? Ne aveva assoluta necessità?
Non lo sapremo mai con certezza, vivaddio!), quanto piuttosto laltro
rapporto, che quel testo stabilisce con quel lettore che io sono. Mi è
necessario, ciò che leggo? Mi urge leggerlo? E se le cose stanno
così: è possibile credere che la poesia conservi oggi, nella
sua condizione di esilio, una necessità siffatta? Che qualcuno
(qualche lettore) chieda ancora qualcosa alla poesia? Che si possano dunque
intravedere delle piste su cui alla poesia sarebbe consigliabile incamminarsi?.
Di fronte al commovente libro del milanese Stefano
Raimondi La città dellorto
(pubblicato da Casagrande a Bellinzona, con una meritevole apertura al
di là del confine), si ha limpressione che il poeta
compiendo in poesia un doloroso scavo sulla propria esistenza di figlio,
nel dasein di una città che
gli è trasmessa dal padre voglia proprio condurci in questa
direzione, fare un tratto di strada per noi, essere onesto (come voleva
Saba), perché un cammino si disegni davanti ai nostri passi stanchi.
Stanchi di un mondo automatizzato dalle leggi del Management,
di una città disfatta da una sporcizia planetaria, capace di corrompere
il nostro stesso modo di percepire la realtà. I suoi occhi nuovi
non sono né illusi né disillusi, non sono moralisti, non
ci insegnano niente se non forse a vivere laddove la poesia ridiventa
la sorella maggiore dellazione
(Saint-John-Perse).
Il volume è introdotto da Umberto Fiori:
apertura sintomatica che segna al contempo una continuità e uno
sviluppo. Si prenda lultimo volume di versi di Fiori (La bella vista,
Marcos y Marcos, 2002): il poeta vi interroga la bellezza del paesaggio,
si lascia mettere in scacco fino alle ultime conseguenze
dalla straziante, meravigliosa bellezza
del creato (è una frase di Totò, in un film
sublime di Pasolini). Ma se in Fiori questinterrogazione umanissima
non può farsi senza una preoccupazione intellettuale (che lo accomuna
a certe geometrie della percezione di Valerio Magrelli o al civismo di
Antonella Anedda), in Raimondi la commozione del mondo è polarizzata
intorno al sentire personale (non lombelico, no, semmai il Naked
thinking heart di Donne!). La sovrapposizione tra biografia e topografia
accomuna piuttosto Raimondi ai coetanei (Antonio Riccardi, oppure
ma in una versione ben più cantabile Claudio
Damiani), mentre lattenzione al rapporto tra corpo e linguaggio
savvicina a esperienze come quelle di Matteo Ceserani o Elisa Biagini:
come ciechi tastiamo le cose
gli amori e le persone:
diciamo di volerci bene.
Tocchiamo tutto come qualcuno
che dallaltra parte afferra
qualcosa e la rivuole. (p. 74)
Come si vede, con un linguaggio piano, retaggio
di una generazione cresciuta con lorizzonte semantico di un italiano
nativo, senza laporia di una lingua letteraria inutilizzabile
nel quotidiano (e viceversa). La città, Milano, vero cardine (insieme
alla lenta agonia paterna) del libro di Raimondi, non può più
essere allora un luogo da trasfigurare poeticamente, come una voce che
cerca di trarre gli ultimi barbagli di una mai rinnegata anceschiana linea
lombarda (si pensi a Maurizio Cucchi): la città diventa corpo
e respiro, sofferenza e viaggio, in cui si cerca lo sterrato di un cortile,
lapertura rachitica di un orto, come luoghi salvifici: Ci
sono notti indolenti / notti che sembrano orti (p. 32).
E il lettore non è più convocato
a una spettazione: aiutato dallestremo pudore biografico di Raimondi,
dallevocatività di una lingua dalle trasparenze metaforiche,
si trova invitato sulla barca di carta spiegazzata di unumanità-per-quello-che-è.
Senza narcisismo, senza che il poeta voglia porsi al di sopra o al di
là della propria umana vicenda. E questo libro denso, aperto a
una profondità senza ambizioni pedagogiche, scioglie allora le
sue vele al largo di una prosa poetica (che è tuttaltro che
una rinuncia alla poesia, tuttaltro che prosa darte), che
il lettore potrà fare sua, come un golfino posato sulle spalle,
quando fa un po troppo freddo per proseguire nellinverno:
Ci sono notti per tutti, notti testarde, notti
spostate dalle stelle.
Lì si trovano gli indizi, le prime fila, le rotte del bene. (p.
71).
Pierre Lepori
© Le Culturactif Suisse 2002
Stefano Raimondi, La città dellorto,
Prefazione di Umberto Fiori, Bellinzona, Casagrande, 2002
Stefano Raimondi, La città dell'orto
Sono due le direttrici tematiche che orientano
la scrittura di Stefano Raimondi, entrambe rintracciabili, mi pare, sin
dai titoli delle sue due pubblicazioni poetiche: Invernale
s'intitolava infatti una sua plaquette
del 1999, mentre questa sua complessa e poematica opera prima è
denominata La città dell'orto.
Come dire un tempo e un luogo, dunque, ossia le coordinate trascendentali
entro cui si inscrive l'esperienza umana e lettararia dell'autore, e che
da questa ricevono la loro irripetibile determinazione. In Raimondi il
tempo è spesso l'inverno, stagione altamente allegorica e decisiva
per la poesia italiana degli ultimi decenni (lo notava già Remo
Pagnanelli in un saggio dell'87), nonché centrale in alcuni dei
poeti europei evidentemente più cari a Raimondi (penso a Paul Celan
e a Philippe Jaccottet, autori di raccolte consacrate all'inverno sin
dal titolo: rispettivamente Schneepart e
À la lumiere d'hiver); è
un inverno gelido e onnipervasivo, che "scende nella gola",
e al quale spesso si oppongono spazi chiusi e riparati, simbolicamente
isomorfi: le tasche in cui pigiano i pugni, le mandorle e le noci sigillate,
Le stanze chiuse dall'inverno, titolo
di un'intera sezione della terza parte, eponima, della raccolta; per ciò
che riguarda lo spazio, invece, La città
dell'orto è senza dubbio Milano, città natale dell'autore
e sfondo insieme riconoscibile (la Vetra, il Garibaldi, il ponte del Corvetto)
e metafisico dei suoi dialoghi col padre: è una Milano "malabolgia
[
] fatta a cerchio", spesso notturna, in cui "le cose
crescono serrate"; una città che in realtà - l'ha già
notato Fabio Pusterla - sembra lasciare ben poco spazio a giardini ed
orti, e che tuttavia è percepita essa stessa come enorme hortus
conclusus ("Milano finisce qui") recintato circolarmente dai
viali. È in questo spazio, invernale/infernale e vitale assieme,
che si svolge la vicenda cardinale dell'agonia e della morte del padre,
le cui parole diventano costantemente corpo vivo del testo, intimo impulso
dialogico e drammatico. "Se qualcosa ci ha uniti / è un'idea
di città e non altro - ", scrive Raimondi, quasi che la città
fosse un prolungamento del corpo in cui il figlio riconosce l'impronta
del padre, tanto che Sei tu, per me, Milano
è agnizione talmente decisiva da assurgere a titolo di sezione.
Così, col "fiato rotto, [e] tanta pietà" da sorprendere
se stesso e il genitore morente ("così sottile e nudo, così
legato / tutto rannicchiato"), Raimondi traccia col suo poema il
cammino di metamorfosi del padre in memoria ("Sono io, adesso, ad
avere memoria") e in parola: "Non sei che la mia preghiera.
/ La tua carne è di fiato"; o altrove: "Sei la prima
parola chiara / che mi hai detto al mattino". È proprio in
virtù di tale metamorfosi ("
ti curo come fossi il mio
alfabeto") che il poeta può accogliere e preservare, nella
propria parola (quella scritta), la presenza paterna, liberando nei versi
tutta la sua pietas di uomo e di figlio.
Massimo Gezzi
Poesia
"Poesia", n. 169, febbraio 2003
Vi sono anche gli orti
Nel suo Elogio di Milano
per la sua fertilità e la sovrabbondanza di ogni bene (che
occupa per intero il quarto capitolo del De
magnalibus Mediolani) Bonvesin de la Riva osserva: "Vi sono
anche gli orti, che fioriscono per l'intero corso dell'anno e producono
abbondanza di legumi di ogni genere". E forse Stefano Raimondi, ordinando
le sue poesie sotto il titolo La città
dell'orto, potrebbe strizzare l'occhio al suo grande antenato duecentesco:
benché gli orti, come tutti le altre bellezze naturali elencate
da Bonvesin (frutteti, castagneti, dolcissime vigne, fertili fiumi e infiniti
ruscelli di fonte, ecc.ecc.), sembrino oggi del tutto estranei alla realtà
milanese. E proprio in questo senso, già il titolo scelto dall'autore
suggerisce una dolorosa antitesi, che sarà poi sviluppata ed elaborata
nel corso della raccolta. L'argomento principale del volume, cioè
il tema della morte del padre, è infatti sin dall'inizio inserito
in una cornice metropolitana che complica e arricchisce la meditazione
poetica di Raimondi. Se l'orto richiama
una dimensione umana umile e familiare, una memoria operaia di lavoro
e di affetti che rimanda alla figura paterna, l'altro termine
città parla invece della Milano odierna, frenetica e spietata,
malabolgia fatta a cerchio in cui i
destini individuali sembrano perdersi nel nulla e svanire. Cos'è
la morte, nella Milano contemporanea? Quale spazio sa schiudere la città
costato di calcine alla pietà
del dolore e del lutto, alla dolcezza del ricordo e dei baci? E in che
modo il transito delle vite umane modifica e rifonda la stessa città,
passando il testimone della memoria dal padre al figlio (ma in questo
scambio, la memoria stessa non muta? e come? "Sono io, adesso, ad
avere memoria
", recita uno dei versi più belli)? Sono
questi, e altri di analoga intensità, gli interrogativi che Raimondi
insegue nei suoi versi, entro i quali la vicenda biografica, appena accennata
con pudore, si intreccia e si fonde con il paesaggio urbano, colto nei
suoi rari momenti di apertura, di squarcio in chiaroscuro: giardini, parchi,
spiazzi, dove per un istante le case si aprono, e le figure umane si rivelano
nella loro precaria individualità, nel loro divenire tormentato,
più purgatoriale che infernale ( le Ombre
che vanno di Purg. XXIII, per esempio; ma il canto VIII della stessa
cantica è esplicitamente rammentato in uno dei testi finali del
libro, che cita per esteso l'Inno della Compieta) . Uno degli aspetti
più interessanti del libro risiede appunto in questa sovrapposizione
drammatica, che si manifesta soprattutto nelle parole e nelle immagini:
come se un lessico cittadino pietroso, secco e scarno, fosse centrifugato
insieme al vocabolario pietoso dei sentimenti, alle formule quasi liturgiche
del compianto funebre. Per questa via, ecco generarsi ora una lacerazione
semantica ("per restare fatti / di pietà e di pietra ";
"Ghiaccio sui tombini come sopra bocche"; "Da qui non s'indovinano
i perdoni. / Solo la luce rasa tiene / il conto dei tetti risparmiati,
/ delle cantine tenute premute / con il buio bendato alle porte / rifugiato
dentro"), ora una sorta di misteriosa fusione ("La pietra ora
è nel mio sangue. / Non so chi di noi due è più solo
/ chi forte e d'ora in poi / per sempre"; "Un'ombra fa più
alta la casa / e dentro è un cortile che tace tutto /anche l'ultimo
piano che si sbraccia"; "Tienile al buio le mie parole. / Hanno
ancora un'ombra / una sola città dove farsi capire") che sembra
poter trasformare anche il dolore in una luce commossa: sicché,
nella poesia conclusiva, ma anche in molte altre parti della raccolta,
"Tremano anche le stelle: brillano".
Fabio Pusterla
LaRegioneTicino
17.09.2002
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