Pietro De Marchi
Replica, Bellinzona, Casagrande, 2006
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Pietro De Marchi /
Replica
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ISBN 8877134704
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Qui e non altrove
Che importa a questo punto
che in fondo al corridoio una finestra
inquadri tutto quanto il Resegone
e non come talvolta un disadorno
cortile d'ospedale? Eppure ha un senso
vederti proprio qui e non altrove, pensare
che il tuo viaggio, se termina, è qui,
accanto a questo grande
dipinto naturale.
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Pietro De Marchi inscrit son deuxième
livre dans la continuité de sa première oeuvre
de création, le Parabole smorzate. Son nouveau
recueil propose une poésie cultivée et formellement
très soignée, dans ses aspects sonores notamment.
Entre autres nombreuses traces et souvenirs, on y trouve
la présence de Giorgio Orelli et Neri, figures essentielles
pour De Marchi. Fabio Pusterla le compare à un tennisman
imprimant à la balle un effet subtil, mais avec un
sourire modeste qui dissimule l'habileté du coup.
Yari Bernasconi souligne de son côté la responsabilité
que l'on assume en se connectant explicitement à
la plus haute tradition poétique qui soit (à
travers Dante et d'autres), toute en insistant sur une dimension
sincère de cette poésie, qui ne tombe pas
dans le piège d'une littérature référentielle
et uniquement formelle, et sait aussi trouver la simplicité.
Ce deuxième recueil ouvre en outre de nouvelles perspectives:
la poésie se mêle ici à une prose fluide
et rapide, pas nécessairement lyrique, et des traduction
par De Marchi de textes d'autres poètes prennent
une place significative, revendiquant la nature fondamentalement
littéraire et créative de la traduction de
poésie. Un geste qui prend plus de sens encore si
l'on pense au nom de ce nouveau recueil, Replica.
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Pietro
De Marchi, Replica (Yari Bernasconi) |
S'incomincia col botto di due vigorose
citazioni: "Or qui t'ammira in ciò ch'io ti
replico" (Paradiso, VI, v. 91), parafrasabile
in "ma ora dovrai meravigliarti per quello che io dirò
in contraddizione con ciò che ho detto prima (è
questo il senso di replìco)" (Chiavacci),
e "[
] tu stesso sei lo specchio e la replica
/ di coloro che non raggiunsero il tuo tempo / e altri saranno
(e sono) la tua immortalità sulla terra" (Borges,
Iscrizione su qualsiasi sepolcro). Così, la
Replica di Pietro De Marchi s'inserisce immediatamente
nella scia delle parole di Giustiniano, che sono parole
della Commedia, della nostra più alta tradizione
letteraria, non senza, però, evidenziare - con le
parole di Borges - una certa "coscienza" della
replica, che a sua volta implica una certa, inevitabile
responsabilità.
Conoscendo l'ironia e l'arguzia del poeta, non bisogna credere,
davanti al titolo della prima sezione, Di luoghi e di
tempi, che De Marchi strizzi l'occhio ai giochi grammaticali
dell'Eterno imperfetto di Giovanni Orelli (che su
questi effetti ludici fondava l'intero impianto della raccolta).
Sono due dimensioni ben diverse: i "luoghi" e
i "tempi" di De Marchi sono quelli che portano
dritti dritti agli Spaesamenti della seconda sezione
e alla confusione (fusione) della terza: Cose reali,
fantastiche. Poi, come se il collegamento fosse naturale
e lineare, una sezione di Generazioni, a cui seguono
Per giocare a nascondino e L'estate. C'è
molto, insomma, nella raccolta, e tutto è affrontato
con grande varietà stilistica (i Cambi di marcia
della poesia d'apertura), perché lo stesso "viaggio
contempla / ampi tratti in pianura, autostradali / ma anche
strettoie repentine, curve / a gomito, una serie infinita
di tornanti, / poi rampe ponti sottopassi tunnel":
si deve saper/poter replicare a ogni variazione e a ogni
soggetto.
Rispetto a Parabole smorzate, l'aria che si respira
in Replica appare più inquieta, più
amara. Gli avvenimenti vengono a cozzare, i contrasti -
reali e concreti, per quanto assurdo possa apparire - ci
lasciano inermi di fronte a noi stessi: quando si propaga
la notizia delle esplosioni nella metropolitana di Londra,
"c'è chi arriva solo ora e non sa niente, /
si siede, dà un'occhiata alla carta, poi ordina /
vino bianco e prosciutto col melone". Allo stesso modo,
il presente può confrontarsi col passato, con esiti
imbarazzanti: Attraversando la Polonia, per esempio,
quando rosseggiano "lontani i campanili di Cracovia"
(Primo Levi, in esergo), "Non c'è quasi il tempo
di accorgersi che siamo a O. / Case, antenne paraboliche,
come altrove" (ed è una poesia pronunciata stretta
fra i denti, con un punto nerissimo alla fine di ogni verso).
"Quasi", però: del Lager evocato in Promemoria
da un luogo di betulle, infatti, "niente più
cancella quei capelli / tosati, quegli occhiali di metallo,
/ quelle povere scarpe color polvere: / quello che non fu
cenere, né fumo".
Ma è la prosa, che comincia con la seconda sezione,
la grande novità di questo libro. Intercalata alla
poesia, è una prosa fluida, veloce, "non necessariamente
lirica", come affermato dallo stesso De Marchi. Spesso
una prosa secca, che ci mette in discussione, descrittiva
in modo quasi doloroso. Ne escono ambienti malinconici,
in cui personaggi della storia recente si susseguono nella
loro semplicità: dalla Displaced Person di ritorno
"dalla Germania, alla fine della guerra", alle
avventure del nonno paterno Bortolo Giovanni ("l'aveva
raccontato a suo figlio, e nostro padre a noi"), imbarcatosi
a Le Havre per raggiungere Centerville, Iowa ("Forse
lo zio Vincenzo, che era più vecchio di mio padre,
sapeva altri particolari del soggiorno americano del nonno.
Perché non glielo abbiamo mai chiesto?"), alla
nonna che "traffica con le pentole e mi canticchia:
La barchetta in mezzo al mare / è diretta a Santa
Fe", all'uomo "calvo" e alla "donna
gonfia ma non incinta che si parlavano sotto una pensilina
anche se non avevano più nulla da dirsi". Il
botta e risposta prosa versus poesia continua fino alle
ultime due sezioni, dove sopravvivono solo due testi non
in versi (Su una fotografia di ignoto e il dialoghetto
Le rondini di San Rossore), e forse la tensione cala
leggermente. Da segnalare, però, in Per giocare
a nascondino, diverse traduzioni (Lamartine, Apollinaire,
Spescha e Famos) e una versione latina della poesia Verso
Marina di Parabole smorzate, curata da Valentino
De Marchi.
Per arrivare a una conclusione, comunque, rimangono due
nomi - segnalati con vigore da Fabio Pusterla nel suo breve
ma più che incisivo commento sul risvolto di copertina
- da fare: Giorgio Orelli e Giampiero Neri. Quanto alla
lezione del primo, bisogna ribadire che la si respira in
ogni pagina di Replica (gli esempi sarebbero moltissimi:
dal "Mein Mann... ist... vermisst" di Variazioni
su un tema antico, a un attacco come "Chissà
chi è quello che si sbraccia e mi fa segno / e correndomi
incontro con la furia", di Su un sosia), soprattutto
nelle controllatissime ragnatele di suoni. Vanno, però,
sottolineate le intenzioni di questa poesia, che non resta
fine a se stessa: c'è una speranza che va ben al
di là dello stile, della forma. Una ricerca che coinvolge
solo in minima parte questi aspetti e che, riportandoci
quasi esplicitamente al "viaggio" di cui si diceva
in Cambi di marcia, sembra esplodere nell'ultima
poesia della raccolta, Come l'acqua:
Quel giorno che qualcuno mi spiegò
che l'acqua trova sempre la sua strada
(le vasche del giardino disegnavano
un arduo labirinto)
cominciai a sognare d'essere acqua
anch'io: oh, traboccare, tracimare,
e come l'acqua andare verso il mare.
Yari Bernasconi
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Due
domande a Pietro De Marchi (Yari Bernasconi)
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Pietro De Marchi, commentando
Replica lei ha scritto che nella raccolta "c'è
una non timida apertura del linguaggio poetico verso altri
modi di scrittura letteraria: la prosa (non necessariamente
lirica), il dialogo". Mi sembra un aspetto molto interessante
questo suo sforzo comunicativo, questo tentativo di raggiungere
diversi spazi e registri linguistici: cosa l'ha portata
a una soluzione del genere? E dove intende arrivare?
Non parlerei di "sforzo
comunicativo", piuttosto di naturale desiderio di comunicare,
anche se in letteratura, e in misura ancora maggiore nel
campo della poesia, molto si basa sul rapporto tra detto
e non detto. In qualche caso, ad esempio parlando di fatti
storici sconvolgenti, come quello a cui si allude nella
poesia intitolata Promemoria da un luogo di betulle,
la discrezione e il pudore ci vietano di essere troppo espliciti.
Venendo alla sua domanda, non saprei dirle se qualcosa di
particolare mi abbia condotto a questa apertura verso la
prosa e il dialogo. Nel corso degli anni ho scritto alcuni
versi e alcune prose narrative, e a un certo punto ho sentito
che si potevano mettere insieme per farne un libro omogeneo.
La mescolanza tra poesia e prosa, del resto, ha una lunga
tradizione nel Novecento, anche italiano. E uno dei libri
che senz'altro hanno molto contato per me, intorno ai vent'anni,
quando si fanno letture decisive, è stato L'artefice
di Jorge Luis Borges, che appunto è un prosimetro.
Ma per quanto riguarda le mie prose, le posso confessare
che alcuni pezzi di Replica sono frutto dell'ammirazione
per scrittori come il Meneghello di Pomo pero, il
Bufalino di Museo d'ombre, il Parise dei Sillabari.
L'ideale sarebbe arrivare al teatro e al racconto o al romanzo,
senza perdere la densità espressiva che connota il
linguaggio poetico. Penso al geniale percorso attraverso
i generi letterari compiuto a suo tempo da Manzoni. Naturalmente,
Manzoni è un gigante; noi tutti al confronto siamo
nanerottoli.
La sezione Per giocare a nascondino
ospita delle sue traduzioni da Lamartine, Apollinaire, e
dai romanci Flurin Spescha e Luisa Famos. Chiude la sezione,
invece, una traduzione latina di Valentino De Marchi del
suo Verso Marina di Parabole smorzate ("Rischia
grosso il ramarro maremmano..."). Quale è l'importanza
di questi testi all'interno della raccolta? E, allargando
l'orizzonte, quanto sono importanti e cosa rappresentano
per lei la comunicazione e il confronto con l'eredità
letteraria delle diverse culture a cui può attingere?
Quale sia l'importanza delle versioni
poetiche all'interno di una raccolta intitolata Replica,
mi sembra evidente. Si tratta di ridire a modo nostro cose
già dette da altri e che ci sono piaciute. Se si
vuole, è anche un modo per "giocare a nascondino",
appunto, celandosi in parte dietro le parole degli altri.
Flurin Spescha era un mio coetaneo, e l'ho conosciuto personalmente.
Era stato anche compagno d'università di mia moglie,
a Zurigo, e io avevo letto con interesse le sue prime pubblicazioni.
La sua morte improvvisa, come quella di altri amici troppo
presto partiti, mi colpì moltissimo, così
come mi colpì poi, nel suo volume postumo, quella
poesia, Anatomia, che ho voluto tradurre per ricordarlo.
Quanto alla presenza della traduzione latina di una mia
poesia già compresa in Parabole smorzate -
anche questa è una forma di "replica",
no? -, non posso che ripetere quanto ho già scritto
nella nota finale del libro. Volevo rendere omaggio a mio
padre, che - gareggiando con le belle traduzioni tedesche
di alcune mie poesie fatte da Christoph Ferber -, si è
divertito a trasportare in latino (e a migliorare!) una
decina di miei testi. Mio padre è una persona molto
colta e di grande discrezione. Le poche cose che ha pubblicato
sono sempre dovuto andare a cercarle nelle parti più
riposte delle sue librerie. Da un suo poemetto latino in
esametri, intitolato De numeris, e pubblicato nel
1966 su "Latinitas", avevo tratto un verso (Silva
fuit, nunc rara manent dumeta vepresque) da cui ero
partito per scrivere uno scherzetto sulla calvizie che ci
accomuna (lo si legge in Parabole smorzate). Ora
la replica va nella direzione opposta: dall'italiano
al latino, retrocedendo nel tempo. È bello pensare
di appartenere alla letteratura latina, sia pure fuori tempo
massimo. Ma non è la prima volta che capitano fatti
del genere. Senza scomodare Petrarca, che aveva tradotto
in latino una novella di Boccaccio, le ricordo che Fernando
Bandini aveva tradotto in latino La bufera di Montale,
e che Montale apprezzò la versione di Bandini tanto
da volerla inserire nella seconda edizione del suo Quaderno
di traduzioni.
La tradizione letteraria è tutto: è ciò
da cui si parte e ciò a cui si vorrebbe arrivare,
nel senso che l'ambizione più onesta di chi scrive
è di entrare a far parte della letteratura universale,
fosse pure con una sola poesia o un solo verso memorabile.
La tradizione è in primo luogo quella legata alla
propria lingua, e noi italofoni siamo parecchio fortunati
perché possiamo leggere nell'originale la Commedia
di Dante e, per venire all'oggi, la poesia di Zanzotto o
di Giorgio Orelli. Ma, nei limiti delle conoscenze, anche
linguistiche, di ciascuno, è chiaro che la letteratura
è qualcosa di universale, è un "patrimonio
dell'umanità", come direbbero negli uffici dell'Unesco.
Possiamo sperare di attingere alle più disparate
fonti. Un poeta che sto cercando di studiare per benino
in questo periodo, ad esempio, è l'irlandese Seamus
Heaney. E mi fa piacere che nel suo ultimo libro, uscito
proprio quest'anno, District and Circle, ci siano
poesie e prose. Siamo in buona compagnia, insomma.
Yari Bernasconi
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Revue
de presse |
[...] E proprio dal titolo vale la pena di partire, per
cogliere innanzitutto, con il suo primo e più ovvio
significato, il senso di una continuità, di una fedeltà
con le quali De Marchi ripropone il suo personale cammino
attraverso la migliore scrittura poetica contemporanea:
come il libro precedente, anche la Replica ci offre
testi controllatissimi, raffinati e insieme leggermente
giocosi, irti di voci che vengono da lontano, dalla tradizione
più alta e più illustre, eppure apparentemente
scorrevoli e ospitali. Chi ha scritto queste poesie non
ha nessuna intenzione di stupire i suoi lettori usando le
maniere forti o lo spettacolo pirotecnico, a cui continua
a preferire l'arte di smorzare la palla, con un sorriso
modesto che dissimula l'abilità del tocco. Replica
varrà allora come conferma, caparbia riproposta di
una misura del dire che è anche misura dell'essere,
del far fronte alla vita e alle sue sorprese con fermezza
ma senza drammatizzazioni teatrali: con la svagata fermezza,
si potrebbe forse dire, di chi ne ha viste troppe per farsi
soverchie illusioni. E poi le cose sono sempre molto più
complesse e imprevedibili di come pensiamo, aggiungerebbe
probabilmente De Marchi [...]. I piani si sovrappongono,
le scene si confondono, i punti di vista si mescolano: la
pista delle parole conduce De Marchi sempre lontano dalle
certezze assolute e dalla stasi; ogni cosa, in questa
poesia, si muove e slitta verso qualcos'altro, e in tal
modo ogni dettaglio rinvia al quadro più ampio e
indefinibile dell'esistente, la cui percezione si fa tanto
più lancinante quanto più chiara risulta l'inafferrabilità
del tutto. [...]
Il non detto, insomma, è parte integrante della scrittura
di De Marchi (come di ogni vera scrittura poetica); ma se
all'inizio, all'altezza delle Parabole smorzate,
si poteva ancora credere che non dire compiutamente, bensì
alludere, fosse una scelta prima di tutto stilistica, un
atteggiamento estetico e culturale dell'autore, di fronte
alle pagine di questo nuovo libro non ci sono più
dubbi: l'indicibilità è un effetto del tempo
e della storia, e il non poter dire si trasforma in una
condizione esistenziale e persino politica che riguarda
tutti. [...] Appare qui il secondo significato del titolo,
che manifesta ora un'altra idea, quella della ripetizione
quasi inane, insensata, in cui ogni vita individuale e ogni
generazione s'impegna prima e sprofonda poi, salvo sopravvivere
per un poco in forme grottesche, in mediocri repliche
museali che nulla trattengono della verità per
sempre travolta. Forse a qualcosa di simile pensava quasi
cent'anni fa Camillo Sbarbaro, attraversando la città
di notte: "io sento dietro le pareti sorde / le generazioni
respirare". Certo la Replica di Pietro De Marchi
è un libro in cui la luce più splendente sembra
provenire da ciò che scompare o è già
scomparso: persone, paesaggi, ricordi, incontri occasionali
che per un istante hanno fatto balenare qualcosa, subito
inghiottito dal gorgo.
Libro, in questo senso, dolente, che neppure dietro il sorriso
divertito riesce quasi mai a nascondere il rimpianto; libro,
anche, in cui si annodano almeno due alte lezioni poetiche.
La prima, come sa bene ogni lettore di De Marchi, non può
che essere quella di Giorgio Orelli, qui presente in mille
modi: nella composizione chimica del linguaggio, si vorrebbe
dire, nella citazione diretta, e nel richiamo implicito,
che fa da sfondo, a quelle sue sinopie "(
) /
traversate da crepe secolari ". La seconda, meno ovvia,
potrebbe invece ricondurre alla figura di Giampiero Neri,
che appunto all'impossibile ricostruzione memoriale del
passato ha dedicato gran parte del suo lavoro e delle sue
riflessioni. Ma si potrebbe anche dire, a questo proposito,
che De Marchi rappresenta nella sua opera un duplice assedio
che minaccia noi tutti: quello orchestrato dal Tempo e l'altro,
anche più subdolo, capitanato dalla Storia. In una
simile precarietà, suggerisce De Marchi, privi di
difese e di certezze, possiamo solo spalancare gli occhi
su quel tanto di luce che ci è dato vedere, resistere
"con tatto e cortesia" (come le ombre parigine
ritratte in Pour prendre congé), e "come
l'acqua andare verso il mare", seguendo il verso bellissimo
che chiude il volume. O almeno tentare di farlo.
Fabio Pusterla
16.12.06
Page créée le: 19.12.06
Dernière mise à jour le: 19.12.06
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