En bref et en français - Kurz und deutsch
Che cosa sia Tempi supplementari di Grytzko Mascioni, uscito l'anno scorso da Bompiani, postumo, a cinque anni dalla morte dello scrittore valtellinese, lo spiega approfonditamente e con affetto il suo amico Ernesto Ferrero, nella prefazione: «È il racconto di un trapianto riuscito, delle diagnosi infauste e delle angosce che lo hanno preceduto, del riserbo con cui è stato vissuto, di un lento ricupero, infine dei “tempi supplementari” conquistati a duro prezzo». Una testimonianza voluta dallo stesso Ferrero, che, intorno al 2002, invitò Mascioni a «raccontare la sua navigazione nei mari estremi tra la vita e la morte».
Il testo, per stessa ammissione dell'autore («dopo molte esitazioni, l'ho scritto in fretta e credo si senta»), non ha grandi pretese letterarie, ma ci permette - pur con tutte le attenzioni del caso - di conoscere un po' più a fondo chi, non dimentichiamolo, ha vinto il Gran Premio Schiller nel 2000, un personaggio quantomeno singolare nel panorama della letteratura svizzera, e un uomo dalle mille risorse e dalle multiformi ispirazioni: poeta, romanziere e biografo, saggista, drammaturgo, giornalista, traduttore e, soprattutto, viaggiatore (molti i paesi in cui ha vissuto e in cui ha lasciato, in un certo senso, il segno; si pensi solo alla sua esperienza di direttore dell'Istituto Italiano di Cultura di Zagabria, dal 1992 al 1996). Senza dimenticare l'esperienza trentennale alla Televisione svizzera di lingua italiana, di cui è stato co-fondatore e instancabile animatore (in Tempi supplementari , parlando di chi era stata sua segretaria, ricorda «quando mi lasciavo ancora prendere dalle avventure televisive con le quali avevo sperato di oppormi, fiction e non-fiction , al germinare di una trivialità che in nuce già preludeva ai suoi trionfi planetari»). Un'esistenza, insomma, movimentata e avvincente, come sottolineava, il 12 settembre del 2003, il suo famoso auto-necrologio: «A cose fatte, Grytzko Mascioni avverte amici e conoscenti di non esserci più. A chi gli ha voluto bene assicura che la vita che si è lasciato alle spalle è stata così ricca e avventurosa che a dispetto di ogni guaio, ostilità o noncuranza, non vale compiangerla». E un'esistenza dedicata alla scrittura, o, meglio, un'esistenza che nella scrittura ha trovato un rifugio e una spalla. Che fosse un'opera imponente come Puck , probabilmente il suo romanzo che - insieme alla biografia romanzata dedicata a Saffo, Saffo di Lesbo - ha avuto maggior eco, o un libretto di poesie tradotte in croato, o un racconto inedito, un frammento abbozzato sul bloc notes di una camera d'albergo, lo scrivere - anche per pochi minuti - ha sempre rappresentato una via, una salvezza trasversale; anche nel dramma precedente ai “tempi supplementari”, Mascioni scrive: «Secernevo scrittura come una lumaca fa con la sua scia argentata, la traccia nera che lasciavo sul foglio portava con sé la registrazione del riemergere degli istanti fuggiti nella cloaca del nulla. Ma che, assumendo il colore della vita, mi smemoravano dell'incombere della morte».
Per tornare al libro, Tempi supplementari è una costruzione equilibrata, la cui divisione interna segue l'incedere del racconto-resoconto: quattro parti distinte, legate ai vari momenti precedenti e successivi al trapianto ( Sotto il segno del Cancro , I giorni della Sfinge , Nel tempo dell'attesa , Anàbasi ) e un Congedo in forma di lettera destinata a Ferrero e datata «agosto 2003». Malgrado i toni pacati di Mascioni, però, la varietà degli stati d'animo che, in fondo, raccontano non solo la storia di un uomo, ma quella di tutti gli uomini, attraversano a ritmi incessanti il libro, tra istanti di paura, imbarazzo, rabbia, contrapposti all'amore, qui incarnato da Angela, la compagna, commovente nella sua perseverante presenza, «sempre illuminata di intatta grazia nativa», malgrado l'addensarsi di ombre maligne nello spirito e nel corpo, straziati dai ripetuti interventi e dalla sofferenza, che sembrano portare all'auto-cancellazione di sé: «Non mi sono riconosciuto più. L'orrore della decomposizione del ritratto di Dorian Gray non era più un'angoscia confinata nell'area protetta di uno spazio letterario, era la realtà di una peste che mi straziava il viso e arrestava il battito del cuore». E, ancora, in contrasto con l'amicizia: non quella gridata e accompagnata da fanfare; quella silenziosa, che sembra spingere le persone a capirsi con pochi sguardi. Non stupisce che Ferrero parli, al di là della vicenda e «dei suoi aspetti medici e clinici, dei suoi risvolti esistenziali», di una «bellissima storia di amore coniugale», di «un romanzo a suo modo filosofico, di una filosofia, di un modo di sentire, vivere e porsi con gli altri che si traduce in comportamenti reali e fattivi».
L'ultima parte del libro che, come detto, consiste in una lettera indirizzata a Ferrero e scritta poche settimane prima di morire, lascia un'ultima, toccante impronta. Perché non finire così anche noi? «Mi basta sentire di là qualche rumore per dirmi che Angela sta trafficando in casa, che lei c'è e che di qua, a due passi, ci sono anch'io. Quanto durerà non so, ma credimi, Ernesto, se qualche volta ho avuto paura pensando al domani, ora non ne ho più. La vita, vedo, è stata bellissima. E forse è bella perché in pericolo è sempre, e quello che ho passato mi insegna a dimenticare anche gli altri guai che ci annoiano e ci turbano e che nessuno ci risparmia. Intanto ci siamo, non è vero?».
Yari Bernasconi
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