Riflessioni sulla poesia,
di Fabio Pusterla
Parecchi anni fa, un amico molto
misterioso mi ha chiesto se io sarei stato in grado di leggere
qualche pagina in tedesco. Gli ho risposto che, con un po'
di fatica, potevo provarci. Il giorno dopo, mi ha regalato
un libro, che secondo lui mi sarebbe stato utile, e di cui
mi invitava a leggere soprattutto un frammento. Anzi, più
che un invito o una segnalazione, la sua sembrava una preghiera.
Il libro era quello di Ludwig Hohl, Dass fast alles anders
ist (pubblicato a Olten nel 1967); il frammento era
invece uno dei più famosi di Hohl (ma questo l'avrei
scoperto più tardi): Von den hereinbrachenden
Rändern ("Dei margini che irrompono").
La tesi di Hohl è notissima, quasi proverbiale: il
centro non è il luogo del rinnovamento creativo,
che avviene invece, spesso incompreso o deriso, ai margini;
il centro è un luogo abitudinario, inerte,
arrogante, pago di sé; nell'ombra dei margini,
al contrario, un segno sottile, una tensione impercettibile,
un'apparizione
, là, dove secondo l'opinione
comune, si possono dar da fare solo gli specialisti "inesperti",
quelli usciti dall'orbita (cito nella traduzione di
Paola Galimberti apparsa in "Idra", R, 1998).
Qui dunque appare, timido, quel che si appresta a modificare
la realtà; e qui appunto cerca di abitare chi si
sforza di usare il linguaggio in maniera artistica.
La forza di queste parole e di queste
immagini è evidente a chiunque, e il mio amico aveva
ragione di suggerirmele come punto di riferimento essenziale.
Ma la visione che si potrebbe ben dire eroica proposta
da Hohl è forse più complessa di quanto appaia;
non è indolore; presenta dei rischi.
Ai margini, intanto, si è
soli e in balia di venti quasi sconosciuti. L'amico che
mi ha regalato il libro di Hohl è morto poco tempo
dopo, d'improvviso, senza ragione: come se fosse stato travolto
e inghiottito dalla sua stessa, voluta, marginalità.
Dopo la sua morte, dietro i libri (tutte edizioni pregiate
e rarissime della poesia europea novecentesca) che stipavano
il suo studio/cantina, sui muri nudi, sono apparsi i versi
poetici che lui scriveva disperatamente e in segreto. Altri
frammenti, brevissimi, forse semplici appunti o impreviste
illuminazioni, sono affidati a foglietti vaganti, scritti
a matita e talvolta illeggibili: li conservo come un lasciapassare
che forse mi permetterà di attraversare qualche territorio
desolato. Eppure mi domando: è questo, il margine?
Questo andare verso il vuoto, questo smarrirsi? Non lo credo;
ma certo costituisce uno dei rischi più concreti
per chi si allontana in un modo o nell'altro dalle rassicuranti
banalità del centro. Uno dei rischi, o forse
meglio una delle tentazioni: là in fondo, oltre
il margine, dove l'ultima terra frana e scoscende verso
qualcosa di ignoto, una voce chiama seducente. Il margine,
unico luogo in cui la scrittura può intraprendere
una vera ricerca, può allora trasformarsi in una
prigione, e obbligare la parola a girare su di sé,
in un inutile gioco solitario e insensato, pari al silenzio.
Nel marzo del 1973, su un vagone
ferroviario in viaggio da Parigi verso il sud della Francia,
un poeta sedeva in silenzio tra due commercianti che venivano
dal Nord del paese e che parlavano di cose loro. Il primo,
un uomo anziano, che si vantava reduce di ben due guerre,
raccontava del suo tentativo di trovare una nuova moglie,
dopo la morte della precedente; e di come avesse schiaffeggiato
e scacciato sui due piedi una signora cinquantasettenne
che l'aveva illuso in tal senso; si dichiarava felice che
nella sua città venissero finalmente demoliti i vecchi
quartieri. L'altra, una Bretone orrendamente truccata, si
diceva molto contenta di abitare al Nord, ricco di moderni
supermercati, mentre trovava deserta e noiosa la valle del
Rodano. Il poeta, che si chiamava Philippe Jaccottet e che
avrebbe poi raccontato la scena in un breve appunto de
La semaison (Gallimard, Paris, 1984, pp. 196-97), ascoltava
con un misto di divertimento e di angoscia. E concludeva:
Quand on vit à l'écart, on oublie comment
pensent la plupart des gens. Je ne sais si cela vaut mieux.
Benché il vivre à
l'écart di Jaccottet non sia forse un esatto
sinonimo dei Rändern di Hohl (non potrebbe invece
riecheggiare il classico ideale petrarchesco, De vita
solitaria?), il quadretto ferroviario suggerisce un'altra
difficoltà, più sottile e forse anche più
insidiosa della precedente: quella di perdere il contatto
con la realtà, con quella realtà magari orribile,
magari ripugnante, in cui vivono comunque gli altri esseri
umani, o almeno molti di loro. La contrapposizione fra centro
e margini potrebbe infatti essere interpretata in modo
troppo netto, troppo compiaciuto; e indurre qualcuno a rifiutare
sdegnosamente la rozza incultura del centro, rifugiandosi
in un'aristocratica, elegantissima marginalità.
Il XX secolo ha conosciuto ampiamente questa tentazione,
il richiamo di un nobilissimo isolamento, di una sprezzante
separazione tra scrittura e vita. Ma i margini di
Hohl, come l'écart di Jaccottet, vogliono
essere ben altro, o almeno così tendo a interpretarli,
assumendoli come modelli etici: un'attenzione vigile, un
tentativo costante di comprendere, e la capacità
di far passare, attraverso minuscole fessure, un soffio
d'aria. Anche nei supermercati, nelle periferie più
tristi e sconsolate. Soprattutto lì, dove margine
e centro si sfiorano e talvolta si confondono.
E forse il problema sta proprio nell'uso
e nel significato delle parole; nel fatto cioè che
l'antitesi chiarissima di Hohl finisce per suggerire un'immagine
troppo orizzontale e netta, che noi siamo indotti ad interpretare,
banalizzandola, in termini quasi urbanistici: come se fosse
ancora possibile opporre un vero, riconoscibile centro
alle immense periferie che lo circondano. Ma qual è
il centro, oggi? Privi ormai da tempo, ma finalmente coscienti
di esserlo, di un fuori, di un oltre, di un
altrove, siamo contemporaneamente orfani appunto
di quel centro che non esiste più, o che ci
sfugge, tanto sul piano geografico quanto su quello culturale.
Condannati a vivere in una sterminata periferia di noi stessi,
forse dovremo trovare un altro modo di definire lo spazio
della ricerca creativa.
Un altro brevissimo aforisma di Hohl
recita: La grandezza di un uomo è proporzionale
alla grandezza del passato che riesce a risvegliare.
Appaiono qui una nuova dimensione e un nuovo compito: la
verticalità del tempo e della storia (il passato)
che può (deve) essere risvegliata, nella sua grandezza,
nella sua profondità. E proprio l'idea del risvegliare,
cioè del rendere nuovamente visibile, la cosa che
già esisteva ma che si è come sottratta alla
nostra attenzione (o sarà piuttosto la nostra disattenzione
ad averla espunta dal catasto della realtà), quest'idea
mi appare più importante, più utile e più
urgente di altre che tradizionalmente sono state associate
all'atto poetico. Questo forse è qualcosa che davvero
si potrebbe fare, che si potrebbe sperare di fare, dentro
le nostre vite periferiche, lungo i corridoi dei supermercati
entro cui vaghiamo: aiutare gli occhi a guardare con intensità,
suggerire alla coscienza individuale una diversa concentrazione
su di sé e sugli altri, riscoprire quel mondo su
cui è calato un velo opaco. Lungo questa via sarebbe
forse possibile augurarsi di non rimanere del tutto prigionieri
della marginalità: il margine non sarebbe più
territorio di fuga o di ripiego, ma vero luogo di riscoperta
e di condivisione. Se ciascuno vive il proprio esilio in
una periferia (psichica, esistenziale, culturale), diverso
è il grado di coscienza e di comprensione: lungo
gli interminabili scalini che conducono dalla piatta superficie
alle zone di profondità, la scrittura poetica può
forse tessere qualche filo d'Arianna, qualche corrimano.
Si tratta di una speranza eccessiva,
di una responsabilità troppo gravosa per le forze
esilissime di cui sembra godere oggi la poesia? Può
darsi; eppure è proprio ciò che sembra suggerire
l'ultimo autore che vorrei chiamare alla sbarra come testimone
e come guida: il poeta portoghese Nuno Júdice, che
in una densa pagina di prosa descrive il proprio lavoro
di scrittura (il brano, tradotto in francese dallo stesso
Júdice, è apparso con il titolo La nuit
du poème sulla rivista parigina "Europe"
- numero 875, marzo 2002). A notte fonda, sul delta del
Danubio, in un luogo deserto dove si accampano le rovine
di un'antica città romana, un autobus di turisti
stranieri si arresta. Malgrado l'oscurità, che impedisce
di vedere e di capire, la guida si attiene scrupolosamente
al programma, che prevedeva una visita al sito archeologico:
e, nel buio, descrive agli ignari turisti le bellezze del
passato di cui essi non possono neppure distinguere i poveri
resti. Ma appunto in questo modo sembra risorgere nell'immaginazione
l'intera città, sfolgorante di luce: risvegliata
dalla parola, squarcia le tenebre. Qualcosa del genere,
osserva l'autore, accade al poeta: Il se trouve embarqué
par hasard dans ce voyage et fait halte au seuil d'un monde
que la nuit couvre de sa noirceur: c'est le désir
de voir, derrière cette nuit, ce qui existe, ce qui
survit ou non de tout ce qui s'est passé, qui le
fait écrire. Dans le poème, comme dans la
voix de celui qui raconte ce qu'il ne voit pas, les choses
commencent à paraître. Il s'agit toujours d'un
miracle. Je suis sûr que ce miracle n'a rien de sacré;
au contraire, c'est le seul miracle profane, et il est suffisant
pour qu'on puisse regarder le réel avec des yeux
qui le transpercent jusqu'à atteindre sa vérité
la plus profonde.
Poesia, dunque, come mezzo per intensificare
la percezione immaginativa, la coscienza profonda di noi
stessi e di ciò che ci circonda e ci ospita, come
una terra stratificata e complessa, un'atmosfera fremente
di particelle e di luci? Se è così, il margine
da cui è partito il ragionamento può trasformarsi
in una riva: la riva di un fiume qualsiasi, da cui
lo sguardo può cogliere contemporaneamente tre prospettive
diverse e complementari. Quella laterale dell'acqua che
fluisce, movimento che scandisce il trascorrere del tempo,
e suggerisce l'idea di un viaggio che unisce il passato
e il futuro, aprendo un varco indefinito. Quella verticale
che scende verso il letto del fiume, luogo d'alghe e di
movimenti sinuosi, e da lì risale verso l'alto come
un raggio di luce riflessa, sprigionato dal guizzo di una
coda fuggitiva. E infine quella che si apre proprio di fronte
agli occhi, e parla di una diversa riva, speculare e irraggiungibile,
vasta come un sogno impreciso o incomprensibile. E in mezzo
a queste linee immaginarie, a queste direzioni dell'aria
e del paesaggio (non importa che l'aria sia tersa, il paesaggio
idilliaco), la parola poetica cerca in sé l'energia
per concentrare una simile complessità, per preservarla
e trasmetterla altrove, dove muri chiudono la vista, luci
abbaglianti accecano: per ricondurla in quel centro muto
del dolore contemporaneo che va riconquistato alla parola
e alla coscienza.
Page créée le 03.05.04
Dernière mise à jour le 03.05.04
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