Fabrizio Mena
Stamperie ai margini d'Italia, Bellinzona,
Casagrande (Biblioteca di Storia), 2003
Fabrizio
Mena / Stamperie ai margini
d'Italia |
ISBN 88-7713-384-8
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Passate sotto il controllo
della Confederazione elvetica agli inizi del Cinquecento,
fino a Ottocento inoltrato le terre che costituiscono
l'attuale Cantone Ticino continuarono ad avere in
Como e Milano gli autentici poli della loro vita economica,
culturale, sociale e religiosa. D'altra parte, la
frontiera politica fornì le basi dello sviluppo
dell'arte tipografica in quest'area sottratta alla
giurisdizione lombarda, concedendo agli stampatori
una libertà di stampa di gran lunga superiore
a quella concessa da un po' tutti i governi italiani.
La prima tipografia della Svizzera italiana venne
aperta nel 1746 dai fratelli Agnelli, stampatori attivi
a Milano da oltre un secolo, e la produzione della
loro succursale luganese, svincolata dalle pastoie
amministrative asburgiche, attirò presto l'interesse
del pubblico italiano. Un successo analogo arrise
ad altri stampatori attivi nel Ticino del primo Ottocento,
in buona parte - non a caso - lombardi, incrementato
dalla conquista della piena libertà di stampa,
sancita dalla costituzione ticinese del 1830, e dagli
stimoli erogati da Milano, che nel corso della Restaurazione
divenne la capitale editoriale d'Italia.
Con l'approssimarsi del 1848, crebbe anche il loro
impegno in favore della causa nazionale italiana,
esponendosi alle ritorsioni dell'Austria.
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Fino a metà Ottocento, dunque, quello della stampa
ticinese fu essenzialmente un settore di frontiera, organizzato
in funzione del mercato italiano, al quale forniva una gamma
di prodotti piuttosto differenziata, dalle ristampe di pura
speculazione alle produzioni clandestine degli esuli, spesso
rovinose dal profilo finanziario. La libertà della
stampa accordata da Carlo Alberto al Piemonte, nel 1848,
privò invece le tipografie ticinesi, improvvisamente,
dell'esclusiva che ne aveva fatto la fortuna, innescando,
proprio nel momento della loro massima sollecitazione, il
tramonto di una stagione di imprese editoriali e giornalistiche
irripetibile.
Fabrizio
Mena (Mendrisio, 1956) ha conseguito il dottorato
in storia presso l'Università di Ginevra e insegna
storia al Liceo cantonale di Lugano 2. Ha collaborato alla
realizzazione della Storia della
Svizzera italiana e della
Storia del Cantone Ticino dirette da Raffaello Ceschi
(Bellinzona 1998-2000). E' membro del comitato di redazione
della rivista "Archivio Storico Ticinese" di Bellinzona.
La collana "Biblioteca di Storia"
nasce dalla lunga esperienza della rivista Archivio Storico
Ticinese in campo storiografico e ne costituisce quasi la
spontanea emanazione. Il laboratorio prolunga così
la propria attività in spazi più distesi e
mette a frutto in una collana i fermenti, le idee, i progetti
e i materiali nati dal lavoro dell'AST. Essa intende infatti
pubblicare saggi, studi e riflessioni che percorrono gli
itinerari frequentati dalla rivista, ne esplorano i territori,
ma con escursioni più ampie e incursioni più
profonde. La collana vuole tener fede all'apertura multidisciplinare,
alla curiosità comparativa, alla funzione mediatrice
tra le storiografie, all'attenzione per la storia e la cultura
delle civiltà alpine.
Stamperie
ai margini d'Italia, Editori e librai nella Svizzera italiana
1746-1848,
Bellinzona, Casagrande (Biblioteca di Storia), 2003, pp.
385, Euro 28
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Nota
di lettura di Pierre Lepori |
Nota di lettura: le stamperie
ticinesi al di là del mito
di Pierre Lepori
Il Risorgimento italiano - ben lo
capì Visconti col folgorante avvio del rutilante
Senso - trovò nel Melodramma l'impeto strumental-popolare
con cui trascendere la lotta nei "campi
di periglio" verso la sfera emozionale in cui
la storia si fa mito. Giuseppeverdi fece rima con libertà
(Viva V.E.R.D.I = Vittorio Emanuele Re d'Italia) e nei do
di petto di un finto-zingaro in evidente conflitto edipico
il "popolo-nazione" trovò un pressante
invito "all'armi all'armi!".
Forse non tutti sanno che, in ritardo di oltre mezzo secolo
e pressati dall'opposizione al totalitarismo dei limitrofi,
il Ticino ebbe il suo bravo melodramma d.o.c. per la Festa
della Vendemmia dell'autunno 1938. Certo, la denominazione
ufficiale allora irrinunciabile era quella
di Festspiel, ma basta una rapida occhiata allo spartito
di Casanova e l'Albertolli (musicato
dal solettese Richard Flury), nonché a un cast reso
illustre dal basso-buffo Afro Poli, per rendersi conto dell'evidente
tentativo di scrivere un melodramma ticinese.
Il libretto dell'opera-festspiel
fu composto per l'occasione dal timoniere dell'elvetismo
antifascista ticinese, il prof. Guido Calgari, allora instancabile
regista del nascente gruppo dei Radioattori della RSI. La
sua "trama" non gratta certo il fondo di barile
dell'epopea romantica: fa di più, raccoglie e rilancia
due dei miti principali con cui l'identità ticinese,
a partire da inizio secolo, ha cercato di costruirsi un
orgoglio nazionale: la valorizzazione dell'emigrazione di
maestranze artigiane, secondo la linea dei Maestri
comacini tracciata da Giuseppe Merzario in un saggio
del 1893 (e più volte rinfocolata fin da Francesco
Chiesa) - e l'apologia dell'alto pregio morale con cui gli
stampatori ticinesi, dalla metà del Settecento in
su, tifarono per le libertà della vicina penisola
(grazie alla posizione più emancipata del territorio
elvetico): troviamo così in quest'Opera - a sfondo
storico, ambientata nel 1776 - nientemeno che Giacomo Casanova
(tutto inteso, ça va sans dire, ad inzigare l'altrui
donzella) che approfitta di un soggiorno nel baliaggio elvetico
per dare alle stampe La Confutazione
della Storia del Governo Veneto di Amelot de la Houssaye,
presso lo stampatore-filosofo Agnelli.
Quest'ampia introduzione in forma di concertato valga a
rivolgere la nostra attenzione alla presenza - anche in
Svizzera Italiana - di una storiografia dell'orgoglio regionale,
fomentata da storici come Eligio Pometta nell'ottica di
rendere giustizia "al passato
di un popolo, il quale, molto a torto, fu già chiamato
privo di storia". E valga a dire l'importanza
di studi come quello che ci regala oggi Fabrizio Mena, dedicato
alle vicende degli stampatori ticinesi dal 1746 al 1848.
Studio ponderoso e vasto, nato da anni di tenaci ricerche
negli archivi svizzeri ed italiani, e che sfronda dei falsi
miti ed orgogliosi questo importante momento della storia
ticinese.
Intendiamoci: quella che Eric J. Hobsbawn ha giustamente
battezzato "l'invenzione
della tradizione" è una tentazione-necessità
non certo esclusiva delle valli cantonticinesi, e non è
neppure priva di merito, se si pensa all'impulso che tale
ideologia diede alla ricerca storica.
Ma è solo con studi come quello di Mena (e in altri
settori di Raffaello Ceschi e di Sandro Bianconi), che la
realtà culturale svizzero italiana può offrirsi
adeguate ricognizioni storiche, il più possibile
(ed è forse un'utopia) prive di preconcetti ideologici.
E' indubbio, come sottolinea il celebre apoftegma di T.S.Eliot,
che è "il presente
ad alterare il passato allo stesso modo in cui è
il passato a governare il presente", ma per
non correre il rischio di strumentalizzare il passato, Fabrizio
Mena si concede soltanto qualche furtiva incursione verso
l'oggidì (accennando a certi malvezzi della stampa
cantonale, ad esempio) e sceglie il puntiglio, la completezza,
il riserbo di un vero Wissenschaftler.
C'è dunque in questo studio una volontà scientifica
inoppugnabile, ma anche la ricerca di una visione il più
possibile complessiva: se infatti già esistono approfonditi
studi sulle stamperie "ai margini d'Italia" (Motta,
Caddeo, Martinola), il loro restringere il campo visivo
ad alcune stamperie e a precisi momenti storici (e politici),
implicava una messa in ombra della complessità del
contesto, in particolare delle valenze economiche che spinsero
i primi stampatori milanesi a scegliere le rive del Ceresio
per l'apertura delle proprie officine editoriali.
Ed una delle distinzioni fondamentali che sembra percorrere
il lavoro di Mena è quella tra l'attività
libraria (con le sue implicazioni economiche) e quella politico-giornalistica,
estremamente vivace nelle stamperie di frontiera: in alcuni
momenti, addirittura, ci si sorprende a scoprire che le
due attività si presentano in modo divergente: negli
anni seguenti al 1830, ad esempio, mentre la stampa si cantonalizza
e s'implica in modo sempre maggiore nella focosa vita politica
regionale, l'attività editoriale vera e propria -
favorita dalla nuova costituzione - sposa chiaramente la
causa nazionale italiana.
L'equilibrio tra istanze morali cosmopolite (non sempre
prive di ambiguità) e sviluppo di una vera e propria
cultura (politica, economica, intellettuale) ticinese, è
il nodo centrale della vasta indagine di Mena, che si legge
con passione sia per la sovrabbondante messe di dettagli
(anche divertenti, come quelli che riguardano i primi almanacchi
"familiari" o le opposizioni, con toni luciferini,
alla libertà di stampa), sia per la ricchezza delle
connessioni geo-politiche (federali, cantonali, estere),
che fa scoprire all'amatore di storia un quadro movimentato
e vivace del periodo di passaggio tra la vita di un baliaggio
confederale e la nascita del moderno canton Ticino.
La serietà caparbia di un lavoro archivistico inappuntabile
ci offre uno studio la cui ricchezza non può essere
qui riassunta, ma che vale la pena di leggere (e rileggere)
per non indulgere al mito e comprendere in profondità
una realtà culturale affascinante.
Pierre Lepori
© Le Culturactif Suisse 2002
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La
conclusione del libro |
Stamperie ai margini d'Italia
(estratto dalla
Conclusione del volume)
Le vicende degli Agnelli, come quelle,
per molti versi non paragonabili, degli stampatori italiani
che ne seguirono le tracce, da Veladini a Landi a Rovelli,
da Lampato a Repetti allo stesso Ciani, furono accomunate
dal forte orientamento verso il mercato della penisola,
catalizzatore di impegno culturale e politico e nel contempo
fonte di gratificazione commerciale. Ciò vale anche
per i ticinesi che man mano si inserirono nel settore, con
la non trascurabile differenza che mentre i primi, salvo
poche eccezioni, erano già dei professionisti piú
o meno navigati prima del loro arrivo nella Svizzera italiana,
i secondi esordirono quasi sempre senza un particolare apprendistato
e con motivazioni anche molto divergenti, dalla lotta politica
alla pura speculazione, che a volte finirono per coesistere
ed alimentarsi reciprocamente. Fra di essi, ritroviamo avvocati,
educatori, sacerdoti, uno speziale e qualche ricco uomo
d'affari, che di regola continuarono ad esercitare la loro
professione, facendo dell'editoria un'attività accessoria.
La tipografia Agnelli, con le sue fragili relazioni con
il territorio della Svizzera italiana, il suo profondo coinvolgimento
nei dibattiti e nelle controversie italiane ed europee,
la sua ampia rete di corrispondenti, autori e committenti,
e quindi con la sua forte interazione con la realtà
politica, culturale ed economica della penisola, fu parte
costitutiva dell'editoria lombarda e italiana del Settecento.
La sua apertura, nella Lugano del 1746, esprime il tentativo
di una famiglia di editori e stampatori attiva nella capitale
lombarda da oltre un secolo di dare nuova linfa a un commercio
che la Milano dell'epoca costringeva entro orizzonti piuttosto
limitati.
Gli Agnelli colsero solo in parte le opportunità
offerte dalla vantaggiosa posizione strategica e giuridica
del borgo sul Ceresio. La loro produzione libraria, pur
segnata da momenti di grande interesse, rimase infatti contenuta
entro limiti piuttosto modesti, assumendo un carattere autenticamente
"di frontiera" solo nei settori delle edizioni
antigesuitiche e filofrancesi, che dal profilo puramente
commerciale non dovettero essere particolarmente paganti.
Se nel corso di mezzo secolo, complessivamente, gli Agnelli
poterono pubblicare oltre 400 libri senza dover attendere
autorizzazioni di sorta, alcuni loro colleghi milanesi,
pur vessati dalla burocrazia e dalla censura, furono artefici
di una produzione anche piú ampia e diversificata.
L'abate Agnelli non seppe o non volle stringere legami significativi
con gli illuministi lombardi, che pure avevano bussato alle
porte della sua tipografia già negli anni cinquanta,
mentre uno stampatore intraprendente come Giuseppe Galeazzi,
pur continuando ad operare a Milano, riuscí a diventare
l'editore di riferimento di Pietro Verri e dell'Accademia
dei Pugni.
D'altro canto, i vantaggi connessi all'assenza degli impedimenti
burocratici di cui si è detto consentí alla
casa luganese di servire i propri committenti con grande
tempestività, limitando i termini di consegna ai
tempi effettivi di lavorazione e di trasporto. Si spiega
cosí il fatto che una parte certamente non trascurabile
della produzione della tipografia Agnelli sia formata da
edizioni liberamente ammesse in Italia, realizzate almeno
in parte per conto di committenti italiani decisi a evitare
le lungaggini imposte dalle procedure amministrative. Questa
fonte complementare di reddito caratterizzò anche
il catalogo delle stamperie ticinesi della prima parte dell'Ottocento,
nel quale ritroviamo numerose produzioni perfettamente legali,
che si situano agli antipodi delle categorie del libro proibito
e del foglio clandestino. D'altra parte, molti committenti
della Svizzera italiana, soprattutto quelli delle aree piú
prossime alla frontiera, continuarono a riferirsi alle tipografie
lombarde, loro tradizionali fornitrici di prodotti a stampa.
Sul fronte del commercio librario, l'abate Agnelli preferí
declinare gli inviti di alcuni fra i maggiori librai svizzeri,
interpreti di un'editoria d'avanguardia, interessati a fare
di Lugano uno snodo dei propri commerci in Italia. Il pilastro
portante dell'azienda, almeno nei periodi di magra dell'officina
tipografica, fu dunque, con ogni probabilità, il
settimanale «Nuove di diverse corti e paesi»,
gradito da molti lettori italiani per le sue qualità
di foglio di frontiera - indipendenza di giudizio e tempestività.
La morte dell'abate, nel 1788, rappresentò la cesura
piú importante nella storia della stamperia luganese.
Il cambio di gestione segnò infatti una decisa ridefinizione
delle strategie aziendali della casa, le cui sorti - non
solo finanziarie - si legarono indissolubilmente alla gazzetta,
sempre piú scopertamente favorevole alla rivoluzione,
e a un commercio librario sempre piú politicizzato.
A fine secolo, inevitabilmente, la tipografia finí
per essere giudicata corresponsabile degli eventi che segnarono
la fine dell'antico regime nella Svizzera italiana, favoreggiatrice
e compartecipe di un evento indotto dall'estero e subito
impopolare. Gesto di rabbioso rifiuto della modernità,
la sua distruzione rivela l'acquisita consapevolezza dell'impatto
delle idee sul corso degli eventi, da parte di una società
ancora profondamente tradizionale ma in qualche modo costretta
a confrontarsi con i simboli del cambiamento - l'ultimo
numero della gazzetta, l'opuscolo politico, la parola stampata
in tutte le sue varietà.
Il sistema napoleonico, controllando efficacemente la Svizzera
e dunque ridimensionando drasticamente il senso della frontiera,
che si ritrovò privata della necessaria porosità,
pose un freno energico alla libertà di azione della
neonata stamperia Veladini. Impedendole di giocare lo stesso
ruolo di disturbo svolto dalla tipografia Agnelli negli
ultimi anni dell'amministrazione austriaca in Lombardia,
e dunque privandola della possibilità di interagire
con il mercato italiano, la Mediazione la costrinse a un'esistenza
di grande precarietà, al limite della sopravvivenza.
Furono, ancora una volta, gli eventi esterni a cambiare
le cose. Il nuovo ordine europeo, sancito nel 1815, restituí
alle stamperie ticinesi la possibilità di recitare
un ruolo alternativo nel panorama editoriale della penisola.
La frammentazione del territorio imposta dal Congresso di
Vienna, con la conseguente tendenza del mercato librario
italiano a regionalizzarsi, la rinascita della censura nel
Lombardo-Veneto e l'adozione di una politica daziaria penalizzante
anche per i prodotti a stampa, restituirono ai confini meridionali
del cantone il loro tradizionale significato, favorendo
il rilancio del settore tipografico. L'affermazione di Milano
quale principale polo editoriale italiano, nel corso della
Restaurazione, costituí un ulteriore motivo di crescita
delle arti grafiche del cantone.
Nei primi anni venti, il fallimento dei moti insurrezionali
inaugurò l'intensa stagione degli esuli italiani
in Ticino, diversi dei quali ispirarono la produzione della
stamperia liberale di Vanelli e Ruggia. Parallelamente,
le tipografie iniziarono a stringere relazioni piú
intense e significative anche con la società ticinese,
fornendo un'efficace cassa di risonanza alle istanze modernizzatrici
espresse da filantropi e progressisti e alimentando il dibattito
sulla riforma della costituzione. Il «Corriere Svizzero»
cominciò a presentare all'opinione pubblica spunti
di riflessione e informazioni non addomesticate sulla politica
cantonale, fornendole un concreto strumento di crescita.
La campagna condotta sulle pagine del foglio liberale e
attraverso molti opuscoli licenziati da Giuseppe Ruggia
alla fine del decennio contribuí in misura determinante
al crollo del regime illiberale dei landamani.
La riforma della costituzione, nel 1830, segnò una
cesura decisiva anche nella storia del libro e del giornalismo
cantonali. L'affermazione della libertà di stampa
favorí una rapida fioritura di fogli periodici, incentivata
dalle ambizioni e dagli interessi di fazioni politiche e
gruppi di pressione, obbligati ad acquisire visibilità
e ad adattare le proprie strategie alle nuove regole del
gioco. Sostenuti da società per azioni piuttosto
ramificate o da padrini vecchi e nuovi della politica ticinese,
ciascuno dal proprio punto di vista, i nuovi giornali si
dedicarono con attenzione sempre crescente agli oggetti
di interesse regionale, promovendo in misura significativa
l'elaborazione dell'identità cantonale, nazionale
e politica, sempre piú incentrata, quest'ultima,
sulla contrapposizione fra radicali e conservatori. Ciò
comportò anche una non sempre felice evoluzione del
linguaggio giornalistico, che si fece generalmente piú
aspro e in parte decisamente aggressivo.
Ai redattori già sperimentati se ne aggiunsero di
nuovi, a volte improvvisati, spesso avvocati o sacerdoti,
non sempre in grado di distinguere fra pezzo giornalistico,
arringa e sermone. Alcuni di essi riuscirono a trasformarsi
in professionisti dell'informazione, favorendo una crescita
anche quantitativa di una categoria sin lí composta
da pochi iniziati. Le pagine dei giornali divennero un luogo
attivamente frequentato anche dai lettori, sempre piú
desiderosi di intervenire in prima persona nei dibattiti
del momento, sollecitati in questo senso anche dal diritto
di replica, introdotto dalla legge sulla stampa. Questa
evoluzione mostra che il tradizionale cosmopolitismo dei
periodici ticinesi, praticato fino agli anni venti, era
stato essenzialmente il prodotto di contingenze oggettive,
quali l'assenza di un pubblico locale sufficientemente ampio
e le limitazioni alla libertà di stampa nel campo
della politica interna. La sola eccezione a questa regola
è rappresentata dalla «Gazzetta Ticinese»,
che nella sua duplice veste di foglio ufficiale e di notiziario
internazionale continuò a rivolgersi a un pubblico
ampio e indifferenziato, evitando di abbandonare la pacatezza
che ne aveva fatto il giornale ticinese piú diffuso
nel cantone e piú esportato in Italia.
La stampa periodica optò quindi per l'opzione locale
non appena il quadro giuridico e istituzionale gliene diede
l'opportunità, malgrado le dimensioni del pubblico
non corrispondessero ancora alle ambizioni di editori e
pubblicisti. Gli anni della Rigenerazione videro infatti
il rapido succedersi di giornali costretti a condurre una
vita precaria o a chiudere a causa della penuria di abbonati
o di capacità gestionali ancora scarse. Il successo
dell'«Istruttore del popolo» di Francesco Pastori
dimostra l'importanza decisiva delle strategie di mercato,
efficacemente attivate da questo abile editore e desolatamente
assenti in molti altri casi. Diversi fogli politici riuscirono
infatti a trascinarsi solo grazie ai finanziamenti a fondo
perso dei loro proprietari, come nel caso dell'«Ancora»
di Vincenzo Borsa, dell'«Indipendente Svizzero»
di Giambattista Quadri o dell'«Iride» di Corrado
Molo.
Il 1830 pose le premesse di un radicale cambiamento anche
nel settore della produzione libraria, chiamata a spiegare,
promuovere o contrastare le svariate iniziative all'ordine
del giorno, concernenti oggetti di fondamentale importanza
quali l'istruzione pubblica, la sanità o la gestione
del territorio. Nel contempo, il 1830 accentuò il
carattere cosmopolita della produzione libraria ticinese,
stimolata dalla domanda del mercato italiano, che incentivò
sia la pirateria letteraria -in buona parte fondata sul
plagio di libri autorizzati-, che imprese editoriali di
ampio respiro, rappresentate soprattutto dalla produzione
dell'Elvetica, i cui magazzini, ricchi di decine di migliaia
di volumi, sono testimonianza di un commercio di grande
intensità.
La costituzione del 1830 incoraggiò gli editori di
parte liberale a intensificare il proprio impegno in favore
della causa nazionale italiana, entrata in una fase piú
attiva e bisognosa di nuova linfa propagandistica. La fioritura
di questo filone fu propiziata dall'affluenza in Ticino
di nuovi esuli italiani, ed ebbe i suoi interpreti principali
in Giuseppe Ruggia negli anni trenta, in Giacomo Ciani e
Alessandro Repetti nel decennio successivo. Si trattava
di una produzione ad alto rischio e di scarsi profitti,
che esigeva una politica aziendale rigorosa, capace di fare
convivere, con pragmatismo, l'opuscolo rivoluzionario e
la ristampa abusiva, alla costante ricerca di un compromesso
accettabile fra le ragioni della politica e quelle del bilancio.
D'altra parte, l'impegno dei progressisti ticinesi in questo
ambito corrispondeva anche a finalità di consolidamento
delle istanze liberali sul piano cantonale e a una strategia
di contrapposizione al patto federale del 1815, tanto caro
alla Santa Alleanza, che riducendo la Svizzera a una giustapposizione
di piccoli stati gelosi della propria sovranità,
la privava della possibilità di elaborare una politica
nazionale moderna. Da questo punto di vista, la storia dell'editoria
risorgimentale ticinese può essere letta anche come
una delle manifestazioni della lotta politica che dalla
rigenerazione cantonale del 1830 condussero all'affermazione
dello stato federale, nel 1848.
Le stamperie ticinesi imboccarono la strada della crisi
nel momento in cui, negli anni quaranta, la produzione editoriale
italiana entrò in una fase di rallentamento, particolarmente
avvertita in Lombardia. Nel contempo, la geografia editoriale
della penisola iniziò a polarizzarsi su Torino e
Firenze, dove operatori innovativi del calibro di Pomba
e Vieusseux avevano iniziato a fondare la produzione e il
commercio di libri su basi industriali e su criteri capitalistici
moderni, non adattabili alla realtà preindustriale
del Ticino dell'epoca. Parallelamente, l'entrata in vigore
della convenzione austro-sarda sulla proprietà letteraria,
pur non determinando la fine immediata della pratica delle
ristampe abusive, ne segnò l'inesorabile declino,
confinandone il commercio nella sfera dell'illegalità.
Il modello tradizionale dell'impresa artigianale imperniata
sulla libreria e sul disinvolto ricorso alla pirateria letteraria
era dunque condannato a essere estromesso dal mercato ad
ampio raggio. I primi tentativi di vendere l'Elvetica, non
a caso, si verificarono proprio nei primissimi anni quaranta,
segni premonitori della crisi strutturale che avrebbe investito
l'editoria ticinese a metà secolo.
L'affermazione della libertà della stampa nel Piemonte
del 1848, infatti, privò il Ticino anche dell'ultima,
essenziale prerogativa di cui ancora disponeva, modificando
profondamente il senso della frontiera, che da catalizzatore
dei suoi traffici librari divenne un limite di demarcazione
difficilmente valicabile. Lo statuto albertino avvantaggiò
dunque ulteriormente Torino, dove, non a caso, Repetti tentò
di trasferire la sua attività.
Cosí, mentre le tipografie della Svizzera Italiana
e dell'Elvetica chiudevano, si affermò il primato
di Veladini, che divenne il modello dello stampatore-libraio
ticinese di metà Ottocento. Privo di intenti pedagogici
e di slanci ideali, animato da una buona dose di realismo,
Pasquale Veladini riuscí a fare del mercato interno
il baricentro dei propri commerci. Era il segnale inequivocabile
di un netto cambio d'epoca, della fine del tradizionale
rapporto d'osmosi con il mercato librario italiano, ma in
qualche modo ciò significava anche la rivalsa del
localismo sul cosmopolitismo. Ridimensionata dalla crisi
degli anni cinquanta, la produzione editoriale ticinese
si sarebbe infatti riorganizzata in funzione di una domanda
interna via via piú intensa e diversificata, finalmente
in grado di sostenere, da sola, l'intero settore delle arti
grafiche. Il suo assestamento entro i limiti del cantone
avrebbe fatalmente alimentato atteggiamenti particolaristici
e provinciali, ma anche fornito al paese alcuni importanti
strumenti per affrontare i diversi compiti che l'attendevano.
Con un paradosso solo apparente fu dunque proprio il 1848,
con i suoi straordinari impulsi, a decretare la fine di
una stagione di imprese editoriali e giornalistiche irripetibile.
Altre sollecitazioni sarebbero giunte piú in là,
con una nuova ondata di profughi politici - anarchici, socialisti,
sindacalisti rivoluzionari -, con l'avvento della Gotthardbahn
e con le grandi trasformazioni sociali dell'ultimo scorcio
dell'Ottocento, che scuotendo con forza la società
ticinese avrebbero coinvolto profondamente anche le sue
stamperie.
Fabrizio Mena
© Edizioni Casagrande 2003
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Verso
la Svizzera in cerca di "fortuna" e di libertà
di stampa / La Sesia |
Verso la Svizzera in cerca di
"fortuna" e di libertà di stampa
"Stamperie ai margini d'Italia.
Editori e librai nella Svizzera italiana 1746-1848"
è il titolo di un insolito volume pubblicato dalla
Edizioni Casagrande di Bellinzona nella sua collana "Biblioteca
di storia".
Autore ne è lo storico svizzero
Fabrizio Mena, che dopo lunghi studi ha trasformato la sua
tesi di laurea in un corposo volume, ricco di fonti e di
notizie interessanti sul periodo a cavallo tra il Settecento
e il Risorgimento.
Nel suo saggio Mena privilegia -
vuoi per amore dell'aspetto "eroico", vuoi perché
inevitabilmente risultano quelle più conosciute -
le imprese tipografico-editoriali più politicizzate,
quelle più partecipi alle vicende del Risorgimento
italiano e come tali più esposte alle proteste austriache,
a perquisizioni, inchieste, processi.
La sortira prende il via da Milano,
dai tre fratelli Agnelli, provenienti da una famiglia di
"stampatori e mercanti di libri da oltre un secolo",
che decidono di aprire una succursale a Lugano scappando
così dalla crisi dell'editoria milanese, alle prese
con una normativa ben poco incoraggiante, vessata com'era
dalle approvazioni dell'autorità ecclesiastica (non
ultima l'Inquisizione) e dello Stato Lombardo.
Gli Agnelli partono alla volta della
Svizzera in cerca sì della libertà di stampa,
ma mirando a un commercio librario e a un'attività
editoriale a largo raggio, che andasse ben oltre i confini
dello stesso ducato milanese. L'intenzione è quella
di fornire prodotti di ampio respiro, attenti alle politica
europea e lontano dalle cronache locali. Da qui - dall'apertura
cioè della bottega degli Agnelli a Lugano in piazza
Grande nel 1746 - si dipana un pezzo di storia interessante,
fatto di libri e giornali più o meno rivoluzionari,
comunque indipendenti.
Un successo analogo a quello degli
Agnelli arrise anche ad altri stampatori attivi nel Ticino
del primo Ottocento, che divenne un centro tipografico importante
soprattutto grazie alla piena libertà di stampa sancita
dalla costituzione ticinese del 1830. Un "settore di
frontiera" - così lo definisce l'autore - fino
a metà Ottocento, organizzato sempre in funzione
del mercato italiano. Fu una stagione di imprese editoriali
e giornalistiche irripetibile che tramontò, proprio
nel suo momento culminante, con la libertà di stampa
concessa al Piemonte dall'editto di Carlo Alberto . Correva
il 1848 :da lì in poi la produzione editoriale ticinese
si sarebbe assestata entro i limiti del Cantone, alimentando
atteggiamenti forse provinciali ma fornendo al paese strumenti
importanti per i compiti che l'attendevano.
Stamperie ai margini d'Italia,
Editori e librai nella Svizzera italiana 1746-1848,
Bellinzona, Casagrande (Biblioteca di Storia), 2003, pp.
385, Euro 28
p.a.
Venerdi 11 luglio 2003
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La
recensione de La Regione |
In libreria 'Stamperie ai margini
d'Italia' Premio Migros a Fabrizio Mena
Un secolo di gloria dell'editoria
di frontiera raccontato nel libro Stamperie
ai margini d'Italia - Editori
e librai nella Svizzera italiana, 1746 -1848 di Fabrizio
Mena, docente di storia presso il Liceo Lugano 2 e membro
del comitato di redazione della rivista 'Archivio storico
ticinese' di Bellinzona. Il volume, vincitore del Premio
Migros Ticino 2001 per ricerche di storia locale e regionale
della Svizzera italiana, racconta la storia dell'editoria
'ticinese' - di quell'area cioè sottratta dalla giurisdizione
lombarda - la quale essendo di confine «concedeva
agli stampatori una libertà di stampa di gran lunga
superiore a quella concessa da un po' tutti i governi italiani».
(...)
Lo studio di Fabrizio Mena - nato come tesi di dottorato
per l'Università di Ginevra - permette così
di conoscere lo sviluppo dell'arte tipografica nella nostra
regione e di scoprire che questa ha avuto un ruolo importante,
proprio perché sul confine, nella vicenda del Risorgimento
italiano e nel travagliato processo di costruzione dello
Stato cantonale. Ed è proprio su queste imprese tipografico-
editoriali più politicizzate che gli studi dell'autore
si concentrano.
Stamperie
ai margini d'Italia, Editori e librai nella Svizzera italiana
1746-1848,
Bellinzona, Casagrande (Biblioteca di Storia), 2003, pp.
385, Euro 28
Page créée le: 29.08.03
Dernière mise à jour le 29.08.03
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