È autista di bus a Losanna, d'origine rumena, e pubblica una delle opere più interessanti della rentrée littéraire presso il prestigioso editore parigino José Corti. Bel riconoscimento per Marius Daniel Popescu, che entra nel mondo della letteratura dalla porta principale, dopo una raccolta di poesie, Les Arrêts déplacés [ Le fermate spostate ], pubblicata nel 2004 dalle Éditions Antipodes. L'autore, con La Symphonie du loup [ La sinfonia del lupo ], traccia un sontuoso affresco autobiografico e polifonico. «Ho voluto dare testimonianza di quello che ho vissuto in una lingua nuova, vera, che faccia vibrare il lettore», spiega l'autore, arrivato a Losanna nel 1990. «Ci sono i miei ricordi, certo, ma soprattutto il lavoro che è stato fatto su questi ricordi». E prende una forma notevole, questo lavoro, alternando punti di vista e sequenze - la Romania del passato, la Losanna di oggi - per tentare d'avvicinarsi a una certa verità degli esseri e delle cose.
Il romanzo si apre in Romania, con la morte accidentale del padre architetto. Popescu rende conto del funerale, del ricordo delle avventure nei cantieri, dei primi turbamenti, della sua famiglia e dei suoi anni di studi d'ingegneria forestale attraverso un prisma particolare: il racconto autobiografico della sua giovinezza, infatti, è qui sostenuto dalla voce del nonno. Il mondo dell'autore si erge in un «tu» che crea allo stesso tempo distanza e intimità. Inoltre, il rivolgersi al bambino che fu - nonché al lettore - àncora il racconto anche nello sfilare delle generazioni: una dimensione importante, confessa Popescu, «soprattutto quando la società è attraversata da tali sconvolgimenti». I punti di vista, però, variano, seguendo un'alternanza di «io», di «tu» e di «egli» che «s'iscrive in un rituale di diversità di approcci. Questo libro», afferma, «è per me una sinfonia degli atti passati e del francese letterario». Dopo il divorzio dei genitori, il bambino occupa due locali nella casa della nonna, disposta attorno a una corte con i suoi polli, i suoi alberi da frutta e la sua fontana. Vicino, la strada polverosa e animata, dove passano i gitani che raccolgono bottiglie vuote e i cortei dei giorni di festa; poco oltre, il fiume nel quale va a pescare; più lontano, la città, le officine, l'università, la stazione. La mancanza di comodità e il partito unico non impediscono la felicità.
Sul fronte losannese, il quotidiano scorre in piccoli aneddoti dove, marito e padre attento di due figlie, il «lupo» rasserenato osserva i giochi, i gesti, le parole della sua famiglia. Per Popescu, il reale è costituito da «miliardi di dettagli»: dall'attenzione ai rituali del quotidiano, l'autore sacralizza la loro banalità e la trasforma in poesia. Il lettore è inizialmente colpito da quest'attenzione ossessiva ai più infimi dettagli, dalla minuzia con la quale sono descritti gli oggetti, i gesti, la scenografia, dalla precisione delle enumerazioni: sotto il tessuto delle ripetizioni, le lunghe frasi si distendono e sembrano talvolta girare su di sé, fermarsi, indietreggiare. Come nella scena inaugurale, dove il bambino viene a sapere della morte del padre: «Camminavi nell'acqua e tenevi la tua canna da pesca su una delle tue spalle e pensavi a tuo padre e guardavi l'acqua del fiume e tua zia che ti aspettava al bordo del fiume e guardavi i pioppi che spingevano sul bordo del fiume dove tua zia ti aspettava e pensavi alla tua canna da pesca fatta col fusto di una pianta». Malgrado ciò, le ripetizioni finiscono per creare una rete d'eco che, battendo il tempo del quotidiano, s'eleva in un canto che affascina il lettore. A forza di volersi avvicinare il più possibile al reale, la scrittura di Popescu produce veri e propri lampi poetici e getta delle passerelle tra più livelli di linguaggio e di realtà. Come il suo stupore di bambino per il ciliegio della nonna, di cui «nessun ramo e nessuna gemma» appartiene al partito unico: «fiori a migliaia nella corte della nonna, api a centinaia nella corte dove vivevi, dei petali di fiori bianchi a migliaia sulla terra primaverile, delle zolle di terra da poco arata in un miscuglio di petali di fiori di ciliegio e l'odore di fieno bruciato. Tu eri nella tua piramide, ritrovavi le tue ecatombe, le parole erano in te e dormivano».
Dietro la valanga descrittiva, si indovina un desiderio di verità, una ricerca della parola giusta. «Le parole non dovrebbero esistere», scrive Popescu, ed è come un leitmotiv lungo tutto il suo romanzo-fiume. Si tratta di riconoscere i loro limiti: il reale esiste al di fuori delle parole, che non bastano a creare il mondo e possono tradire. « Bisogna soprattutto riuscire a utilizzarle, far dire loro qualcosa di vero », spiega l'autore, che è passato dal mondo del partito unico a quello della «pubblicità unica». «In fin dei conti, c'è tutto quello che vuoi, ma non dimenticare: non ci sono parole». Confrontato a quest'assenza, il lupo angosciato e solitario, l'ingegnere forestale, l'autista di bus s'è fatto esploratore della lingua francese. E tenta di ricreare un mondo letterario a partire dalla concretezza dei giorni, di questi elementi visibili che sono come mattoni a partire dai quali rinforzare una certa postura filosofica.
Traduzione e adattamento Le Cultur@ctif
Page créée le 08.11.07
Dernière mise à jour le 08.11.07
|