Trenta raggi si
riuniscono in un centro vuoto
ma la ruota non girerebbe senza quel vuoto.
Un vaso è fatto di solida argilla,
ma è il vuoto che lo rende utile.
Per costruire una stanza, devi aprire porte e finestre;
senza quei vuoti, non sarebbe abitabile.
Dunque, per utilizzare ciò che è
devi utilizzare ciò che non è.
Laotse
Giuliana Pelli Grandini,
due sono i modi in cui potrei intervistarla, entrambi
ispirati al suo lavoro terapeutico e di scrittura.
Potrei chiederle di procedere in modo lineare, con
un "racconto di vita" (dando forma a una
"storia", secondo l'idea di Hillmann).
Oppure potrei unire i molteplici punti rappresentati
dalle tappe (e dagli interessi) della sua vita,
in una sorta di raggiera, costruendo quel "Mandala"
che troviamo alla fine del |
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percorso terapeutico
descritto nel suo primo libro (La statuina di Meissen
e il mandala. Storia di una terapida psicomotoria.
La mia prima domanda è dunque una meta-domanda:
in quale di questi due modi vuole essere intervistata? |
Preferirei un tipo di intervista "circolare":
anche se poi questa circolarità si aggancia direttamente
al discorso biografico. L'intervista biografica mi intimorisce
, ma tutto parte da lì. Se è vero che si lavora
laddove meglio ci si cura, il mio lavoro con i bambini rinvia
sicuramente a me bambina. Per la scrittura c'è qualcosa
di simile: perché si scrive? Di che cosa ci si prende
cura, scrivendo?
Anche per la fotografia, c'è un aggancio biografico,
nella figura positiva di mio nonno, che ha segnato la mia
vita di bambina. Mio nonno era fotografo: nella memoria la
traccia dell' atmosfera del suo studio, l'odore degli acidi,
la luce arancione. Per me entrare nella sua camera oscura
era incredibile, magico e stupendo. Ricordo la sua grandissima
pazienza: il tempo offerto ai mutramenti della luce.
La fotografia è legata anche al lavoro di terapeuta
che prende avvio proprio dall'osservazione attenta dell'espressività
motoria. Il mio lavoro è legato al corpo, che per me
è un po'come il negativo di una fotografia . Così
come nel negativo della fotografia è già impressa
tutta l'immagine, nel corpo è iscritta la storia profonda
di ognuno di noi. Per far emergere dal buio l'immagine occorrono
particolari dispositivi: la camera oscura, un tempo d'attesa,
la regolarità, l'uso di determinati strumenti. Lo stesso
è per il corpo, che per dirsi, racontarsi, svelarsi
e dunque poter essere curato, deve essere posto nelle giuste
condizioni di attenzione, di sicurezza, di accoglimento.
Nel suo percorso la fotografia è strettamente intrecciata
al lavoro con il Teatro delle Radici, negli anni Ottanta.
Come si è sviluppato questo doppio lavoro di ricerca?
Nel lavoro teatrale mettevo in immagini
i sentimenti e le emozioni. Era il mio modo di scoprirle,
contenerle, trasmetterle, inquadrarle. E mi è piaciuta
l'idea di avere una macchina fotografica, per mettermi anche
dall'altra parte per riuscire a cogliere nelle scene fatte
dagli altri attori, quei momenti e quelle immagini che sentivo
mie, giuste, inquadrate. Ancora una volta: partivo
dall'oscuro per portare alla luce, come poi avrei fatto nella
terapia (che è un modo, tra l'altro, per "inquadrare").
Fare teatro è stata già in partenza un'esperienza
iconografica, anche quando ero io in prima persona a drammatizzare;
l'inquadratura fotografica poi mi ha permesso di dare una
forma, di meglio capire la scena. Gli attori mi prestavano
la loro presenza e la loro creatività. Ed io inquadravo.
Parallelamente ho realizzato anche ritratti, un'esperienza
di lavoro molto forte: grazie al ritratto mi avvicinavo all'altro,
e nel contempo coglievo in lui qualcosa che era anche in parte
mio. E poi passavo ore in camera oscura ed era una specie
di lenta, magica discesa nel ventre.
Il passaggio successivo è stato quello legato alla
scelta di unire l'aspetto creativo - teatro, musica, fotografia
- ad un ambito di cura, quello della terapia psicomotoria.
Se infatti il bambino riesce a esprimere creativamente attraverso
il gioco e il movimento quello che ha dentro (ex-pression:
qualcosa che preme da dentro per uscire), sta bene. Come ognuno
di noi del resto.
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Tra le tante esperienze artistiche (fotografia,
teatro, scrittura) da lei toccate, ha un posto
importante anche la musica, che in sé raccoglie
il respiro, il corpo, il canto. Quanto ha contato
questa sua formazione musicale?
Ho studiato pianoforte per anni, portata sin
da piccola alla musica dal nonno fotografo, figlio
di un musicista.
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Anche in questo ambito c'era una condivisione
del piacere nello stare alla tastiera, nella scoperta dei
suoni . Poi ho studiato al conservatorio di Milano. Ero però
troppo emotiva per una carriera di pianista: ogni concerto,
esame o semplice esibizione privata erano una catastrofe.
La musica è per me una fonte straordinaria di emozioni.
Uso spesso la voce, il canto, la musica, anche in terapia
(ne parlo dettagliatamente in uno degli "atti unici"
di La mummia bambina- Il pianoforte con le spalle al muro).
In una nota del primo libro, lei annota che la parola francese
pièce significa al contempo stanza (luogo di
terapia) e creazione teatrale. Il nuovo libro, che non è
più un saggio (nonostante la collana in cui viene pubblicato),
ha come sottotitolo Atti unici. Piccole storie di ombre
infantili. C'è insomma una continuità tra
terapia e creatività?
Al centro del mio approccio terapeutico
c'è il gioco: per i bambini il gioco è una dimensione
essenziale. Un bambino che non sta bene è un bambino
che non sa giocare; e non tanto nel contenuto nel gioco, perché
ogni gioco si può fare bene o meno. Un gioco ben fatto
contiene tre elementi basilari: il topos (lo spazio,
il luogo), il logos (un obiettivo, un pensiero, un
progetto) e il pathos (l'investimento emozionale).
Nella stanza di terapia oltre al gioco sensomotorio e al gioco
di rassicurazione profonda legato all'aspetto più arcaico
del giocare, c'è il gioco simbolico (il "far finta
che"), che si lega a filo diretto con la drammatizzazione,
il teatro.
Dar corpo, in un gioco delle parti, a vari personaggi, permette
di rappresentare gli aspetti fantasmatici inconsci del bambino,
andando a stanare il nucleo della sua sofferenza profonda.
In questo nuovo libro ho cercato di dare una forma scritta
a dieci passaggi costitutivi di dieci terapie: il momento
in cui ogni bambino riesce a riattualizzare, mettendolo in
scena, il proprio dramma. Si tratta di bambini che hanno subito
traumi precoci, indicibili e non simbolizzabili e che in terapia
riescono, attraverso una magia lenta (Freud) a dare una forma
al terrore senza nome che invadeva dolorosamente la loro vita
inconscia.
Quanto l'aver fatto teatro - con il metodo specifico di Cristina
Castrillo, nei laboratori del Teatro delle Radici a Lugano
- ha contato in questa elaborazione di un metodo terapeutico
comprensivo della teatralità?
L'aspetto più importante di
quell'esperienza è legato sicuramente alla pratica
costante e approfondita dell'improvvisazione. Il lavoro di
terapia psicomotoria non si fa a tavolino: c'è un investimento
emozionale di tutto il corpo, della gestualità, del
movimento. E di fronte ai bambini, che sono velocissimi nelle
loro proposte, occorre essere pronti ad accogliere e ad improvvisare
su un fantasma o più fantasmi d'azione che aleggiano
nella stanza di terapia. Il fantasma deve essere accolto dal
corpo del terapeuta e spesso non c'è tempo per pensarci
su. L'improvvisazione mi ha aiutato a rendere più fluido
l'immaginario.
E poi, sempre dal teatro, ho fatto tesoro del divertimento,
della scoperta, della sorpresa, della gioia dell'essere in
scena: la dinamica di piacere è basilare per i bambini
e per gli adulti. Questo non vuol dire, in terapia, annullare
la sofferenza, ma accoglierla nella condivisione, mantenendo
viva la dinamica del piacere condiviso
Il suo primo libro era
un saggio, con tanto di citazioni colte (e molto
belle). Questo secondo libro, La mummia bambina,
si apre invece sulla fondamentale citazione di
Peter Brook (la battuta iniziale di The Empty
Space: un uomo attraversa uno spazio vuoto,
un altro lo osserva, si tratta di un'azione teatrale)
e propone una lunga serie di citazioni di poeti,
con una volontà precisa di fare, anche
nel racconto dei "casi terapeutici"
un vero e proprio lavoro di scrittura. Perché
questo passaggio?
Sicuramente, scrivendo
di terapia, attingo spunto e forza dal setting,
dalla camera di cura, per poi trovare il coraggio
e la spinta necessari ad affrancarmi dall'aspetto
strettamente terapeutico.
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In questo secondo libro c'è
un fortissimo desiderio di scrittura e poesia. Non solo di
dimostrare l'utilità di un metodo terapeutico. Se questo
metodo può aiutare il bambino, meglio; ma qui compio
un passo ulteriore, mi autorizzo a scrivere liberamente di
terapia. È certamente nella clinica, attraverso i bambini
sofferenti, che ho cominciato a vedermi in uno specchio e
a riconoscermi
Si tratta dunque di dare voce e forma all'esperienza. Per
me si tratta di una forma letteraria. E' una maniera importantissima,
indispensabile di elaborazione: a volte la sofferenza dei
bambini è sconvolgente, e la scrittura - introversa,
segreta, intima - è l'unica possibilità di tornare
a sé stessi. E di ritrovarsi.
Si tratta di un libro che riassume una lunga esperienza
- un contatto di mesi con questi bambini. In che modo queste
storie sono diventate "atti unici"? Con una
scrittura a caldo, dopo la seduta, oppure con una lunga elaborazione
posteriore?
Alcune di queste storie sono scritte
a caldo. La prima, ad esempio, è nata direttamente
dopo una seduta sconvolgente. Alla fine di questa seduta fortissima
ho accompagnato la bambina fuori dalla stanza dal suo papà.
Sono ritornata in sala e appoggiando le spalle alla porta
ho visto, nel mezzo della grande stanza il cubo su cui la
bambina aveva deposto la bambolina, piccola e interamente
incerottata. E' stato un momento sconvolgente, sono stata
travolta da un'onda potentissima di dolore. Era come se in
quella bambolina confluisse tutto il dolore del mondo. Vista
in lontananza, dalla porta, mi ha ricordato l'immagine del
Cristo del Mantegna, una delle rappresentazioni del dolore
più sconvolgenti: un quadro che sembra enorme ed è
invece molto piccolo. Ero sconvolta dalla forza con cui la
bambina aveva rappresentato la sua esperienza di abbandono
alla nascita, in un famigerato orfanotrofio rumeno, strettamente
avvolta in bende che le si erano incrostate sulla pelle ulcerata.
I genitori mi avevano raccontato che la bambina, quando erano
andati a prenderla, aveva sei settimane e sembrava proprio
una piccola mummia.
Sono tornata a casa e ho dovuto scrivere: mi sentivo male,
ero portatrice di qualcosa di enorme, di sconvolgente. Alcune
di queste storie sono dunque scritte a caldo, altre sono state
invece elaborate dopo, seguendo i ricordi, gli appunti.
Ognuno dei dieci "racconti" è suddiviso
in una parte teatrale, evocativa, emozionale, e in un piccolo
riassunto finale, che ci permette di conoscere in pochi tratti
(estremamente delicati) la storia di questi bambini. Perché?
Gli "atti unici" sono divisi
non in due, ma in tre parti. Dapprima c'è il titolo,
con un'epigrafe letteraria, poi la storia, concepita come
una scena "teatrale". Alla fine era importante,
pur proteggendo la privacy del bambino, rimetterlo
al centro della propria storia. So di scrivere dei racconti,
ma non posso annullare il bambino in nome della scrittura.
Nella mia scrittura traspaiono contemporaneamente l'esperienza
vissuta, e l'elaborazione di tipo poetico, letterario. Silvia
Vegetti Finzi lo dice molto bene nell'introduzione: è
possibile entrare all'interno della "storia", ma
poi rileggerla anche alla luce dei dati che vengono forniti
- in un carattere più piccolo - solo alla fine del
racconto.
Torniamo alle epigrafi: Fabio Pusterla, Alfonso Gatto, Mesa
Selimovic, Antonella Anedda... E' un grande atto di fiducia
nella parola dei poeti.
Sono tutti testi per me importantissimi:
spesso provengono da un taccuino, in cui annoto i passaggi
che mi hanno colpito in una lettura. Ci sono anche casi in
cui la citazione letteraria mi si fa incontro in maniera folgorante
e inattesa: la storia della bambina che non parlava (Thak
you) è stato uno di questi casi. Ero a un seminario
e un relatore ha citato la frase di Zanzotto "la lingua,
nel momento in cui viene, monta come il latte...".
La citazione si è imposta dunque per questa storia,
così come per la prima storia, La mummia bambina,
il passaggio tratto da Bocksten di Pusterla era in qualche
modo già chiaro in partenza; ho cominciato a scrivere
proprio con questa epigrafe: "E adesso vorresti un
nome, definirmi, / riseppellirmi nella tua realtà.
/ Ma le ossa sono ossa, io sono io, / ieri non c'ero, adesso
eccomi qua".
Trovo molta consolazione nella letteratura, nella poesia.
Una volta ero più sensibile alla scultura e alla pittura;
oggi è soprattutto nella lettura che trovo condivisione,
conforto. Riesco a scrivere, perché c'è da qualche
parte una risonanza profonda che mi mi permette di scovare
il fil rouge del sentimento di cui voglio dire.
La regolarescansione tra epigrafe e racconto mi ha accompagnata
sempre, mi ha confermata nella mia emozione.
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Nel libro ci sono dieci
storie, perché questo numero?
Ho capito che per un bambino
dieci significa tanto e tutto, un bambino me l'ha
dimostrato mostrandomi le sue manine aperte. Allora
mi sono data quel tempo, quel ritmo. Avrei potuto
continuare a raccontare, ma è anche la
conclusione, il limite, che dà senso all'esperienza.
Qui ci possiamo ricollegare
alla grande teoria dell'io-pelle di Didier Anzieu,
non a caso uno psicanalista che ha legato strettamente
l'idea di una "messa in forma" dell'io
anche al processo creativo (ha scritto un saggio,
molto bello, proprio su questo tema). Curare-creare,
un binomio molto importante per lei?
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L'io-pelle è un testo straordinario:
il limite, la pelle, sono elementi fondamentali. Molto bambini
che arrivano in terapia non hanno interiorizzato i limiti,
non solo in quanto a regole di comportamento, ma proprio come
limiti corporei. L'io corporeo è la prima struttura,
il primo contenitore, che deve essere abbastanza strutturato
e resistente per poter permettere il contenimento e lo sviluppo
di un io psichico forte.
E lo scrivere... il contenimento di un'esplosione, il trovare
forma al senso straripante. Non è la mancanza di senso
che porta il bambino in terapia: è l'eccesso di senso,
di sensorialità. Forse anche per la scrittura...
Nel primo libro lei cita una bellissima frase di James
Hillmann, che mi sembra essere la definizione perfetta della
poesia, quando dice che la mente del bambino è "delirante
e insieme esatta". Quanto i bambini le hanno insegnato,
nella scrittura?
Nell'esattezza, nel limite, nel contenimento
è possibile anche il delirio. La forma è dunque
un contenimento: se il bambino riesce a essere contenuto,
può finalmente esprimere il suo terrore senza nome,
lo può mettere in gioco, formare e riformare nella
relazione con l'altro le emozioni più sconvolgenti
che diventano condivisibili.
Condividere è anche il mio gesto, quando decido di
scrivere e pubblicare. Credo di fare attraverso la scrittura
quello che i bambini hanno fatto prima di me in terapia: il
bambino compie un processso di individuazione con il mio aiuto.
Poi però tocca a me, non posso lasciare cadere questa
esperienza. Devo riuscire a trovare la mia forma, per rimettere
in gioco ancora tutto il vissuto, che inizialmente il bambino
ha portato nella mia stanza di terapia come qualcosa di bizzarro,
insensato, dolorosissimo.
E' sempre questione di limiti interiorizzati, fino al limite
estremo: molti bambini parlano della morte. Poter mettere
in gioco, in scena, l'orrore, significa nel contempo esprimerlo
e contenerlo.
Alla fine, per lei come scrittrice,
il libro è anche un cammino di terapia. Con tutte le
precauzioni necessarie (perché un libro non è
mai una terapia in sé), il cammino personale che porta
al cammino di parole di un libro.
ettere insieme le varie
esperienze creative e trovare una strada verso l'aiutare
e l'aiutarsi: è il mio percorso di individuazione.
Ed è un cammino che ho dapprima fatto personalmente,
in una analisi junghiana. La scrittura è
il punto culminante di un processo molto lungo e
serio, al quale non sono arrivata per un piacere
intellettuale, ma per un bisogno doloroso e profondo.
Se è vero - come già detto - che si
lavora dove meglio ci si cura, mi rendo conto che
oggi avrei voglia di lavorare solo sulla scrittura,
per poter finalmente scrivere di me in prima persona.
Questo secondo libro aveva un'introduzione di una
decina di pagine dedicato alla mia storia, che nella
versione definitiva ho eliminato. Forse è
ancora troppo presto... |
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Concludendo: abbiamo proceduto toccando
i diversi versanti del suo lavoro, come raggi che convergono
verso un centro. Ma abbiamo anche raccontato la sua storia,
la sua biografia. Come possiamo far coincidere storia e cerchio?
Penso al processo di individuazione:
arrivare al sé, quanto di più nostro di più
personale di più intimo ci sia, la nostra forza il
nostro nucleo personale, quello che ci fa unici. Ecco, nel
processo di individuazione le due istanze procedono di pari
passo, un po' come un corpo che attraversa il tempo e diviene
sempre più corpo. Come in un intreccio, in un ordito,
formato da tanti fili da cui si tira a poco a poco il fil
rouge. E mai definitivamente. Come nel Mandala di Albarosa
(la bambina di cui parlo nel primo libro), il cerchio è
un gioco di colori cangianti, mobili. Dar forma proprio per
permettere alla forma di tras-formarsi e ri-trasformarsi fino
all'estremo limite. Perché solo quello che è
informe non può essere trasformato.
Entretien réalisé
par Pierre Lepori
Traduit de l'italien par Christian Viredaz
(c) LeCultur@ctif, janvier 2005
Page créée le 06.01.04
Dernière mise à jour le 10.01.04
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