Robert Pinget e Gerda Scheffel
di Jean Kaempfer
Tradurre Pinget in tedesco
La traduzione di Pinget è al centro di queste riflessioni. In altri termini, la questione della «fortuna» dell'opera, nel momento in cui cambia lingua, solleva un altro interrogativo, più ampio: che ne è della letteratura quando viene ricevuta in retaggio dai lettori? Quali speranze (magari irragionevoli) alimenta in essi, perché vogliano farsene eredi? Per Pinget non si tratta di domande qualsiasi. Rappresentano piuttosto l'inquietudine centrale dell'opera, a immagine di quella lettera – difficile da scrivere, e ancora più difficile da spedire – la cui ossessione si rinnova di testo in testo. Come sfuggire alla fatalità de «la lettera perduta»? Di quella lettera, «sempre la stessa», indirizzata «a qualcuno che non voleva leggerla» e che la posta forse ha mancato di consegnare: «alla fine avrebbe raggiunto tutte le altre lettere mai lette in un posto che nessuno conosce, un buco, forse un cimitero, dove vengono chiamate lettere morte. 1 Questa finzione postale la dice lunga sullo statuto della letteratura nella modernità; l'opera d'arte non è più necessaria, come credevano i romantici; il «non finito» la perseguita, ed è lì che essa deve riconoscere un nuovo destino. Con la conseguenza, giustamente osservata da Jean Roudaut 2: «L'ammissione che il libro è il prodotto di un lavoro incerto, e anche esitante, produce un'indecisione fondamentale: tutto quello che viene detto potrebbe esserlo altrimenti. Il che equivale a non avere mai detto niente.» In questa situazione, non si può affatto continuare a professare che la «letteratura [è] il non plus ultra delle attività spirituali, l'avventura per eccellenza, fuori dalla portata del volgo e tanto più elevata quanto più è complessa, tenebrosa» 3. Resta da sapere che ne è ormai di quella piacevole illusione, di quel glorioso residuo, la religione della letteratura, di cui Proust aveva così superbamente sancito il credo ? (Rammentiamocene: «la vera vita, la vita infine scoperta e illuminata, di conseguenza la sola realmente vissuta, è la letteratura».) Il fatto è che questa fede vincola ancora gli scrittori, agitando le loro notti, anche se non sono più in molti, all'infuori di loro, a interessarsi a queste devozioni d'altri tempi… Questo disinteresse li rende inquieti. Pure, è nell'inquietudine che si riconosce la vocazione dello scrittore post-romantico, stando al motto (proposto da Roland Barthes): «Ogni scrittore dirà quindi: folle non posso, sano non degno, nevrotico sono. » 4 La devozione smisurata è fuori tempo; e di rinunciare non se ne parla; quindi a ciascuno – scrittore, artista – spetta di trovare la «giusta» nevrosi! Nell'opera di Robert Pinget, a partire da L'Apocryphe [ L'apocrifo , 1980], prenderà la forma di un'ostinata inchiesta sulle condizioni materiali e filologiche d'esistenza della letteratura. Intervengono nuove figure – scribi, copisti, segretari, compilatori, editori – il cui lavoro ritarda l'epifania sperata del «bel libro» (del «libro speciale» 5): l'orizzonte del «bel libro» si allontana e si confonde sempre di più nell'agitazione di contraddittorie passioni ermeneutiche. Ai lettori che credono di intuire «una coerenza, […] un canto di speranza» 6 nel manoscritto lacunoso e alterato che scrutano empaticamente, altri oppongono una decisa miscredenza; per questi ultimi, le cose sono semplici, dato che il «guazzabuglio di contraddizioni» che hanno sotto gli occhi si riassume in «un puro gioco da maniaco». Come stupirsi dunque che alla fine de L'Apocryphe non si sia risolto niente? «Ricominciare tutto da zero. […] Il libro da fare» 7: ecco le raccomandazioni con cui si conclude il romanzo. Prima di Théo (1989), dove l'infaticabile ascolto di un bambino renderà tale inquietudine senza scopo – dato che il «bel libro» nasce giustamente da quell'accoglienza ingenua e affettuosa – , L'Ennemi [ Il nemico 1987], secondo momento di quella che potremmo chiamare la trilogia ermeneutica di Pinget, fa invece l'inventario di tutto ciò che, in materia di letteratura, legittima il dubbio agnostico. L'Ennemi è un romanzo notevolmente mediologico : come l'imbecille che, nel dito puntato verso la luna, vede solo il dito, ecco in effetti un'opera che con ammirevole determinazione frena i nostri slanci aerei verso un senso più elevato. Catasto falsificato da «raschiatura, scolorina, gommatura, eccetera» 8, strade intasate, guida turistica obsoleta (e la cui «riedizione addotta da alcuni potrebbe essere solo una simulazione»), conservatore alcolista di museo, antiquari e rigattieri affaristi (quando non ladri), abbondanza eteroclita di «carte», «quaderni», «documenti», «note», «lettere», «manoscritti» e altri «rapporti»: non soltanto l'evocazione delle vie, supporti e mestieri della trasmissione abbonda ne L'Ennemi ma il romanzo colloca l'insieme di questa costellazione patrimoniale sotto una luce sistematicamente sfavorevole. Non funziona niente; regnano l'incuria, la cattiva volontà; i testi si contraddicono. Una paralisi generalizzata – materiale e psicologica – sembra impedire qui la «sublimazione auspicata del testo anedottico» 9. A parte tre eccezioni, anch'esse mediologiche, per il fatto che riguardano l'aspetto esteriore del libro: tre pagine 10 lasciate appositamente in bianco, dove la lettura si raccoglie in una verginità sfolgorante. Si tratta del Nulla? Di una qualche Parusia? Sta a noi decidere, a nostro piacimento, dato che il testo non risponde più…
Nel 1998, le ginevrine edizioni Zoé hanno pubblicato L'écrivain et son traducteur en Suisse et en Europe [ Lo scrittore e il suo traduttore in Svizzera e in Europa ]. Fra i numerosi contributi – interviste, corrispondenze, saggi, incursioni concrete nell'«atelier» della traduzione – riunite in quell'occasione da Marion Graf, il volume raccoglie alcune proposte avanzate da Gerda Scheffel, la traduttrice di Robert Pinget in tedesco. Le riassumo qui in sintesi, prima di riprendere il discorso, a distanza di quasi dieci anni.
Innanzitutto va notato che l'interesse di Gerda Scheffel per Robert Pinget è di vecchia data: le sue prime traduzioni di questo autore – in collaborazione attiva con il marito – risalgono in effetti all'inizio degli anni Sessanta. Ma «interesse» è un termine troppo tenue per spiegare la scelta di fare conoscere in Germania un autore allora conosciuto in una cerchia ristretta e soprattutto molto sconcertante: «Eravamo appassionati di letteratura» spiega Gerda Scheffel, «e volevamo lavorare liberamente in un bel posto. Non ci preoccupavamo affatto della realtà». Per restituire con «padronanza» le audacie e la radicalità del progetto letterario di Pinget, non bisognava mancare di entusiasmo, in effetti… E bisognava accettare anche una certa precarietà materiale.
Un altro tratto sorprendente, nella carriera di traduttrice di Gerda Scheffel, è il suo attaccamento significativo a due autori in particolare: Pinget, evidentemente, … ma anche Marivaux. È senz'altro necessario praticare quella forma estrema di lettura che è la traduzione per essere sensibili alle similitudini sotterranee di questi due scrittori che a prima vista appaiono lontanissimi. Pure, l'uno e l'altro, osserva la loro traduttrice, scrivono «a orecchio»; sono musicisti del linguaggio – dato che la musicalità va a colmare «l'insufficienza di ciò che non può essere espresso». Ecco alcuni argomenti di discussione che meritano d'essere ripresi, ampliati: qui di seguito verranno sollevate anche altre domande, con i ricordi e le riflessioni che hanno suscitato in Gerda Scheffel. 11
Traduzione di Monica Pavani
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1 Robert Pinget, Théo ou le temps neuf , Minuit, 1991, p. 50.
2 Jean Roudaut, Robert Pinget. Le Vieil Homme et l'enfant , Genève, Zoé, 2001, p. 28.
3 Robert Pinget, L'Apocryphe , Minuit, 1980, p. 57.
4 Roland Barthes, Il piacere del testo , trad. di Lidia Lonzi, Giulio Einaudi Editore, 1975.
5 Queste due espressioni compaiono con una certa ricorrenza ne L'Apocryphe. (Vedi p. 51, 55, 81, 107)
6 Ibid. p. 40. Citazioni seguenti, di nuovo p. 40, poi p. 20.
7 Ibid ., p. 177-178.
8 Robert Pinget, L'Ennemi , Minuit, 1987, p. 45 (citazione seguente, p. 106).
9 Ibid. , p. 193.
10 Le pagine 118, 187 e 195.
11 L'intervista che segue è la trascrizione, a partire delle note, di una conversazione telefonica con la signora Scheffel, a cui avevo precedentemente sottoposto alcune domande per iscritto.
Intervista
- I contatti che avete stabilito a Parigi alla fine degli anni Cinquanta vi hanno fatto scoprire l'avventura del Nouveau Roman nel suo periodo di maggior fermento. Allora cosa rappresentava per voi questo movimento letterario?
- È stato un po' per caso che siamo diventati traduttori, mio marito di Butor, e io di Pinget. Allora ci trovavamo a Parigi, dove mio marito lavorava a un dottorato, quando si presentò l'occasione di fare un'intervista a Jean Duvignaud. Grazie a lui incontrammo degli intellettuali vicini alla rivista “Arguments”: Edgar Morin, Roland Barthes, eccetera. Un giorno, eravamo nella redazione della rivista, si presentò un giovanotto premuroso ed estremamente gentile: era Michel Butor. Ecco come diventammo traduttori… Mio marito intraprese la traduzione di La Modification [ La modificazione ], poi di Dégré zéro de l'écriture [ Il grado zero della scrittura ] di Roland Barthes. Più tardi ci furono lettori di quest'ultima traduzione che si stupirono dei neologismi un po' strani che vi comparivano; ma il lessico della linguistica e della teoria letteraria non erano ancora affermati: per la traduzione bisognava dunque affidarsi all'intuizione, e avere una gran faccia tosta! Da quando abbiamo cominciato a dedicarci alla traduzione, abbiamo sempre lavorato in due: io rileggevo quello che traduceva mio marito; e viceversa.
- L'etichetta Nouveau Roman raggruppava diversi autori. Quasi subito lei si è orientata su Robert Pinget. Da cosa è stata dettata questa scelta?
- Innanzitutto vorrei sottolineare il carattere artificiale dell'etichetta di «Nouveaux Romanciers». Fin dall'inizio si è trattato di una strategia di marketing. La maggior parte di quegli scrittori si conoscevano appena; e, a parte Robbe-Grillet, che nel mondo editoriale parigino era nel suo elemento e ci teneva all'esistenza del Nouveau Roman, erano parecchio individualisti e non si percepivano come appartenenti a una scuola. Per quanto mi riguarda, questi scrittori li ho conosciuti sempre ognuno separatamente. Negli anni ho incontrato persone singolari e indipendenti le une dalle altre… che si interessavano ai loro «colleghi» solo per cortesia.
Quanto a Robert Pinget, mi ricordo benissimo il mio primo incontro con lui; è stato nel 1961, ai Deux-Magots. Avevo letto i suoi testi, che mi avevano profondamente colpito. Fin dall'inizio abbiamo stabilito un contatto proficuo e Pinget ha accettato di buon grado che io diventassi la sua traduttrice.
- Grazie a lei, il pubblico tedesco ha avuto l'opportunità di conoscere Pinget. A parte la sua passione personale per l'opera di questo scrittore, in che misura ritiene che potesse incontrare i gusti del pubblico tedesco? Pensa che abbia introdotto qualcosa di radicalmente nuovo, o, al contrario, l'opera di Pinget poteva contare su una sensibilità letteraria già pronta ad accoglierla?
- Il primo pubblico tedesco di Pinget è stato in primo luogo la sua editrice: Hilde Claassen – la fondatrice della Claassen-Verlag – una donna straordinaria, aperta alla novità e curiosa di tutto. Era animata da una specie di ingenuità, che le permetteva di trascurare i dettami strettamente commerciali e di sfuggire all'unica preoccupazione del rendimento. Accettò con entusiasmo di pubblicare Pinget. La modificazione e L'Emploi du temps [ L'orario ], di Butor, erano già stati tradotti da mio marito. E dai primi anni Cinquanta il pubblico tedesco conosceva le opere di Beckett, grazie alle traduzioni di Elmar Tophoven. Quindi le mie traduzioni di Pinget rientravano in un interesse editoriale più generale per la letteratura francese che stava nascendo. I testi di Robert Pinget non hanno mai avuto grandi tirature ma si sono guadagnati un loro pubblico, un vera comunità di patiti che andavano in visibilio ogni volta che usciva una nuova traduzione; fra di loro, in particolare c'era molta gente di teatro, che aveva allestito qualche sua opera. In sintesi, l'accoglienza tedesca di Pinget è relativamente ristretta; ai suoi fedeli lettori vanno regolarmente ad aggiungersene di nuovi, che si appassionano a loro volta.
- Presto ricorrerà il decimo anniversario della morte di Pinget. In Francia, mi sembra che la sua opera attraversi una specie di purgatorio, sia nelle università che presso il pubblico. In Germania accade lo stesso? Intende tradurre altri testi di Pinget? Gli editori glieli chiedono?
- Tradurre altri testi di Pinget? Bisognerebbe che vi si dedicassero traduttori più giovani di me… Ma d'altronde, è venuto meno l'interesse; oggi – e non è un caso se Internet è così diffuso – le persone si accontentano di un'informazione superficiale: navigano. Sarà senz'altro piacevole, ma la conseguenza è che in questo modo ci si taglia fuori dal vero lavoro di comunicazione, che implica profondità. Nella nostra epoca vige una degradazione culturale liberamente consentita, in cui gli autori esigenti, come Pinget, stentano ad essere riconosciuti. La prospettiva di lanciarsi nella traduzione di altri suoi testi, per un centinaio di lettori, devo ammetterlo, è deprimente. E va anche tenuto conto del contesto economico del commercio librario, nettamente sfavorevole agli autori poco conosciuti. A questo proposito, cito un episodio esemplare: di fronte alla constatazione che le vendite delle mie traduzioni di Marivaux languivano, ho suggerito all'editore di fare un po' di pubblicità per questo autore. Al che lui, con una logica impeccabile, mi ha risposto che le scarse cifre di vendita erano la prova eloquente che l'autore non era conosciuto, e che di conseguenza la sua casa editrice non poteva permettersi di fargli pubblicità… Creare molto rumore per nulla: ecco il principio del marketing odierno. Tutt'al più si può sperare di accendere qualche piccola fiammella, laddove se ne presenta l'occasione.
Ecco alcune altre domande, che vertono su problemi concreti di traduzione. Mi è parso utile farli precedere da un estratto di «Wörter, um den Schatten zu vertreiben» («Parole, per dissipare l'ombra»), la prefazione che Gerda Scheffel ha proposto per Nacht (la sua traduzione di Nuit , un radiodramma di Pinget):
« Jean Dubuffet coglie abbastanza esattamente la meccanica, difficilmente spiegabile, dei testi di Pinget, e scrive: “Questi testi si nutrono di due correnti che vanno in direzioni opposte. La prima è direttamente connessa alla vita quotidiana in tutta la sua immediatezza. Oh, no, non la vita romantica! La vita più semplice, più insignificante. […]. Per darne atto, Pinget è riuscito a creare una lingua inedita, concisa, nella quale ogni parola centra il bersaglio. E applaudiamo ad ogni riga. L'altra corrente è abitata da un soffio mortale, quello del nichilismo, della negazione. Una negazione spinta pericolosamente lontano, perché va a toccare l'identità – l'identità dei luoghi e delle persone. Va a toccare addirittura l'esistenza, la nozione dell'esistere” […] Le due opposte correnti di cui parla Dubuffet sono realizzate grazie a un linguaggio nel quale la musicalità si trasforma in parola. Il modo migliore per descriverlo non sono le nozioni di linguistica, quanto piuttosto le definizioni musicali, come il tema e la variazione, la polifonia, il ritornello. Grande ammiratore della musica barocca – Bach è il suo compositore preferito ed è certamente in suo onore che ha intitolato uno dei suoi romanzi Passacaglia – Pinget ha composto i suoi testi come dei pezzi musicali. Un cantus firmus o un ritornello fanno capolino nel corso di un libro, evocando immagini o ambienti d'una qualità poetica che la descrizione non potrebbe raggiungere […] Pur avendo cominciato la sua carriera artistica come pittore – era dunque l'occhio a registrare le cose -, Pinget scrive con l'orecchio e la cosa più importante nella sua concezione della scrittura è la giustezza del tono: “Scrivo per l'orecchio, con l'orecchio. Ascolto quel che scrivo. La voce ha per me un'importanza primordiale”, spiegava a un giornalista che, inserendolo nella corrente del “Nouveau Roman” voleva apporgli l'etichetta di “École du regard ”».
- Lei ha conosciuto bene Pinget – ma (ovviamente) non Marivaux o Beaumarchais: fa qualche differenza per lei? Il fatto di poter stabilire un contatto con l'autore (e traduttore di Beckett) l'ha aiutata nel suo lavoro di traduttrice, o queste due realtà – l'uomo e l'opera – a suo parere è meglio che restino distinte?
- I miei incontri con Pinget non hanno avuto una diretta incidenza sulla mia attività di traduzione. In effetti, quando ci trovavamo, raramente affrontavamo i problemi concreti, tecnici, posti dalla traduzione della sua opera. Ma c'era un'influenza indiretta: parlando con Pinget e ascoltandolo, era la voce di Pinget, il suo tono – quelle cose così importanti nella sua concezione della scrittura – che provavo per così dire in diretta; e il ricordo di quelle conversazioni a volte mi ha permesso di rendere più fedelmente la singolare inflessione della sua voce. Quanto a Marivaux, è chiaro che non l'ho incontrato. Anche se… Molti testi di Marivaux sono in prima persona. E pur essendo dei personaggi completamente diversi, ad ascoltare con attenzione si può riconoscere la voce dell'autore. Per me, è importante calarmi completamente nell'atmosfera mentale di un autore, prima di tradurlo; cogliere ciò che è essenziale per lui. Per tradurre Pinget, mi sono molto affidata all'intuizione, all'emozione. In effetti tale è il rapporto che intrattengo con i suoi testi. Per tradurre autori come Michel Butor per esempio, non sarebbe affatto il più indicato! Butor sollecita prima di tutto l'intelletto; con lui bisogna armarsi di cultura e di dizionari. Con Pinget, il fascino, la comprensione intuitiva del tono, l'ascolto dell'inconscio che affiora nella lingua, mi sono parsi guide migliori. Se mi mancava una parola, peggio per me! Non poteva venirmi di getto, occorreva cercarla. Inizialmente era più importante non perdere il tono, accompagnare, nella mia lingua, il movimento a un tempo psichico e linguistico che sentivo.
- La traduzione di Pinget, è la restituzione di un tono, ma anche di diverse voci – di diversi idioletti, direbbero i linguisti -, con quei provincialismi, quelle immagini piccanti la cui singolarità potrebbe essere riassunta dal lettore francofono affermando: è intraducibile!
- Ha ragione, tradurre è un'attività masochistica! Spesso bisogna accontentarsi del male minore, accettare compromessi frustranti. Lo stesso avviene per esempio con i nomi propri, così numerosi ed evocativi, in Pinget: ho deciso di non tradurli, con il rischio, per il lettore tedesco, di amputarli delle connotazioni essenziali. Ma la decisione inversa, che consisteva nel tradurli, sarebbe stata molto peggio perché sarebbe sembrata del tutto falsa e costruita. Un altro problema ricorrente, quando si traduce Pinget: le parole o le formule che si ripetono, di tanto in tanto. Bisogna stare terribilmente attenti, evitare con cura i sinonimi, rileggersi con attenzione. Il computer, che all'epoca non esisteva, in questo senso mi sarebbe stato d'aiuto! In sintesi, Pinget, tradotto, perde parecchio: per sottrarsi alla frustrazione, sarebbe forse preferibile non confrontare i due testi! Quanto a Marivaux, direi che è l'opposto: la traduzione – anche se ho cercato in tutti i modi di evitare gli anacronismi lessicali – mi sembra gli ridia freschezza, avvicinandolo al lettore d'oggi.
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