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Philippe Jaccottet reçoit le Grand Prix Schiller

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Le 13 mai 2010, Philippe Jaccottet recevra le Grand Prix Schiller à Soleure, la plus prestigieuse distinction littéraire de Suisse. A cette occasion, nous mettons à disposition de nos lecteurs un article et un entretien avec Philippe Jaccottet, que signait Pierre Lepori dans notre revue Viceversa Littérature 2/2008. Nous proposons ces contenus en allemand, en italien et en français.

 

  Philippe Jaccottet «Non più canto, non ancora mutismo perentorio», di Pierre Lepori


Philippe Jaccottet
«Non più canto, non ancora mutismo perentorio»

Il Novecento poetico si apre con una frase dimessa, quasi banale: « Ai poeti resta da fare la poesia onesta » , la scrive nel 1911 Umberto Saba, in un articolo (rifiutato) per la rivista letteraria « La Voce » . Exit l'ideale d'un poeta romantico, turbolento o ieratico, ma anche la tentazione di una forma che prenda il sopravvento (avanguardie storiche) o di un'eccessiva dissipazione immaginativa (simbolismo, surrealismo), inizia il tempo di un'umile ricerca d'una « parole loyale, qui habite le sens, comme la voix juste habite la mélodie » [ « Una parola leale, una parola che ha sede nel senso, così come la voce esatta dimora nella melodia » , p. 171], per riprendere le parole di Starobinski a proposito di Philippe Jaccottet. Una parola che tuttavia non teme l'arsura del lutto e del dolore, personale e collettivo, soprattutto dopo l'attraversamento della tragedia della guerra .

L'opera di Jaccottet s'apre dunque, nel 1945-47, con Trois poèmes aux Démons [ Tre poesie per il Dèmone ] (poi rinnegati) e un Requiem per le vittime di guerra, « pour envelopper les morts comme d'une tendresse amoureuse » [ « per avvolgere i morti come d'una tristezza amorevole » ] ( Remarques [ Osserrvazioni ] della riedizione del 1990). Sono i primi tentativi di una scrittura responsabile, dalla forte ambizione etica, che pur seguendo il sentiero tracciato da Rilke e Hölderlin sentirà presto il disagio di una poesia oracolare, prometeica. Già nella seconda raccolta presso l'editore parigino Gallimard (dopo l'esordio con L'Effraie (Il Barbagianni) , 1953), Jaccottet si chiede infatti « Ne faut-il pas plutôt / laisser monter aux murs le silencieux lierre / de peur qu'un mot de trop ne sépare nos bouches / et que le monde merveilleux ne tombe en ruine? » [ « Non è meglio lasciare che sui muri / salga in silenzio l'edera, temendo / che una parola in più possa dividere / le nostre bocche, e che il bel mondo crolli? » ] ( L'ignorante, p.93).

Come il coetaneo Yves Bonnefoy, Jaccottet teme che il linguaggio tradisca l'offrirsi del reale alla coscienza del poeta: stabilitosi definitivamente – dopo un fruttuoso soggiorno parigino – nella campagna provenzale, egli s'impone di lasciar affiorare il senso, nell'arte della promenade , senza inficiarne il barbaglio con un'arte troppo consumata e solenne: « Car ces choses, ce paysage, ne se costument jamais; les images ne doivent pas se substituer aux choses, mais montrer comment elle s'ouvrent, et comment nous entrons dedans » [ « Perché queste cose, e il paesaggio, non si travestono mai; le immagini non devono sostituirsi alle cose, ma mostrare come esse si aprono, e come noi vi penetriamo » ] ( Paesaggi con figure assenti , p. 22). Grazie all'incontro con la poesia giapponese, come è stato notato da numerosi commentatori, Jaccottet parte perciò alla ricerca di una trasparenza nuova, perfettamente espressa nella purezza dei versi di Airs (Arie) , la raccolta del 1965, la cui natura aerea e luminosa non smetterà di innervare (ma molto spesso in controluce) l'opera successiva: « Je marche / dans un jardin de braises fraîches / sous leur abri de feuilles // un charbon ardent sur la bouche » [ « Cammino / dentro un giardino di viva brace / protetto dal loro fogliame // sopra la bocca un carbone ardente » , p. 49].

Due contrappesi impediranno a Jaccottet lo slittamento in una scrittura unicamente descrittiva o evocativa: l'incontro reiterato, autobiografico, con la morte – osservata da un occhio costantemente laico, alla maniera di Stig Dagermann – e un'insaziabile tensione metapoetica, che spinge lo scrittore ad interrogarsi in re sulla natura stessa della poesia: attraverso l'attività critica (oggi raccolta in particolare nel volume Une transaction secrète [Una segreta transazione] , 1987) o diaristica (riflessioni e note, consegnate nei vari volumi della Semaison [Semina] , 1984, 1996). Ma anche e soprattutto attraverso una poesia pensante.

Jaccottet s'iscrive dunque volontariamente in una linea poetica di alto lignaggio (quella tracciata da Martin Heidegger nel celebre Wozu Dichter? [ Perché i poeti? ] degli Holzwege [Sentieri interrotti] ) che non ha paura di accomunarsi ai grandi maestri, anche grazie alla pratica costante e vigorosa della traduzione. Sebbene il poeta abbia a più riprese relativizzato il ruolo della traduzione (alimentare, perché praticata come vero e proprio mestiere) nella sua opera, è innegabile che i grandi numi della poesia mondiale (Hölderlin e Leopardi, Rilke e Ungaretti) lo hanno influenzato e mantenuto nel solco di una poesia cocciutamente alta - come ha ben dimostrato, tra gli altri, Mathilde Vischer - , mentre alcune delle sue versioni più importanti (si pensi all' Uomo senza qualità di Musil e all' Odissea omerica) vengono lette oggi come veri e propri classici, che hanno guadagnato una loro autonomia grazie all'impegno totalizzante del poeta-traduttore.

Ma questi grandi esempi pongono a Jaccottet, in quanto scrittore, un problema di tono, di tonalità espressiva, giacché – figlio di un calvinismo mai rinnegato che erige la modestia a virtù cardinale – il poeta tenterà sempre di contenere il rischio di una verticalità esibita del geyser poetico (usiamo a bella posta un termine di Pierre Emmanuel). Tra momenti di rêverie (una parola enunciata chiaramente in Beauregard , 1981), dubbi e tâtonnements ; e volontà enunciativa nonostante tutto: « Ah pense-le, quoi qu'il en soit, dis-le, / dis que cela peut être vu » [ « Ah, pensalo, sia quel che sia, dillo / di' che anche questo può essere visto » ] ( Alla luce d'inverno , 1977, p. 149). Alla ricerca di « un ton, un rythme, un accent, une façon de maintenir le discours à mi-hauteur, entre la conversation et l'éloquence » [ « un tono, un ritmo, un accento, una maniera di mantenere il discorso a mezz'altezza, tra la conversazione e l'eloquenza » ] (La Promenade sous les arbres [La passeggiata sotto gli alberi], p. 142). La poetica di Jaccottet è dunque caratterizzata dall' effacement programmatico ( « l'effacement soit ma façon de resplendir » [ « L'opacità sia il mio modo di risplendere » ]), abrogazione d'un io poetico prepotente e romantico statuito già ai tempi de L'ignorante (1956, p. 125), ma non certo in nome d'una voce totalmente dimessa e anti-lirica.

In controluce permane l'ombra di Novalis – frequentato dapprincipio grazie al maestro Gustave Roud – ma è qui persa anche l'illusione di trovare nella natura e nel mondo le tracce sparse di un paradiso perduto. Jaccottet sembra piuttosto in costante ricerca di una « porta » - parola questa estremamente presente nella sua poesia - tra la concretezza e l'infinito. Porta, soglia, non necessariamente da valicare: «  L'entre-deux, l'enclos ouvert, peut-être ma seule patrie; le monde qui ne se limite pas à ses apparences et qu'on n'aimerait pas autant s'il ne comportait ce noyau invisible qu'un poème comme celui de Saint Jean de la Croix fait rayonner mieux qu'aucun autre  » [«Lo spazio intermedio, l'aperto recinto, forse la mia sola patria : il mondo che non si limita alle sue apparenze e che non si amerebbe a tal punto se non comportasse quel nocciolo invisibile che un poema come quello di san Giovanni della Croce fa risplendere meglio d'ogni altro» ] ( E tuttavia , 2001, p. 73).

Il riferimento al grande mistico non è casuale, tanto la poesia di Jaccottet potrebbe porsi sotto il segno dei grandi maestri del misticismo (al di fuori di qualsiasi credo), a partire da Meister Eckhart. Perché la poesia di Philippe Jaccottet si riassume, in maniera talvolta ossessiva, nella ricerca del difficile equilibrio tra enunciazione e silenzio: « déjà plus chant, pas encore mutisme impérieux » [ « non più ormai canto, non ancora mutismo perentorio » ], per usare la bella definizione di Adrien Pasquali. Il lettore è dunque imbarcato in un avventura fragile, che si fa forte della sua fragilità, talvolta sfinito dalla dichiaratività del dubbio e della modestia o dalle ossessive riapparizione di alcuni motivi cardine, come quello della campana resa stonata dal gelo, colta in Hölderlin e costantemente ribadita, da Paesaggi con figure asssenti fino a Truinas (2004).

Forse il compito del poeta onesto, nella carriera sessantennale di Jaccottet, è proprio la conciliazione « mistica » tra tempo e spazio, tra luce e tenebra, tra immobilità e movimento, secondo le coordinate che lo stesso poeta enuncia nel suo fondamentale saggio dedicato a Rainer Maria Rilke (Le Seuil, 1970): « Pour Rilke comme naguère pour Hölderlin, il y a une bonne et une mauvaise immobilité, un mouvement bon et un autre mauvais. La mauvaise immobilité, c'est le figement des définitions, des doctrines, des dogmes (par quoi le Divin se corrompt); le mauvais mouvement, c'est la hâte, l'agitation vaine, la dispersion qui égarent loin de son centre l'homme moderne. La bonne immobilité, c'est la patience, l'attente ; l'ouverture, le bon mouvement, ou le mouvement pur, c'est l'élan désintéressé, sans but (Rilke dira plus tard le risque) qui met en rapport le proche et le lointain  » [ Per Rilke come un tempo per Hölderlin, esiste una buona e una cattiva immobilità, un movimento buono e uno cattivo. La cattiva immobilità, è il cementare delle definizioni, delle dottrine, dei dogmi (attraverso cui il Divino si corrompe) ; il cattivo movimento, è la fretta, la vana agitazione, la dispersività che smarrisce l'uomo moderno al di fuori del suo centro. La buona immobilità, è la pazienza, l'attesa, l'apertura, il movimento buono, o movimento puro, è lo slancio disinteressato, senza scopo » ] (p. 41).

Pierre Lepori

 

   Intervista con Philippe Jaccottet, di Pierre Lepori

 

Non è la prima volta che intervistiamo Philippe Jaccottet, ma il viaggio a Grignan ha sempre qualcosa di particolare, tanto che anche i critici più professionali e accigliati non mancano di segnalare l'intensità degli incontri con il poeta. E' anzi diventata quasi una figura di stile, iniziare le interviste con l'evocazione dell'alta casa provenzale in cui Jaccottet risiede da oltre cinquant'anni. Non possiamo che esordire con una domanda a doppio fondo, dunque, sull'atto stesso dell'intervista e chiedere a Jaccottet se non si sente un poco turbato da questo approccio reverenziale, quasi avessimo a che fare, come diceva Rudolf Kassner a proposito Rilke, con un poeta che è poeta « anche quando si lava le mani » ?

L'idea che si venga a incontrarmi « in pellegrinaggio » mi è totalmente estranea; sento piuttosto una certa timidezza e un certo imbarazzo; è noto che non amo molto le interviste e che non partecipo ai convegni che mi sono dedicati. Preferisco stare in disparte; forse per questo chi viene a incontrarmi può essere intimorito.

Philippe Jaccottet

Quel che mi imbarazza, però, quel che mi spinge a evitare in generale le interviste, è il fatto che, se mi capita di rileggermi, mi trovo maldestro nell'espressione orale, incapace di spiegarmi in maniera abbastanza precisa. Mi sembra di dire in modo ben peggiore, nelle interviste, quel che ho cercato di suggerire nei testi, parlando della poesia o di altri poeti.

Leggendo le numerose opere a lei dedicate – una bibliografia ormai cospicua – si ha l'impressione di una certa ripetitività: da un lato la sua poesia, pur traversando fasi anche molto ben distinguibili, resta fedele nel tempo ad alcune coordinate essenziali. D'altronde è la poesia stessa (e le opere di critica o di riflessione poetica) ad « autocommentarsi » , a sviscerare la necessità e le strettoie della scrittura. Le sembra di aver trovato, in queste opere di commento, anche elementi interpretativi nuovi, inattesi, interrogativi? Talune di queste letture possono averla influenzata o turbata (o infastidita)?

Ho preso esempio da Rilke, che pretendeva di non aver letto nessuno dei libri a lui consacrati (e all'epoca se ne scrivevano molto meno). Evidentemente sono confortato e commosso, talvolta anche stupito, dal fatto che vi sia un tal numero di studi; e ancor più stupito dal fatto che vengano pubblicati: mi chiedo sempre chi mai possa interessarsene, se già sono così rari i lettori di poesia. Sono dunque riconoscente verso coloro che si sono dati la pena di lavorare sulla mia opera e cerco di scorrere rapidamente questi saggi, evitando di prestarvi troppa attenzione e di riflettere sul loro contenuto. Sono felice, naturalmente quando mi sento compreso. Ma cerco di fermarmi alle linee generali, perché l'eccesso di commento potrebbe disturbare la singolare ingenuità che cerco di conservare, nonostante la mia età avanzata, che permette di lavorare liberamente, senza farsi colonizzare dal personaggio che, quasi fatalmente, i critici fanno di voi.

Un tema che – di fronte alla levatura e alla discrezione della sua poesia – può sembrare delicato toccare è quello della biografia. Cosa ci può dire Jaccottet del rapporto tra la propria biografia personale e l'opera di poeta?

La scrittura per me si è sempre affermata con una semplicità tale, che ne sono talvolta turbato. Potrebbe sembrare ingenuo, ma è stato tutto molto naturale. Ho oggi un'età che mi consente di guardare alle spalle e interpretare il mio percorso: quando nella mia vita personale si è prodotto qualcosa di intenso, nell'ordine della gioia o del dolore, la poesia si schiudeva da sé, come un fiore (diceva Ungaretti). Gli avvenimenti essenziali della mia vita sono « entrati » nella poesia, il resto non riguarda nessuno ed è d'altronde abbastanza banale; ci sono persone che non hanno prodotto opere d'arte ma hanno avuto vite talmente più interessanti della mia. Per me è normale non attardarmi sugli avvenimenti fattuali della mia vita, perché l'essenziale è nella poesia. La discrezione e il pudore fanno naturalmente parte del mio carattere

Eppure i bagliori dell'infanzia aggallano talvolta nella sua opera (in Beauregard , ad esempio)…

Non mi è mai interessato particolarmente riflettere su me stesso, sui miei ricordi. Ma è anche vero che ho pochi ricordi d'infanzia e – a differenza di altri scrittori – non ho l'impressione che l'infanzia sia stato un momento fondatore. E' stata per me un'età né particolarmente infelice, né particolarmente fatata, come capita di incontrarla in molte opere, soprattutto narrative. Mi sono posto questa domanda proprio recentemente, di fronte a qualche accadimento singolare: ho ricevuto nel 2001 il premio della mia città natale, Moudon, e in quel frangente ho scoperto che uno dei fondatori delle edizioni Empreintes abita oggi la casa in cui ho passato gran parte della mia infanzia. Questo ha risuscitato una serie di ricordi, dando loro una nuova presenza e mi sono detto che avrei dovuto riunire in un solo libro i frammenti e le poesie che evocano la mia infanzia, insieme a un testo scritto in omaggio a Georges Borgeaud, quando abitavo a casa sua a Parigi, negli anni Cinquanta, intitolato Le cours de la Broye , che racconta i miei ricordi di Moudon. Tutto questo commentato da me oggi: per la prima volta, in pratica, pubblicherò vere e proprie considerazioni su quell'epoca della mia vita, in particolare su una zia eccentrica, a cui volevo molto bene, redattrice del « Journal de Moudon » , che scriveva anche lei poesie (a dire il vero estremamente convenzionali) ed aveva un carattere un po' pazzo. Non ho però l'impressione – a torto o a ragione – che sia in questi momenti che risiede la fonte profonda della mia ispirazione. In fondo ero un bambino timido e timoroso, che non viveva pienamente, come i bambini che si azzuffano o compiono avventure straordinarie. Molto rapidamente la mia vita si è fatta attraverso i libri: ho cominciato a leggere molto presto.

Molto spesso lei ha evocato gli incontri fondamentali della sua vita di poeta: in particolare la figura di Gustave Roud (e del Premio Rambert del 1941 in cui lo incontrò la prima volta), come padre spirituale. Quando è nato però il primo impulso verso la poesia e come si è rafforzato, come ha attraversato la fase della formazione, fino ad arrivare alla maturità? In quale momento davvero le è sembrato che la poesia potesse e dovesse essere una scelta di vita totalizzante (un mestiere)?

Ho scoperto molto presto il gusto per le parole, la loro manipolazione. Mia madre ha conservato un foglietto scritto a macchina a Moudon, quindi prima dei miei otto anni. Avevo ricevuto un buffo bollettino dal Babbo Natale dei grandi magazzini Innovation di Losanna, in cui era pubblicato il racconto della battaglia di Actium (un'idea francamente comica). Con la macchina da scrivere di mio padre – che usavo prediligendo la parte rossa del nastro inchiostratore – ho composto un adattamento di questa storia, segno che molto presto avevo sentito l'impulso a maneggiare le parole. Verso undici anni, ho scritto le prime poesie: evidentemente non valevano un soldo bucato, ma dimostrano che il piacere per la scrittura e la poesia si è manifestato abbastanza presto. L'adolescenza ha poi coinciso con le grandi letture, la scoperta di Rimbaud, Ramuz, Claudel, Rilke; ho capito che il linguaggio poetico poteva tradurre qualcosa di essenziale. Ormai la mia strada era decisa: l'incontro con Roud è stata la conferma – con la presenza in carne ed ossa del poeta – di questa vocazione. Restava solo da trovare un modo per risolvere il problema della sussistenza materiale, per poter continuare a ascoltare questa parola interiore e tradurla nel mondo reale e quotidiano. Senza per questo volere – perché non sono mai stato un rivoluzionario o un avventuriero – rompere con il mondo, esiliarmi.

La sua opera è caratterizzata da una sorta di dubbio permanente (sulla poesia, sulla possibilità di dire il mondo, ecc.), ma anche – per l'appunto – da una fiducia di fondo, da una caparbia volontà di prendere la parola…

E' vero: salvo in momenti di dubbio estremo, ho sempre sentito profondamente – fino ad oggi – la certezza che il linguaggio poetico fosse qualcosa di essenziale, di centrale, che si avvicinava a una verità (che non posso ovviamente definire). Questa certezza non mi ha mai abbandonato, ma sono per natura portato al dubbio. Mi capita, leggendo altri poeti, grandi voci come Brodskij, di dirmi « tu come osi pubblicare? » . Queste esitazioni talvolta irritano i miei amici, ma non posso farne a meno, sono spontanee. Ciò dà ai miei libri anche un particolare tono contraddittorio, sospeso tra continua ricerca e certezza profonda. E fa anche sì che, a mio modo di vedere, non ci sia una particolare evoluzione del mio pensiero, ma piuttosto un percorso costantemente minacciato dalla contraddizione. Si pensi a un libro recente come Truinas : ci sono affermazioni perentorie sul potere della poesia e pagine che invece rimettono tutto in dubbio.

Quanto ha contato il « champ littéraire » romando; Roud, appunto, ma anche un'idea molto alta della poesia, delle « Saintes Ecritures » per usare la formula di Chessex?

Non ho mai rinnegato il mio legame con la Svizzera romanda: ho avuto grandi amicizie e ho continuato ha farmene di nuove. Non ho mai condiviso la rivolta alti-elvetica di alcuni conterranei, forse perché non sono particolarmente politicizzato. A Losanna io sono stato felice, ho bei ricordi e non sono partito per « rompere » con l'ambiente. Non mi sono neppure mai chiesto, come Yves Velan e gli scrittori del gruppo Rencontres, se la decisione di vivere altrove potesse essere una sorta di tradimento. Sono questioni che non mi hanno sfiorato, lo si capisce anche leggendo le mie opere. Naturalmente, il fatto che la cultura romanda fosse aperta sulla cultura tedesca è stato un fattore positivo per il mio lavoro: ho avuto la fortuna di una frequentazione più « naturale » di autori come Rilke e Hölderlin, attraverso Roud, ed è stata una ricchezza. Non credo però che esista una « letteratura romanda » , ma piuttosto un clima, una serie di tratti caratteriali, in gran parte dovuti al protestantesimo, con le sue qualità e i suoi difetti.

Per far posto interamente alla poesia, lei ha vissuto – nella sua casa di Grignan – grazie all'attività solitaria della traduzione. Alcuni degli autori tradotti le erano idealmente vicini (Hölderlin, Rilke, Musil, Ungaretti), ma quale è stato il suo rapporto con gli altri, lontani dalla sua poetica (Bachmann, Cassola)?

Quando ho dovuto decidere, alla fine degli studi, che cosa fare nella vita, ho avuto la fortuna di godere dell'appoggio dell'editore Mermod, che mi ha proposto la traduzione della Morte a Venezia di Mann. E' stata, in pratica, la soluzione del mio problema: potevo anche diventare insegnante, ma sentivo che avrei avuto una maggiore libertà se fossi riuscito a guadagnarmi da vivere come traduttore. Questo ha anche implicato – per questioni finanziarie – il trasferimento nel Sud della Francia. Evidentemente, per vivere, ho dovuto tradurre soprattutto prosa: pagine e pagine, un vero e proprio lavoro regolare. Le lettere di Rilke, quasi l'opera omnia di Musil. Non penso che questo abbia interferito con il mio lavoro poetico, anche nel caso di forti affinità elettive. Certo dopo l'immensa fatica sull'opera di Musil, ho chiesto all'editore di poter lavorare su un autore più facile e ho tradotto Carlo Cassola. Quanto alla traduzione di Malina di Ingeborg Bachmann, autrice che avevo incontrato a Roma con Ungaretti e che mi aveva molto impressionato come persona (e come poetessa), non sono sicuro di aver capito bene questo libro, ho fatto molta fatica a tradurlo. Ho fatto del mio meglio, come per Ludwig Hohl e altri autori. E non hanno naturalmente influenzato il mio lavoro di scrittura.

Una delle poste in gioco della sua poesia è l'equilibrio tra la passività che lascia affiorare il mondo e lo sguardo attivo (ma discreto) del poeta: « Qu'est-ce donc que le chant? Rien qu'une sorte de regard » [Dunque cos'è il canto ? / Solo una specie di canto] (Arie, p. 139 ). In Une transaction secrète lei parla inoltre di « une prosodie, une syntaxe, un vocabulaire du secret; et que la première tâche du poète serait évidemment (…) d'apprendre ce langage et d'en perfectionner lentement l'emploi, ni plus ni moins que tout homme de métier » [ « una prosodia, una sintassi, un vocabolario del segreto, che che il primo compito di un poeta sarebbe evidentemente (…) d'imparare questo linguaggio e di perfezionarne lentamente l'uso, né più né meno di ogni altro artigiano » ] (p. 295) Se dovesse oggi scrivere la sua lettera a Kappus, tenderebbe a instigarlo alla passività, allo svuotamento e alla pazienza; oppure all'esercizio (anche artigianale) della poesia e dello sguardo?

Non so se sia possibile dare veramente consigli, perché se un poeta non scopre da solo la sua strada, in genere, non è buon segno. La cosa più importante, a mio avviso, resta comunque l' « accoglienza » , l'apertura fuor della quale non è possibile l'opera d'arte. Per me ogni poesia è stata una reazione a qualcosa che mi ha toccato in un modo o in un altro. La sensibilità e l'apertura al mondo sono indispensabile per ogni poeta, ogni artista. Quel che segue, giacché la poesia non s'infonde in libagione direttamente sulla pagina (sarebbe troppo bello), varia molto da poeta a poeta. Tra colui che, come Verlaine, sembra scrivere senza riflettere e senza rilavorare; e colui per cui, come per Gongora o Mallarmé, la poesia è un lavoro sulle parole. Entrambi questi modelli mi affascinano, ma mi sento più sul versante di Verlaine che di Gongora (sempre parlando per estremi), perché rielaboro raramente le mie poesie; quando ho dovuto farlo, in genere, non era buon segno. E' un po' paradossale, ma devo ammettere che per me scrivere non è mai stato un lavoro (mi vergogno un po' a dirlo). Ho avuto una grande facilità di scrittura. O forse è stata la vita sedentaria e tranquilla qui a Grignan, propizia alla serenità, ad aver favorito una maggiore concentrazione. Non sono un autore che suda sulle sue carte, con tormenti e lacerazioni. E mi sembra giusto: se pensiamo alla durezza e ai tormenti di tanta gente sulla terra, mi sembra che l'artista che parla dei suoi tormenti sia un poco triviale.

Soffermiamoci ora su alcuni temi-cardine della sua poesia: tra questi, oltre alla natura, la morte è preponderante: fin dai tempi del primo Requiem e poi di Leçons [Lezioni] e Chants d'en bas [Canti dal basso] . In questi ultimi anni, tuttavia, mi sembra che la morte abbia preso una dimensione diversa, nella sua opera. Penso all'immagine della « loggia vide » [ « loggia vuota » ] (nell'affresco di Giotto della cappella degli Scrovegni di Padova) in Après beaucoups d'années [ Dopo tanti anni ] (1994) o al ricordo fraterno di André du Bouchet che innerva Truinas (2004). Una morte (anche improvvisa, tragica) vista come « porte dérobée » [ « porta celata » ], spazio di comunicazione, siepe leopardiana. Si tratta di una prospettiva spirituale?

Non mi ritengo un uomo teorico, un pensatore, quando cerco di leggere la filosofia, non riesco a capirci un granché; per questo mi sento appartenere alla famiglia di Verlaine, che non era forse molto intelligente ma scriveva così come un uccello canta. Non mi sembra di avere dunque un pensiero veramente solido su nulla, se devo essere onesto mi risulta davvero incomprensibile il fatto stesso che siamo al mondo, la nostra conversazione di oggi: mi sembra che questo appartenga semplicemente all'ordine delle cose prodigiose e insondabili. Mi guarderei bene dal cercare una spiegazione, vivo nell'oscurità ma mi fido dell'istinto, dell'intuizione, dell'emozione (anche di fronte alla bellezza, delle opere d'arte o del paesaggio). Non sono dunque nichilista e ho sempre più marcatamente la volontà – negli ultimi miei libri – di affermare l'esistenza di qualcosa che si erge contro il nulla. Anche perché così è stata la mia esistenza – privilegiata – e credo sia necessario dirlo con forza, soprattutto oggi, in un mondo sempre più spaventoso e oscuro. Certamente il tema della morte – molto presente, forse anche troppo nella mia opera – ha subito un'evoluzione: sono passato attraverso una serie di esperienze che hanno reso la morte più concreta (rispetto all'idea un po' « fantasmatica » che me ne facevo in gioventù) e che mi hanno nutrito. Oggi la morte ha preso meno spazio nella mia vita, di fronte ad essa sento di dover affermare (come appunto in Truinas ) la potenza e il respiro delle cose più fragili.

Fragilità e forza: « il n'était pas une seule de ces choses ou de ces créatures terrestres que l'élan du poème, et ses pauses, ne transforment » [«non v'era una sola di queste cose o di queste creature terrestri che lo slancio del poema, e le sue pause, non riuscissero a trasformare », . 71], scrive in E, tuttavia . In un punto molto elevato della sua produzione poetica, vedendo dietro di sé un'opera coerente e densa, quale di questi due termini sente più appropriato a definirla?

Tirando le somme mi rendo conto che nella mia poesia la forza, la speranza, è certamente prevalente, nonostante – o forse anche a causa – della mia insistenza sulla fragilità.

Lei è un poeta che da sempre percorre il vicino, il circostante, al paesaggio. Eppure il viaggio è sempre stato presente nel suo lavoro, che fosse attraverso le traduzioni (la Spagna, l'Austria e la Germania) o attraverso le passioni pittoriche o geografiche (l'Italia). Negli ultimi anni i testi ispirati dal viaggio sono tuttavia aumentati, e l'orizzonte geografico si è allargato. Qual è il suo rapporto – diretto e indiretto – con il viaggio? Quanto è necessario o fecondo per la poesia?

I viaggi sono stati per me fondamentali fin dall'inizio: penso al primo viaggio in Italia, nel 1946, l'incontro con Ungaretti (di cui parlo in Libretto ). Ma è vero che non sempre i viaggi si depositavano direttamente nella mia poesia. Forse perché, come giovane poeta, sdegnavo l'idea di prendere appunti in viaggio, trovandola un'attività troppo giornalistica. E siccome godo di poca memoria, ho dimenticato molte cose di questi primi viaggi. La mia poesia, ovviamente, è segnata dall'orizzonte prossimo, dalle promenades qui a Grignan; che non possono essere paragonate al viaggio, perché richiedono una lenta decantazione, una frequentazione assidua e paziente. Se oggi i viaggi sono divenuti più presenti, questo dipende anche dagli accadimenti biografici. Negli ultimi anni ho potuto compiere – grazie agli inviti di amici – viaggi per terre più lontane, verso la Grecia, l'Egitto, l'Andalusia. E mi sono permesso di prendere appunti, scoprendo a posteriori che avevano risonanze profonde col mio mondo poetico.

Nelle sue opere più recenti notiamo inoltre una maggiore presenza dei sogni, il che può stupire il lettore abituale di Jaccottet, così lontano da ogni psicologismo e surrealismo. Qual è il loro ruolo?

Anche in questo caso, tutto si è svolto con naturalezza. Quando mi è capitato di avere lunghi periodi senza scrittura, ho voluto mantenere il legame con la poesia prendendo appunti (che poi ho pubblicato nei vari volumi della Semaison ). Ho dunque annotato anche i sogni più particolari e bizzarri. Non mi sono posto particolari domande. Questi sogni – di cui solo alcuni sono poi stati pubblicati – mi davano una nuova visione delle cose: nella mia vita che sembra così ordinata e chiara, d'un colpo, durante la notte, sorgevano elementi di violenza, di angoscia, la paura delle guerre e dei cataclismi. E ho lasciato sorgere queste ombre all'interno dei miei libri: ho sempre avuto paura che mi si considerasse un poeta dell'idillio, lontano dalla politica e dall'orrore della storia. Per questo non ho esitato e introdurre gli elementi del sogno.

di Pierre Lepori

Page créée le 04.03.10
Dernière mise à jour le 04.03.10

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