«Le poesie di questa raccolta, frutto di un intermittente risorgere d’ispirazione, sono state scritte tra il 1999 e il 2010»: così esordisce Pietro Montorfani nella nota che accompagna il suo Di là non ancora (Moretti&Vitali), fresco vincitore del Premio Schiller d'incoraggiamento. Laconicamente, lasciando intendere – ma è un marchio dell’autore – uno o più sottintesi, ci fa presente che il volume propone il lavoro di undici anni: una ricerca profonda, sincera, e «intermittente» perché mai mossa dalla foga di produrre. Lenta, dunque; forse faticosa.
Queste poche parole offrono già diverse indicazioni sul Montorfani poeta, da ben distinguere (a mio parere) dal Montorfani direttore di «Cenobio» e in parte anche dal ricercatore e dal critico. Disporre oggi dei suoi testi in un unico volume – di fatto il suo primo, “vero” libro – è un’occasione nuova per entrare in un mondo che era stato solo tratteggiato dalle precedenti plaquettes edite da Valsangiacomo (Alla chiara fonte), Intuisco che ridi (2005) e Quasi un Hopper (2008). Direi persino un modo per rivalutarlo: le poesie delle due plaquettes, infatti, indipendentemente dalle loro varianti (anche strutturali), ritornano sì massicciamente in Di là non ancora (pochi i veri inediti), ma allo stesso tempo mostrano un’altra faccia, un altro spessore. Quella che in passato poteva sembrare una penna abile, distillatrice di piccoli ritratti impeccabili, è in realtà la voce di un poeta che vive e si evolve. L’ironia e la leggerezza a cui si era tentati di ridurre la scrittura di Montorfani diventano semplicemente – in questa nuova prospettiva – una delle tante patine in cui si declina l’esperienza umana, fatta anche di delusione, sorrisi «a denti stretti», nostalgia.
La poesia di Montorfani, lo dice bene Giancarlo Pontiggia nel risvolto di copertina, nasce «dall’osservazione della “realtà”»: una realtà che viene poi «trasmutata» attraverso una «retorica raffinatissima» (non tragga in inganno il superlativo: nulla di artificioso). E poco importa che io sia invece meno sicuro di come questo percorso porti «fino all’illuminazione felice, all’epifania trascolorante», soprattutto pensando al «diario americano» di Quasi un Hopper (che già dal titolo profuma di solitudine e rassegnazione). Importa invece, sempre con Pontiggia, che si è costantemente davanti a una poesia delle nuances, capace di darci accesso a un universo intimo, fitto di nomi (anche “infilzati” nella pagina, come succede con «Ilaria» in Volevi una poesia) e luoghi. Eppure – insisto – non si tratta (solo) di poesia occasionale o di piccoli omaggi (scompare ad esempio il titolo della sezione Dediche e ricordi di Intuisco che ridi): i nomi si proiettano sempre in un panorama più ampio. I non detti non nascondono (solo) piccoli avvenimenti o incontri, perché toccano situazioni comuni a tutti e si concedono a diverse sensibilità.
Quaranta poesie per quattro sezioni (di rispettivamente quindici, quattro, nove e dodici testi): Intuisco che ridi, Eroi, La dama di fiori e Quasi un Hopper. Sia la prima che l’ultima sono introdotte da una poesia programmatica, “in limine”, che potrebbe fungere da piccolo manifesto (la primissima, poi, così verbalmente sonora, non stupisce che sia piaciuta a Giorgio Orelli, che l’analizza in una densa Premessa; basti l’attacco: «Alla squilla secca del campanello»). E un titolo desunto da due versi di Piazza Collegiata (ultimo testo della prima sezione): «di là non ancora / ma presto». Certo, la posizione privilegiata conferisce all'espressione un altro peso (fisico e spaziale, ma anche allegorico e forse filosofico) rispetto a Piazza Collegiata, proiettandosi su altri testi: il (leopardiano) «di là» è per esempio immediatamente sottolineato dal «vetro opaco della porta» che separa chi da una parte ride e chi, dall’altra, intuisce la risata (l'io lirico); oppure nella distanza tra chi sa «che pochi cuscini, un péluche / e sobbalzi di luce / sono degni compagni di gioco» e chi no (ancora l'io lirico); o ancora nella separazione tra chi scrive e chi dorme (Come Živago). La rappresentazione di chi scrive, del resto, è un altro tema importante per Montorfani, al centro del secondo testo programmatico (l’aperturadi Quasi un Hopper), dove chi scrive «potrebbe essere / quasi un Hopper, / una patina traslucida di interno / con un uomo seduto nel mezzo / nell’atto di scrivere» ; un'eco del citato Come Živago, due pagine prima, dove «Il fuoco è acceso, / al mio tavolo // scrivo e tu dormi // nell’unica stanza viva della casa» (che sembra ispirare anche la «casa pensata, ragionata / (un piccolo mondo design) / eppure indiscutibilmente viva»).
Non sorprende più di tanto, poi, come – pur mantenendo una forte coerenza stilistica – ogni sezione possieda tonalità e risonanze lessicali diverse. La prima, apparentemente più ironica, con punte satiriche (come in Il giorno dei morti, dove «Invece di Santi si pregano zucche»; o in Bellinzona, dove «So di essere a casa se chiedo / un giornale italiano e mi guardano / senza capire...»), e molto sonora (fino all'eccesso dei «riccioli biondi imbizzarriti»), spesso costruita con accumulazioni («scure più del mondo quando è notte / senza stelle in cielo»), pare da questo punto di vista in netto contrasto con la seconda, Eroi, che è una suite impegnata, quasi poesia civile, dove non mancano rabbia, provocazione, volontà di cambiamento e rivalsa («Ci diranno che il nostro non è più / tempo di eroi ma lo diranno male»; «le ultime parole / del mondo, le prime di una nuova era»), fino al grido (incipit del terzo testo) «Questa io chiamo dignità, questo / sostegno vicendevole e sincero, / questa speranza nella vita vera». L’autore cerca di attenuare nella sua nota, spiegando che la sezione, «ambientata tra le mura medievali del Castelgrande di Bellinzona, era stata pensata per una celebrazione nazionale che non ebbe mai luogo», ma la portata dei versi è inevitabilmente maggiore (e l’interpretazione suggerita si rivela presto troppo stretta).
Vi è poi la sezione intitolata La dama di fiori, un piccolo canzoniere (affiorano, qua e là, Petrarca e Dante stilnovista, quest’ultimo persino chiamato in causa da una voce femminile: «Dante è bellissimo») che gioca – in un tripudio di capelli, come già notato in passato – con la tradizione poetica italiana (si legga anche solo Così gentile per farsi un’idea; e del resto Montorfani non è nuovo a simili confronti: si pensi alla poesia L'ultimo modello (all'amor cortese), presente in Intuisco che ridi e scartata per Di là non ancora). Anche in questo caso, la sezione sembra in netto contrasto con la malinconia dell'ultima, Quasi un Hopper, organizzata attorno a nomi propri (che fungono da titolo) affiancati da località americane (impaginate come fossero dediche, rovesciando in un certo senso la consuetudine). Qui sta la «storia certo un po' triste / [...] però bella da raccontare» e il viso con «un'aria malinconica e sincera / agli occhi un'espressione / triste-gentile» (l'autore sembra amare gli accoppiamenti: oltre a «triste-gentile» troviamo, lungo la raccolta, il «tavolo-bancone di cucina», la «nave-città», e recupererei anche il gioco di Federica «nascondere-cercare»); qui l'io lirico sorride «a denti stretti» e «La bambina che un tempo costringevano / a fare la spia ora piange / nella furia dei vent'anni. // [...] una cieca / creatura d'abisso senza pace»; e sempre qui i testi si appesantiscono di desideri quasi grossolani («lo vorresti tuo il bar latino / in questa quasi Parigi d'overseas») e solitudini, nostalgie («È il mare che ti manca?»). Se non fosse per il contesto scherzoso della poesia che lo contiene (Affinità), troverebbe senz'altro asilo in questa sezione il «bronto» che non riesce a fuggire il suo destino: «sta attento, ma ad ogni / passaggio sradica piante, / rotola massi».
Forte coerenza stilistica, dicevo: la voce di Montorfani si sente in ogni verso. Affonda le sue radici nelle nuances e negli istanti vitali, dove si sente più sicura; ma si rivela anche attraverso brevi scatti nervosi, più cupi, come la «bimba che corre vivace e poi / frana sulle scale», e tanti anni dopo si ritrova ancora quel «piccolo segno» su una palpebra, che tanto ricorda (e a proposito di coerenza: si va da una parte all'altra della raccolta) il «tatuaggio che parla di un figlio / non ancora nato»: «Non ricordi ma segni / di cose sperate».
Yari Bernasconi
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