Autoantologia è
l'ultima traccia in ordine di tempo del suo "continuo
sfidare i limiti del linguaggio" (p. 3). È un
procedimento particolare, però, quello dell'antologia
personale: se da una parte vi è la possibilità
di evidenziare l'evoluzione e la coerenza di un percorso
artistico decennale, dall'altra si è inevitabilmente
spinti a mettere un po' d'ordine (viene in mente, par
la force des choses, Nominare il caos, dove "si
precisa l'assillo di dar volto a dati dell'esperienza che
sfuggono alla ragione", p. 4) nella propria ricerca
poetica, facendo delle scelte e privilegiando (valorizzando?)
certi temi e certi toni. Per questo, la prima e spontanea
domanda è: come ha affrontato il progetto editoriale
dell'Autoantologia? Quali sono stati i criteri di
scelta e, conseguentemente, di scarto?
Le sfide, come spesso accade, partono
dagli editori: le interesserebbe fare una piccola antologia?
Dapprima sembra un gioco, un agrodolce gioco di sottrazione,
di decantamento, da una massa abbastanza rilevante di testi.
Poi le cose si fanno maledettamente più complesse.
Occorre innanzitutto 'inventare' un punto di vista critico
che sospenda un eccessivo investimento affettivo nella propria
scrittura. Insomma proiettarsi in un 'io' per così
dire sovraindividuale, in grado di cogliere le attese dei
lettori e di creare un filo rosso che colleghi i momenti
sparsi di un'intera esperienza, quasi 'dall'alto'. Ci sarò
riuscito, non sarò stato vittima del solito abbaglio?
Soprattutto grazie alle note - spero introdotte con qualche
efficacia - su alcuni 'motivi conduttori', qualche frammento
di questo filo dovrebbe apparire. Ci sono alcune granitiche
'vette' delle Vigilie, che informano sulla mia sfida,
arrischiante, alle frontiere del senso. C'è poi il
lento glissare della parola nelle lagune più statiche
e contemplative di Apoteca, dove le 'macchine mondane'
(chiamo così certi assunti dell'esperienza diretta
del mondo) minacciano di scomporsi entro il vortice delle
'macchine divine' finendo per sfuggire alla presa del senso,
per cristallizzarsi infine in innocenti icone. E così
il 'vortice', in una promessa di futuro dinamismo, diviene
il contrassegno degli imminenti stati caotici di Nominare
il caos. I componimenti ludici di Krebs e In bocca
al vento fungono da corollari, per così dire,
alle opere più impegnative, tra cui non voglio dimenticare
Discordo. Ho cercato di diversificare: accanto a
testi relativamente distesi, ne ho scelti altri che presentassero
alcuni nodi problematici o adombrassero quesiti di poetica.
Il primo dei due testi di Krebs
(Ed. Ulivo, 2000) antologizzati dice: la poesia è
quella cosa che / alla questione se più pesante sia
/ un chilo di piume o un chilo di ferro / son sempre le
piume ad avere la meglio / tra flauti e cigni che / vengono
su a cantare. Parallelamente, nel testo introduttivo
alla raccolta, lei scrive "Krebs (2000) e In
bocca al vento (2005) sono libretti nati all'insegna
della leggerezza. Qui il disincanto può tingersi
di grottesco, evitare la costrizione del senso, il suo partito
preso. Non cerca più spiegazioni, si affida a una
sorta di "dolce crudeltà" una volta rifugiatosi
nelle ambigue zone di passaggio tra aforisma e nonsense"
(p. 4). Ora, leggendo attentamente Autoantologia,
ho l'impressione che questo suo commento possa essere esteso
a tutta la sua opera poetica come possibile chiave di lettura.
Non tanto per la leggerezza (dominante, appunto, in Krebs
e In bocca al vento), quanto più per l'ambiguità
e la tendenza ad aggirare la "costrizione del senso".
Cosa ne pensa? In questa prospettiva, mi sembra interessante
la nota a Puntando sul nero o sul rosso di Nominare
il caos: "Ritagliare gli accadimenti dal magma
vitale ("forfora spaziale") con le forbici della
ragione è un gioco insensato, ma forse imprescindibile
e gratificante come tutte le esibizioni dell'homo ludens"
(riecco anche una sorta di leggerezza). Cosa rappresenta
per la sua poesia il rapporto (peraltro attualissimo, si
pensi alla recente raccolta di Giovanni Orelli) tra gioco
e senso?
La poesia fa parte di quel gioco
(tragico molto spesso) col mondo di cui parla in maniera
lucidissima Huizinga. È l'attrito tra il gioco -
verbale nel caso della poesia - e il mondo, a generare il
senso o meglio le sue infinite oscillazioni. Spostando continuamente
i dati del reale, come sopra un'immaginaria scacchiera,
la poesia innesca un processo di simulazioni e di virtualità
allo stato puro. Rinnova i codici e le strutture attraverso
cui leggiamo la vita, riporta tutto a ciò che Bergson
chiama élan vital. Le certezze che ci provengono
(o crediamo ci provengano) dalle informazioni acquisite
e delle esperienze di grado zero si 'decostruiscono'. Non
che il linguaggio poetico incoraggi la scomparsa del vissuto
e della realtà, ma certamente ri-orienta il campo
d'interrogazione del soggetto, lo ricrea in forme insolite
e spaesanti. Importa poco che il tema prescelto sia quotidiano
o 'sublime': anzi, queste distinzioni prettamente accademiche,
almeno per quanto mi riguarda, finiscono per rivelarsi fasulle.
È la voce dell'Altro, difficilmente addomesticabile,
che interviene per farsi regista occulto dell'intero processo
di rappresentazione. Scrivendo mi sembra spesso di infrangere,
non dico la barriera interno-esterno o soggetto-oggetto
(ciò si verifica di regola in ogni creazione poetica
contemporanea), ma le stesse delimitazioni interne ai codici
patico-affettivi (il tragico, il comico, e altro). Il tragico
si sbriciola, forse per aver raggiunto un limite di saturazione
intenibile, in un pulviscolo di sensazioni comiche, o grottesche
o semplicemente assurde. Sembra che allora la realtà
venga a confidarsi in forme paradossalmente più familiari,
'alleggerite' da incrostazioni sentimentali e al di fuori
di categorie logiche. Forme astralmente lontane, quelle
che forse avevamo percepito in un altro stadio della nostra
esistenza. La metafora della forbice (v. anche vivere i
vincoli in Nominare il caos) che lei giustamente
cita, vorrebbe indicare la casualità con cui vengono
'ritagliati' i luoghi del nostro vivere e agire, sempre
dentro gli 'strappi ortogonali' di misteriose mappe, e sempre
di fianco, mai dentro al "verde universo accessibile".
Un verde universo, un esistere senza vincoli che appare
ormai come un incanto lontano. Quanto alla differenza tra
Giovanni Orelli e me, relativamente al rapporto gioco-senso,
mi pare che la sua agudeza faccia presa in modo particolare
sulla dimensione metalinguistica (è la grammatica
ad essere afferrata per la coda), mentre nel mio caso tendo
a circoscrivere enigmi cifrati soprattutto sul piano ontologico.
Dalle Notizie bio-bibliografiche
che chiudono Autoantologia, si scopre che, oltre
a una traduzione di Jacques Dupin, ha in preparazione una
nuova raccolta poetica: Corridoio polare. Cosa dobbiamo
aspettarci? Cosa rimarrà di quell'ultima sua grande
inquietudine che è Nominare il caos?
Corridoio polare (la cui uscita
è prevista in autunno) si presenta come una narrazione
poetica a più voci. Il luogo è una sorta di
manicomio a cielo aperto. Al centro c'è un personaggio
che dice io; sostiene di aver individuato un 'corridoio',
in una remota regione artica, in grado di proiettarlo in
nuove dimensioni, facendolo comunicare con l'altrove. Si
tratta di un lucidissimo visionario o di un folle? Le voci
di commento, quelle facilmente riconoscibili della 'psichiatria
ufficiale' e altre pronte invece a cogliere elementi di
verità del messaggio, si sovrappongono lasciando
del tutto irrisolto il dilemma.
Yari Bernasconi
Page créée le: 12.08.06
Dernière mise à jour le: 12.08.06
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