Alberto Nessi
La letteratura come una stretta di mano

di Isabelle Rüf

Il Ticino è al tempo stesso un «paese dimenticato», una «terra matta», per riprendere le parole di Alberto Nessi, una terra d'esilio, un luogo di passaggio fra Nord e Sud, una terra colonizzata, benedetta da quegli dei che le hanno regalato un clima mite e paesaggi sublimi, una provincia con tutte le sue meschinità, i suoi pettegolezzi e la sua ristrettezza. Insomma, gli stereotipi si accumulano facilmente, con la loro parte di verità. Coccolati, sovvenzionati, poco conosciuti nel loro stesso paese come in Italia, gli scrittori ticinesi devono sbrigarsela con queste contraddizioni. E fra questi Alberto Nessi è uno di quelli che più si è impegnato per il riconoscimento ‘esterno' di un'identità ticinese. Grazie alla sua presenza calorosa, i suoi scritti raffinati e accessibili al contempo e la generosità con cui li condivide.
È nato il 19 novembre 1940. La generazione precedente è dominata dai due Orelli: Giorgio, il poeta, e Giovanni, erudito e fervente, e da un narratore del paese perduto, Plinio Martini. Le generazioni seguenti contano numerosi poeti, tra cui Fabio Pusterla, Aurelio Buletti. Due case editrici importanti: Dadò e Casagrande. Una quantità sorprendente di riviste letterarie. In questo contesto il posto di Alberto Nessi è centrale.
Cresciuto in un ambiente popolare, si è sempre sentito in debito verso i suoi genitori. Ha distillato qua e là le loro vite nel cuore di molti racconti, mescolandole ad altri destini «irregolari». Storie di contadini e di operai, di rivolte e di scioperi, di solidarietà, ma anche di solitudine e silenzio. Anche per questo gli è stata assegnata l'etichetta di «poeta sociale», che lo irrita ma in cui pure, in parte, si riconosce.
Questa attenzione alla gente «da poco» e alle cose semplici nutre già la sua poesia. I giorni feriali (1969), Ai margini (1975), Rasoterra (1983), i titoli parlano chiaro: c'è un'attenzione al quotidiano, senza magniloquenza. Lo stesso per la prosa. Terra matta (1984) raccoglie tre episodi della storia del Mendrisiotto, sulla frontiera con l'Italia: le lotte fra conservatori e liberali del 1843-1847, le lotte sindacali delle sigaraie all'inizio del XX secolo, la testimonianza di uno scalpellino che ha combattuto nella guerra di Spagna. Tutti discendono (1984) riunisce ricordi d'infanzia e di giovinezza, i primi amori, il sentimento di rivolta e d'ingiustizia provato di fronte alla svendita del paese agli affaristi. Lo sguardo di Nessi si posa «rasoterra», all'altezza del quotidiano: «È per mia zia Milia che ho scritto questa storia, per lo zio anarchico tornato al mondo a puntare la sua pistola contro il teologo di marmo, per i fumatori di carta, per i bergum: per quelli che non la leggeranno».
In un'antologia di testi sul Ticino da lui selezionati, Rabbia di vento (1986), dimostra la stessa attenzione verso ciò che accade «in basso». Populista per questo? Non certo nel senso nazionalista, regionalista e passatista della Lega. Il cuore di Nessi è a sinistra, e nell'ottobre del 2007 si è candidato al Consiglio Nazionale: non si può sostenere la solidarietà e restare in disparte, si è detto.
Ma quel che ama di più è percorrere la sua valle, come ha raccontato in Marche et paysage (Metropolis, 2007), e lasciare che le parole vengano da sé; nutrire lo spirito frugando nella sua immensa biblioteca (magnificamente ordinata) nella sua nuova casa nel villaggio di Bruzella, al di sopra delle nebbie di Chiasso. Nella vecchia stalla, fra le tele degli amici, ha piazzato la sua scrivania davanti a una finestra che dà sui boschi. La casa d'abitazione invece, che conserva qualche decorazione originale, è stata arredata con finezza dalla moglie italiana, insegnante di latino alle scuole medie. Le camere sono sempre pronte ad accogliere le due figlie: quella che sta preparando una tesi in storia dell'arte a Venezia, e quella che si occupa di bambini psicotici, a Ginevra.
A 67 anni Alberto Nessi conduce una vita di scrittore attivo, con letture pubbliche e nei licei, interventi sui giornali, viaggi in paesi lontani (è stato ad esempio ospite del Festival di poesia di Medellin in Colombia). Ma soprattutto rimane l'osservatore silenzioso e fraterno degli alberi e degli esseri.

 

Intervista

Alberto Nessi, quali ricordi conserva della sua infanzia?

Sono nato alla periferia di Chiasso, nel 1940. La guerra l'ho vissuta marginalmente, ero molto piccolo. Mia madre mi raccontava del flusso dei rifugiati; ce n'è anche uno che si è fermato da noi: un avvenimento! Quando avevo tre, anzi cinque anni, ci sono state, alla fine della guerra, delle manifestazioni contro quei commercianti che erano scesi a patti col fascismo. L'ho raccontato in Tutti discendono . Avevo solo vagamente coscienza di vivere in un luogo di frontiera. Quando da ragazzo andavo dall'altra parte, in Italia, a comprare il vino o le arance, vedevo nei chioschi giornali come “Avanti!” o “L'Unità”, sconosciuti da noi. Mi sembrava che la vera Storia, con la S maiuscola, avvenisse da quella parte.

I suoi genitori erano impegnati politicamente?

Mia madre no, per niente. Era una donna semplice e sensibile, dolce di carattere. Mio padre è stato socialista, nella sua giovinezza. Ha fatto lo sciopero con gli impiegati. Uno zio mi ha raccontato che era persino andato in Italia a cantare Bandiera rossa . È stato arrestato dai fascisti, e non aveva più il diritto di passare la frontiera. Non l'ho mai conosciuto bene, è morto quando avevo quindici anni. Ma so che quando mia madre ha voluto chiamarmi Franco ha detto di no, perché si ricordava della guerra di Spagna e non voleva che avessi il nome di un dittatore. Sono molto fiero di non chiamarmi Franco per ragioni politiche! (Ride)

Quando nei suoi libri evoca la sua morte, lei dice che è stato «assassinato» da un medico. Che cosa significa?

Si sentiva male, mia madre ha chiamato il medico, ma lui, invece di venire, ha mandato qualcuno a fare un'iniezione. Ed è morto. Si può dire che è stato assassinato perché era dovere del medico venire a visitarlo. Quello che non ho sopportato è che ci ha trascurati perché eravamo poveri. Mio padre era un piccolo impiegato, e mia madre non ha neppure avuto il diritto alla pensione di vedovanza.

Il mondo della sua infanzia è cambiato molto?

Ah, sì! Abitavo in una casa di fronte a una fattoria. Per giocare avevamo la stalla, i prati, il fiume. Davamo i nomi dei ciclisti (Coppi, Koblet, Kübler, Bartali) a dei legnetti che mettevamo in acqua per fargli fare il Giro d'Italia. Ebbene, oggi c'è un progetto per costruire un enorme uovo di cinquanta metri su questo terreno, che sarebbe un centro commerciale per bambini da 0 a 14 anni. La perversione totale. Un progetto per incitarli a consumare, per vendere giocattoli e per attirare clienti dall'Italia. Un centro commerciale per bambini! Là, dove io suonavo il piffero su un mucchio di fieno.

Come si è svolta la sua educazione?

Ero una bambino tranquillo, non un ribelle. Ho cominciato a scoprire il fascino della parola e della bellezza grazie a un martin pescatore che avevo visto nei pressi del fiume Breggia (dove oggi ci sono degli alberi metallici a proteggerci dai rumori dell'autostrada). Io sono rimasto fermo, davanti a questo miracolo della natura. Poi ho conosciuto altre parole, per esempio che una catena di montagne poteva chiamarsi «giogaia». Ho cominciato a pensare che c'era qualcosa di misterioso nelle parole. E poi mi è stato detto “Tu farai il maestro”, il maestro di scuola, talmente ero tranquillo! Così sono stato mandato alla Scuola Magistrale, e sono entrato nell'età della ribellione, dell'adolescenza. Mi sono quasi fatto espellere a causa di un'espressione che avevo messo in un componimento per fedeltà alla fonte, un'espressione presa da un amico che mi raccontava i suoi sogni. Leggevamo Pratolini, Pavese, Pasolini. Volevo fare del neorealismo. Poi per cinque anni ho insegnato, mi piaceva fare il maestro. In seguito mi sono convinto che dovevo andare all'università, e sono partito per Friburgo. Là, certamente, ho imparato delle cose sulla letteratura, ma l'ambiente accademico non faceva per me, e ottenuta la licenza di maestro delle medie, sono rientrato. Mia madre aveva bisogno di me.

C'erano libri a casa vostra?

A casa, no. I soli libri che avevo era grazie ai punti Juwo (ho anche avuto un flauto grazie a questi punti, amavo la musica). Be', mio padre prendeva in prestito dei libri dalla biblioteca degli impiegati, e mio zio mi regalava le storie d'avventura di Salgari. Ma i veri libri, come l'antologia Lirica del Novecento di Anceschi e Antonielli, li ho scoperti a Como sui quindici anni. Non a Lugano: noi, gente di frontiera, non amavamo questa città piena di sé che, così pensavamo, non aveva librerie. Ho scoperto i libri da solo, senza aiuto. O meglio, no, c'è stato un professore alla scuola magistrale, Giovanni Bonalumi, che ci faceva leggere gli autori contemporanei: Calvino, Fenoglio…

Come ha iniziato a scrivere?

Ho cominciato a capire che potevo scrivere quando un amico mi ha regalato un'agenda dalla copertina nera, dove i nomi dei giorni e dei mesi erano scritti in tedesco. Ho iniziato ad annotare alcune cose. A posteriori, mi sono detto che questo fatto non era privo d'importanza, perché la letteratura richiede distanza, e il tedesco me la dava in modo simbolico. Annotavo quello che vedevo dalla finestra della mia casa di Chiasso: un uomo che passa con un sacco da muratore, cose così. Mi interrogavo sulla sua vita. Ho sempre avuto questa curiosità per le persone. C'era anche una mia vicina di cui ero innamorato, una bionda, il massimo di quel che si può sognare, irraggiungibile. Non osavo parlarle né guardarla negli occhi. Un giorno, lei ha bussato alla mia porta, io suonavo un vecchio trombone: mi sono nascosto nell'armadio dalla vergogna… ma scrivevo su di lei.

È il jazz con gli amici, il trombone?

Ho scoperto la musica con il jazz, con Armstrong, nei juke boxes di Chiasso: un rimedio alla sdolcinata canzone popolare italiana. Ho molto amato Charlie Parker, e poi Brassens. Queste voci mi hanno fatto entrare nella musica.

Brassens rientra nella sua vena sociale, no?

«La vie c'est toujours amour et misère…». D'accordo, mi si vuole assegnare questa etichetta di poeta sociale, ma a me non piace molto essere ingabbiato. Io sono uno che guarda la vita così com'è: la vita deposita le sue tracce nelle persone. Sono profondamente convinto di essere come l'uomo che passa per strada: chi scrive non è per niente superiore ad un altro. Credo nella fratellanza, è il mio impegno politico. Considero la letteratura come una stretta di mano.

Il lavoro occupa uno spazio importante nei suoi scritti.

Mia madre era sigaraia e suo padre analfabeta. L'ho conosciuto, ha fatto parte della mia mitologia familiare. Aveva perso un occhio bacchiando le castagne. Non sapeva né leggere né scrivere… Mia zia ne approfittava per cambiargli la scheda di voto in tasca! Votava liberale, per ignoranza, e lei gli infilava la scheda socialista. Così ho preso coscienza della questione sociale! (ride) No, scherzo, ma credo che ho voluto scrivere sulle persone semplici per lui. Non posso dimenticarlo. Non si può mica spiegare tutto con la testa, no? Ci sono delle cose che passano nel sangue… La storia delle sigaraie l'ho imparata da mia madre. Lei e le sue amiche, quando le interrogavo, mi dicevano delle cose quotidiane (adesso sono quasi tutte morte). Poi mi sono documentato, ho frugato negli archivi. Ma per scrivere mi serviva il ritmo della frase parlata. Volevo conservare quelle parole.

I riferimenti al cinema sono frequenti. I film hanno svolto un ruolo importante per lei?

Da adolescente sì, è l'età in cui tutto si forma Mi è piaciuto Marlon Brando in Fronte del porto e James Dean in La valle dell'Eden . In realtà per scrivere ho bisogno di ascoltare e di vedere. Mi servono cose concrete: quello che vedo in strada, che sento in un bar. E poi i libri, evidentemente. La letteratura non si fa solo spigolando per strada. Ma io ho bisogno di sentire la voce dello scrittore: mi deve parlare come un amico. Non come un declamatore, un ricamatore di parole, un formalista. Questi posso ammirarli, ma non li amo. Preferisco gli scrittori e i poeti di provincia, un po' dimenticati, come René-Guy Cadou, Silvio D'Arzo. Oppure Edgar Lee Masters, che mi racconta delle storie. Una voce per me deve avere, direttamente o indirettamente, una radice nella realtà, e deve darmi un'emozione.

Scrivere poi pubblicare: com'è avvenuto per lei?

Contrariamente a quanto si crede, ho esordito con una storia d'amore infelice in stile neorealista, fra Pavese e Cassola. Un testo che poi è stato trasmesso alla radio, nel 1962. Ho anche vinto un premio di 500 franchi che mi ha permesso di fare una crociera sul Danubio, fino in Russia! Ho dunque cominciato con la prosa. Ma la poesia m'intimidiva di meno. Ho pubblicato due raccolte di poesia: I giorni feriali e Ai margini , che sono anche state riprese in un'unica raccolta. La mia poesia portava qualcosa di nuovo, un tono meno formale forse, più quotidiano. Il colore della malva ha avuto tre edizioni. Più tardi, sulla quarantina, mi sono arrischiato coi racconti. Sono rimasto un giovane autore fin verso i cinquant'anni!

La sua poesia è stata definita «epica e lirica»: è una buona definizione?

Chiaro e scuro, direi. Mi piace mettermi nella pelle degli altri, anche se questo è un artificio: dire «io» al loro posto. Mettermi nella pelle del muratore che passa. Abbiamo una vita monotona: essere qualcun altro è interessante. Per esempio, nel racconto La Lirica mi identifico con la cantante mancata. Mi sarebbe piaciuto molto essere un attore, cambiare ruoli. Adesso ho scritto su una personalità affascinante, un ticinese diventato libraio e rivoluzionario a Lisbona. Per una volta ho detto «io» al suo posto. E io stesso mi sono messo in questione.

In una poesia lei si definisce come un ladro di dettagli.

Dio risiede nei dettagli, no? (Ride) Diffido dei termini astratti, io ho sempre bisogno di cose concrete: gli odori, i colori. La poesia consiste anche nel far coincidere elementi apparentemente distanti. Questa mattina, andando a fare una lettura a degli allievi, mi domandavo come spiegarglielo e mi sono detto: la poesia è un terzo occhio che ci fa vedere delle cose che non esistono, apparentemente. Tutti ce l'hanno, ma bisogna scoprirlo, coltivarlo, esercitarlo.

Lei vede un responsabilità nella scrittura?

Pubblicare, mettere il proprio nome in calce a un testo è una responsabilità, certo. Bisogna avere qualche cosa da dire. Si vedono molte pubblicazioni raffinate, ma che non dicono niente. Bisogna almeno fare compagnia alla gente. Siamo soli, c'è l'amore, è vero… ma in fondo siamo soli. L'arte, la letteratura possono tenere compagnia oltre che far conoscere il mondo. Non è una questione di messaggio. Se voglio parlare di politica scrivo un articolo di giornale, se voglio fare poesia devo portare uno sguardo nuovo. La qualità sta nel linguaggio. La poesia è sempre sovversiva, anche se parla di un ciottolo. Il tema può essere banale, ma le parole devono offrire uno sguardo nuovo sulla realtà. Prenda Francis Ponge. La poesia è semplice e rivoluzionaria.

Guardia o contrabbandiere?

Ah, sì, ci ho giocato in Tutti discendono . Io sono un uomo di frontiera, quindi sono dalla parte dei contrabbandieri. L'arte è un contrabbando di messaggi clandestini. Ma la legge ci vuole obbedienti e saggi. Io sono sempre stato dalla parte degli irregolari, anche se sono una persona tranquilla che vive in una bella casa.

Uno dei suoi libri s'intitola «Rabbia di vento».

Rabbia e vento. Chiaro e scuro. Amo i contrasti, le ambiguità. Il «colore della malva» è al tempo stesso quello del fiore e quello del volto del malato; «Tutti discendono» è la stazione capolinea di Chiasso, è la voce degli antenati da cui discendiamo e insieme la fine che incombe. Rabbia di vento mi è stato suggerito da un vecchio scalpellino. Andavo a trovarlo nel suo antro per farmi raccontare la sua vita, bevevamo in cucina fino a ubriacarci. Una volta, quando siamo usciti volavano i fiocchi di neve: “rabia de vent”, mi ha detto (in dialetto naturalmente). Ho detto “grazie”! Mi aveva dato un'immagine. Anche il «colore della malva» mi è stato regalato. Collaboro con la gente che amo. Amo giocare con le parole degli altri per arricchirle, per farne letteratura.

Quali sono i suoi rapporti con il dialetto?

È la mia lingua materna, ho con lei un rapporto viscerale. Lo parlavo con mia madre, lo parlo con i miei amici. In casa no, perché mia moglie è italiana. È un patrimonio che conservo. Mi ha regalato le prime impressioni. Ha volte, penso ancora in dialetto. E mi piace mettere un termine dialettale in un testo, come una macchia di colore, oppure una movenza sintattica: questo mi permette di sfumare il discorso. Amo certi poeti dialettali, anch'io ho provato a scrivere così, ma non trovo la voce. Preferisco far fronte alla Storia in italiano: l'italiano è una conquista, una responsabilità. Il dialetto è la lingua degli affetti, della famiglia, una lingua che scompare assieme agli oggetti che designa. Non serve a niente farla rivivere artificialmente. Io cerco di esprimermi in italiano conservando questa sensibilità. Ma il dialetto rappresenta anche un pericolo, quello di rinchiudersi nel provincialismo, nella meschinità. È l'ideologia della Lega, vicina a quella dell'UDC. Voglio essere un ticinese, certo, ma libero dalla retorica della “ticinesità”.

Vivere in una zona di frontiera, essere una minoranza in un «paese dimenticato», che cosa significa?

Ci si considera spesso con paternalismo. Io che sono cresciuto sul confine ho sempre vissuto questa situazione come naturale. Parlavamo dialetto, la lingua italiana è stata una conquista. A parte questo, dopo la caduta del fascismo, andavamo di là a visitare dei parenti, era normale. Adesso noi scrittori sentiamo la responsabilità dell'italiano in Svizzera. Siamo un po' sotto pressione, sovvenzionati, isolati… Siamo fieri di essere una minoranza, e anche di appartenere a un paese dove il gioco democratico è possibile. Quando oggi guardiamo il paesaggio politico italiano siamo spaventati… In Svizzera possiamo tentare di far cambiare le cose. Non amo le bandiere ma apprezzo il buon senso, la pluralità delle lingue, il federalismo. Sono svizzero per caso e ne approfitto. Oggi con un po' di vergogna: grazie al successo dell'UDC siamo diventati il «cuore nero dell'Europa».

Lei stesso si è impegnato in politica. La si vedeva su un manifesto come candidato del Partito socialista, nell'autunno del 2007. Tuttavia, se si guardano i titoli dei suoi libri, bisogna dire che rispondono piuttosto a una poetica del margine: « Rasoterra»,«Ai margini»…

Per le elezioni ho risposto a una richiesta, ma la politica attiva non fa per me. In fondo, sono contento di non essere stato eletto! Ma uno scrittore è anche un uomo comune, non amo le anime candide che se ne stanno in disparte. Così ho accettato, per una responsabilità morale, in modo simbolico, per solidarietà. Attualmente, in Svizzera viviamo in un periodo difficile, perché bisogna contrastare l'estrema destra. Il mio cuore è a sinistra. In me c'è questo contrasto: sono solitario e solidale. Sento che è necessario cambiare questo mondo che esclude tanta gente. Non bisogna prendere le distanze dalla sofferenza degli altri. Ma, ancora una volta, amo il chiaroscuro, che dà più vitalità del tutto nero o del tutto bianco. Il linguaggio può dare espressività ai colori scuri. Anche nella malinconia c'è dell'energia.

Lei scrive per fermare il tempo che passa?

Sì, un tentativo disperato di salvare qualche immagine, di lottare contro la morte. Negli anni Settanta ho cominciato una poesia per una ragazza che mi aveva portato dei fiori. Poi, ho abbandonato questo testo. Trent'anni dopo quella persona è morta, e ho ripreso la poesia, ne ho salvato un verso. È il lavoro sotterraneo della poesia, della memoria. Oggi è pubblicata in Blu cobalto con cenere , col titolo In memoria di Elena : il ricordo di una storia d'amore che non c'è stata.

La vegetazione, la natura sono spesso presenti nei suoi scritti.

I fiori sono la vita, no? Non pratico più la religione dalla giovinezza, ma per me la natura ha qualche cosa di sacro. C'è sempre questa presenza del mondo vegetale nei miei testi.

Lei è un camminatore, l'ha espresso in « Marcher dans ma vallée».

Sono un camminatore, come Gustave Roud. Il ritmo della camminata fa nascere delle immagini, accende quest'occhio interiore, mi fa persino scoprire quello che non esiste. Camminare accresce la vitalità, è come leggere un buon libro, come respirare. Mi rende felice.

Traduzione dal francese di Yari Moro