Fabio Pusterla
Folla sommersa, Marcos y Marcos, 2004
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Fabio Pusterla
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Fabio Pusterla
/ Folla sommersa |
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Perché vivere qui? chiede
ogni voce
che ammira sgomenta la nostra rovina. Perché
insistere
in una lotta assurda, in una sfida
ormai priva di senso? Anche questo,
anche questo dunque ci vorreste levare,
ipocriti compagni di disastro.
Qualcosa preme verso il basso,
schiaccia l'orizzonte e morde i giorni: fiumi che
si gonfiano e spazzano via il paesaggio, franamenti,
anonime tragedie quotidiane. La storia, umana e inumana,
la cronaca impietosa, il ricordo e l'oblio si affrontano
sotto un cielo plumbeo, pesante.
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Come un coro sommesso, molte
voci si levano dal disastro contemporaneo, corpi sfiniti
si alzano in piedi, guardano verso l'alto, verso le
nuvole che a tratti si squarciano, anche solo per
un istante. Appare la vastità di uno spazio,
un po' di forza. Una speranza, forse, come il volo
di due alianti sopra Lione, il respiro profondo dei
nostri anni disorientati. Lo sguardo misterioso di
un animale, la corsa a perdifiato di un bambino: oggetti
quasi stellari, presenze.
La poesia, in questo nuovo
libro di Pusterla che assume il tono di un ampio recitativo,
cerca il suo cammino faticoso in mezzo alla folla
degli esseri umani: volti senza volto, non ancora
del tutto sconfitti, fantasmi della memoria che perdurano,
occhi sbarrati, mani. Le parole cercano la materia
delle cose, la luce che rade il mondo e lo rivela,
l'eco di un canto forse impossibile a cui non possiamo
rinunciare.
Fabio
Pusterla, considerato uno dei più significativi
poeti italiani contemporanei, è autore di Concessione
all'inverno (Casagrande, 1985, 2001), e, presso Marcos
y Marcos, di Bocksten (1989, 2003), Le Cose
senza storia (1994), Pietra sangue (1999).
I suoi libri sono tradotti in numerose lingue europee.
Oltre all'opera poetica, è autore di saggi,
edizioni critiche e traduzioni, soprattutto dal francese.
Ha curato l'antologia di poesia francese Nel pieno
giorno dell'oscurità, e molte versioni italiane
di Philippe Jaccottet.
Folla sommersa, Marcos y Marcos,
2004
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Intervista |
Fabio Pusterla risponde alle domande
di Pietro De Marchi
Una delle ultime poesie di Folla
sommersa è intitolata "Sulla soglia dell'inverno"
e richiama alla mente il titolo del tuo primo libro: Concessione
all'inverno. Altri testi fanno pensare invece a Le
cose senza storia o a Pietra sangue. In che senso, dal
tuo punto di vista di produttore, percepisci una continuità
tra questo tuo ultimo libro e i precedenti?
Da qualche parte, dentro Folla
sommersa, ci dev'essere un breve appunto che parla proprio
di questo; cioè del fatto che il nostro sguardo ruota
quasi sempre, talvolta senza esserne cosciente, attorno
ad alcuni elementi fondamentali, minerali del simbolico.
Ognuno ha i suoi, naturalmente; per quel che mi concerne,
mi rendo conto adesso di essere sempre stato attratto da
alcuni aspetti della realtà fisica e di quella linguistica.
In questo senso, avverto senz'altro una continuità
tra questo libro e i precedenti; in fondo, ogni volta (cioè
ogni volta che un'esperienza di ricerca e di scrittura si
coagula in un libro) spero di essere riuscito a esprimere
meglio qualcosa che mi attrae e che mi sfugge, qualcosa
di cui mi sembra di avvertire l'importanza. E ogni volta,
dopo un certo periodo di tempo, mi sembra di non esserci
riuscito fino in fondo, e così mi rimetto a scrivere.
Siccome questo libro è appena uscito, in questo momento
ne sono ancora abbastanza soddisfatto, e posso persino credere
di aver ripreso parecchie cose che in passato avevo già
sfiorato, affrontandole con maggiore decisione, con maggiore
coscienza. Temo però che questa illusione durerà
poco.
In Folla sommersa il dialogo
che istituisci con altri poeti e scrittori, che possono
essere Manzoni o Hölderlin, Montale o Sereni, si risolve
quasi sempre in un rovesciamento delle loro affermazioni.
Da dove viene questo bisogno di confronto e di contraddizione?
Il bisogno di confronto con la grande
tradizione è inevitabile nella scrittura; se, come
capita nei testi a cui alludi, vengono apertamente citati
alcuni autori o alcuni versi, questo bisogno si manifesta
esplicitamente. Ma, in maniera implicita, esso è
presente in modo quasi costante, perché il linguaggio,
e soprattutto il linguaggio poetico, è un luogo stratificato;
noi crediamo di camminare sul terreno contemporaneo, eppure
ogni volta che posiamo il piede su una parola, su un'immagine,
riaffiora tutto il passato che si nasconde sotto la superficie.
Si potrebbe dire: la memoria e la coscienza individuale
del singolo autore hanno inevitabilmente dei limiti; ma
esiste anche una memoria insita nel linguaggio stesso, una
memoria impersonale e collettiva. Il linguaggio sa molto
più di quello che sa l'individuo che ne fa uso. Allora
quello che forse bisogna fare è agguzzare gli occhi,
cercare di rendersi sempre un po' più coscienti del
peso specifico di una parola.
Quanto al bisogno di contrapposizione:
può darsi che in parte questo riguardi una mia forma
mentis, che ha bisogno del contraddittorio per mettersi
in moto. Ma c'è anche la sensazione che tra la grandezza
del passato (qui, supponiamo, Hölderlin, o Vittorio
Sereni) e la miseria del presente non possa più esserci
comunicazione diretta. Qualcosa forse si è definitivamente
spezzato, e se noi possiamo ancora leggere quei grandi testi
che ci affascinano, non possiamo impedirci di avvertire
una distanza lancinante.
La tua è una poesia dello
sguardo e dell'ascolto (penso in particolare ad alcuni versi
di un testo come "Lo splendido grido del gufo"),
ma è anche una poesia della pietas e della memoria
(e qui penso ad esempio a un testo come "Il signor
Nino"). Ci sono, a tuo giudizio, delle affinità
tra il lavoro del poeta e quello dello storico?
Ci sono delle affinità, ma
soprattutto delle differenze. Tutto sommato, mi sembra ancora
molto convincente l'affermazione di Alessandro Manzoni:
la poesia può percorrere piste analoghe a quelle
della storia, ma il suo compito è diverso: deve dar
voce a ciò che la storia non può dire.
Folla sommersa è
un libro folto di uomini e di donne, di vecchi e di bambini,
di vivi e di morti. Ma è anche un libro di piante
e di animali. Qual è la "lezione" che possiamo
imparare da questi nostri coinquilini del pianeta?
Non so se si può parlare di
"lezione"; certo non sono molto capace di farlo
io. Però credo che ci si debba interrogare sul nostro
stesso sguardo: guardando (anche solo con gli occhi della
mente) un animale, o un bosco (quel che resta oggi di un
animale, di un bosco), cosa capita dentro di noi? Cosa significa
quel moto di simpatia, di attrazione, e contemporaneamente
quella sensazione di angoscia, di vertigine, talvolta di
nostalgia? Gettare lo sguardo al di fuori della dimensione
propriamente umana mi pare sia d'aiuto.
C'è una domanda che non
ti fanno mai e alla quale muori dalla voglia di rispondere?
No, non credo. Le domande e le risposte
fanno parte dei riti che accompagnano la scrittura, o meglio
la pubblicazione; sono riti a cui non ci si può sottrarre,
e che come tutti i riti hanno un significato e un valore
evidenti. Ma se uno scrive, di solito non muore dalla voglia
di rispondere alle domande, che per forza di cose spostano
il discorso su un piano diverso da quello della scrittura
poetica. Nonostante quello che dicevo nella prima risposta,
lo scrittore non può sfuggire all'illusione di aver
detto tutto quello che poteva dire nella sua opera. E in
un certo senso, ogni domanda che gli viene posta suggerisce
il contrario.
Pietro De Marchi
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Revue
de presse Folla Sommersa |
Penso sia questo Folla sommersa
(
) il più bel libro di Fabio Pusterla, poeta
che, ottimo nelle prime prove, ancora si migliora. Sarà,
questa, lettura parzialissima: una sorta di quelle cartine
che si danno a chi fa una corsa di orientamento: si indicano
pochi punti "obbligati" , il resto è un
fài da te, arràngiati. a) Negli Appunti della
luce e della sabbia, una sezione del libro, e sono appunti
" in prosa " , si legge, p. 119: L'ondeggiare
della polvere, in controluce. Pulviscolo di consonanti in
una scia di vocali. b) Il giuoco di consonanti e di vocali
si fa tessuto fitto, come un tappeto con suoi nodi, un po'
ovunque. Vedi la poesia di p. 34, variazioni su ali. c)
Dal pulviscolo di vocali e consonanti, ai ritratti. Scelgo,
uno per tutti, il Ritratto bovino di p. 87, dove la vacca
che tenta invano di sottrarsi al convoglio verso il macello,
la vacca che fra poco soccomberà, che ( parola ultima)
muggisce, non muggisce di un muggito solo suo, muggisce
per te, per noi. Come in quella che è forse la più
bella poesia di Montale, la Ballata scritta in una clinica,
" l'ululo del cane di legno è il mio, muto "
(
) Per saperne di più, aiutano, tra altre,
le pagine per Pusterla di Pietro De Marchi, Uno specchio
di parole scritte, da Parini a Pusterla, da Gozzi
a Meneghello (Cerati. Firenze, 2003, pp. 125- 132) e
di Mattia Cavadini (Il poeta ammutolito, Marcos y
Marcos, Milano, 2004). I due con rimandi bibliografici non
avari.
Giovanni Orelli
Questo nuovo libro di poesie di Fabio
Pusterla, (
) valorizza e consolida quelli che riconosciamo
ormai (si veda il precedente Pietra sangue, 1999)
come i filoni tematici più ricorrenti della personale
produzione poetica. Motivi che, investendo diversi livelli
d'esperienza attraverso modalità di scrittura adeguate,
convergono in gran parte verso la ricognizione dello stato
rovinoso del mondo in cui viviamo. Un degrado-disastro a
tutto campo, ecologico e politico, tanto per individuarne
schematicamente gli estremi, ma che sempre più spesso
sfugge alla comprensione razionale, essendo divenute gradualmente
illeggibili o semplicemente suscitando amaro stupore le
sue coordinate di senso. E ciò fors'anche a causa
di quei difetti incorreggibili della "macchina cosmica"
che Pusterla sembra oggi avvertire con maggiore preoccupazione
e affrontare con strumenti nuovi. (
) Il titolo della
raccolta (
) vuole privilegiare una tematica ben precisa,
quella dell'individuo alle prese con eventi che lo sovrastano,
schiacciato da forze non sempre incontrollabili, soprattutto
quando scaturiscono dalla violenza storica e dall'irresponsabilità
dei "potenti". Il caso di Paul Hooghe, "l'ultimo
lanciere caduto su nessuna spiaggia" durante la
prima guerra mondiale è l'emblema eloquente, narrativizzato
come di consuetudine per sapienti scorci di recitativo,
di questa "folla sommersa che ci guarda in silenzio
e ci attende".
Gilberto Isella
Ha detto una volta Philippe Jaccottet,
al quale come traduttore ha legato il suo nome Fabio Pusterla
(
) che per certi poeti la "preoccupazione
maggiore è quasi di arare il mondo visibile, di scavarlo":
nella speranza di "una ricchezza nascosta all'interno
delle cose visibili". (
) Di questi improvvisi
trasalimenti Pusterla è divenuto, negli anni, interprete
privilegiato: la sua parola si è data cioè
a interpretare quelle tracce dilavate e graffiate, a far
parlare Le cose senza storia (come s'intitola la terza raccolta,
del '94). (
) Non è un caso che tornino qui
(come già in altri libri di Pusterla), ambivalenti
allegorie sopraelevate, volatili. A parte il "caduto"
sereniano "alto sulle ali", ecco "scie
magnetiche (
), solchi forse stelle / non visibili,
vibranti / piccoli pipistrelli", "drosofile"
che "dal fondo della provetta" risalgono
"verso l'alto"; soprattuto si ergono memorabili
e terribili, Due aironi: che, nel rimettere in scena
un emblema già ambivalente nell'ultimo Antonio Porta,
danno forma agli odierni metallici voli apportatori "di
macerie /e trappole di fuoco, petrolifere, giustizie micidiali".
L'orizzonte del presente non è mai stato grigio come
in questo tempo di "notiziari /sguaiati, guerre
sante, rauchi pifferi"; e mai la parola di Pusterla
aveva mostrato ferite così urticanti. (
)
Andrea Cortellessa
Folla sommersa di Fabio Pusterla
è un libro ricco, sapientemente costruito, che segna
la maturità piena di uno dei migliori poeti in lingua
italiana di oggi. Da un certo punto di vista, questo libro
riassume le diverse aperture di poesia che Pusterla ci ha
offerto nei libri precedenti, con un di più d'ironia,
sorridente e subito tagliente, e una gamma ancora più
ampia di ipotesi tonali e formali. In queste poesie, i versi
alternano una prevalenza alla distensione, colloquiale,
senza punte espressive, a momenti di concentrazione, o contrazione,
sul punto dolente di un'immagine o di una riflessione. La
voce poetica è prevalentemente meditativa, ma stacca
improvvisa, trova il suo affilato crinale lirico nella vicinanza,
quasi compenetrazione, con il vivere dentro il tempo, con
gli animali, il paesaggio.(...) In questa vicenda della
materia e delle forme, sorpresi nello sforzo di staccarne
la propria individualità o di farne corpo fino a
mimetizzarsi, una moltitudine, una folla di vite, volti,
gesti, ognuno dentro il suo segmento di vita, ogni con una
parola propria e uno sguardo. Uno sguardo allarmato, a volte,
o perduto. Altre volte, e raramente, ma in una distesa tonalità
fraterna, che ci dà sollievo e speranza, uno sguardo
colmo di sintonia con la bellezza del mondo e della vita,
che ancora è capace di cogliere.
Gian Mario Villalta
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Poèmes
inédits |
Nous reproposons ci-dessous
les poèmes tirés de ce livre parus sur notre
site en tant qu'inédits en mars 04.
Le prime fragole
Strisci nell'erba bianca di margherite.
Sei vestito di rosso, hai una cuffia rossa in testa,
e nella mano destra un pelacarote che infilzi
nel terreno ancora molle di marzo, sempre avanzando
lentamente nel folto del prato. Sdraiato
sull'erba, con le margherite negli occhi. Sto scalando
l'Everest, mi dici. E anche le guance sono rosse di
gioia.
Strisciavi ieri nel tuo Everest
di margherite
e io ti guardo oggi nel ricordo e intanto ascolto
la radio
in attesa di notizie terribili, e tu continui a strisciare
felice
e la radio dice della bambina schiacciata da un panzer
a Gaza
tu prepari una pozione con piume d'uccello per imparare
a volare
io ti preparo le prime fragole rosse dell'anno e mi
chiedo se gli occhi
dell'uomo che guidava il panzer avranno capito.
***
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Les premières
fraises
Tu rampes dans l'herbe blanche
de marguerites.
Tu es vêtu de rouge, tu portes un bonnet rouge,
et de la main droite tu plantes un pèle-légumes
dans la terre de mars encore meuble.
Étendu sur l'herbe, des marguerites dans les
yeux. J'escalade
l'Everest, me dis-tu. Et même tes joues sont
rouges de joie.
Hier tu rampais dans ton Everest
de marguerites
je te vois aujourd'hui dans un souvenir et j'écoute
la radio
dans l'attente de nouvelles terribles, tu continues
à ramper heureux
et la radio parle d'une enfant écrasée
par un tank à Gaza
tu prépares une potion avec des plumes d'oiseau
pour apprendre à voler
moi je te prépare les premières fraises
rouges de l'année et je me demande si les yeux
de l'homme qui conduisait le tank ont compris.
***
|
Sera dei morti a Tübingen
Su ponti, attraversando
acque lentissime, anse
nell'incendio d'ottobre. Un salice
s'incurva, e questo senso
di vastità e d'angustia, un desiderio
fluviale, Lombardia o Svevia, la pianura
che chiama e annichilisce, travolta. Scorre al mare
distante ogni cosa, all'orizzonte
di nuvole veloci e trasmutanti. Ma sui ponti:
come pensare ai carri neri, al vortice
che li percorse sconcio? Eppure passarono di lì,
diretti a Judengasse. Nella torre
Scardanelli digrigna i denti, suona il piano, balbetta.
Lunghe automobili sfilano silenziose
nel paesaggio,
l'ubriaco si stappa una birretta.
La dolcezza di un fiume come
questo,
e il mistero dei platani; ma altrove
si squassa la terra, un paese
piange bambini morti. Che Begeisterung,
poeta, che superni? Come acqua
von Klippe zur Klippe geworfen: come acqua
che cade.
Poi esplode il palloncino.
Verde, portava scritto: Hölderlin. Non sale
lieve a nessuna stella in nessun cielo. Scoppia in
basso,
rimane fra di noi, come una smorfia
di Halloween.
***
|
Soir des
morts à Tübingen
Sur les ponts, traversant
des eaux infiniment lentes, méandres
dans l'incendie d'octobre. Un saule
se courbe, et de même ce sens
de vastitude et d'étroitesse, un désir
fluvial, la Lombardie et la Souabe, la plaine
qui appelle et pétrifie, emportée. Toutes
choses
s'écoulent vers la mer lointaine, à
l'horizon
des nuages rapides et changeants. Mais sur les ponts
:
comment penser aux chars noirs, à l'infâme
tourbillon
qui les a parcourus ? Pourtant ils passèrent
là,
en route vers la Judengasse. Dans la tour
Scardanelli grince des dents, joue du piano, bégaie.
De longues voitures défilent
silencieusement dans le paysage,
l'ivrogne ouvre une canette.
La douceur d'un fleuve comme
celui-là,
et le mystère des platanes ; ailleurs pourtant
la terre s'ébranle avec violence, un pays
pleure des enfants morts. Quelle Begeisterung
espérer, poète, quels êtres célestes
? Comme de l'eau
von Klippe zur Klippe geworfen : comme de l'eau
qui tombe.
Et le ballon explose.
Vert, et l'inscription : Hölderlin. Léger,
il ne monte
vers aucune étoile dans aucun ciel. En bas
il éclate,
reste parmi nous, comme une grimace
d'Halloween.
***
|
Dopo Trent'anni
Ti seguo da trent'anni mentre
vaghi cercando
non sai nemmeno cosa. Sono la luce
di un'esplosione lontana, il tuo sole di ghiaccio,
due occhi spalancati sulla magrezza di un male
che apriva certe porte, o prospettive di fuga.
Diversamente: era questo l'indizio,
la rifrazione del mio raggio sulla superficie del
mondo.
Voleva dire distruggere,
frugare tra gli scarti. Spossessarsi.
Voleva dire camminare con gli occhi bendati.
Ti seguo da trent'anni alta come
un rapace
con il mio becco duro di nibbio, la mia vista
che sa distinguere un topolino fra le rocce
o la tua traccia barcollante sui sentieri.
Ero nei sogni che non potevi ricordare.
Ero un grido prima dell'alba, una porta chiusa,
uno zigomo che affiora sulla pelle. Il volto folle
di un uomo
impiastricciato di sugo, pulsante. Ero il bagliore
di una vallata percorsa da un fiume, luccicante di
fuochi.
Ero un tumore e una stella.
E non potevi guardarmi: accecavo.
Adesso, guarda. Guarda il tronco
contorto di questi ulivi che si annodano
al terreno sassoso. Guarda il mare e la costa
incisa, e il vento scuotere
ogni ramo. È la mia ala,
non medica, ti porta, ti sostiene.
Fa quasi giorno, e un'ombra, la tua ombra
striscia tra i rampicanti e le prime formiche. Solo
un'ombra,
il poco che ti resta. La tua luce a rovescio.
Sono qui, per un istante
posata: a rincuorarti
e a toglierti ogni speranza. Non c'è pace
nel corso delle cose e dei corpi, ma una pace
diversa brilla ovunque e ci chiama. Se vibra
sopra l'acqua o sull'erba il soffio lieve
del tempo: ecco steli dispersi, sradicati, ed ecco
il turbine
leggero delle foglie che s'infiammano
e svaniscono. Guardami pure, adesso, non abbaglio.
Abbandonarsi e resistere, due fasi
identiche del sangue e del respiro, dell'inchiostro
e del foglio, come sai. Cammina, scrivi.
Fabio Pusterla
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Trente
ans après
Je te suis depuis trente ans
tandis que tu erres en cherchant
tu ne sais même pas quoi. Je suis la lumière
d'une explosion lointaine, ton soleil de glace,
deux yeux écarquillés sur la maigreur
d'un mal
qui ouvrait certaines portes, ou perspectives de fuite.
Différemment : c'était cela l'indice,
la réfraction de mon rayon sur la superficie
du monde.
Ça signifiait détruire,
fouiller parmi les déchets. Se déposséder.
Ça signifiait marcher avec les yeux bandés.
Je te suis depuis trente ans,
haute comme un rapace
avec mon bec dur de milan, ma vue
qui peut saisir une souris entre les roches
ou ta trace chancelante sur les sentiers.
J'étais dans des rêves dont tu ne pouvais
te souvenir.
J'étais un cri avant l'aube, une porte fermée,
une pommette saillant sous la peau. Le visage fou
d'un homme
barbouillé de sauce, palpitant. J'étais
la lueur
d'une vallée parcourue par un fleuve, brillante
de feux.
J'étais une tumeur et une étoile.
Et tu ne pouvais me regarder
: j'aveuglais.
Maintenant, regarde. Regarde le tronc
tordu de ces oliviers qui se nouent
au sol pierreux. Regarde la mer et la côte
entaillée, regarde le vent secouer
chaque branche. C'est mon aile,
elle ne soigne pas, elle te porte, te soutient.
Il fait presque jour, et une ombre, ton ombre
glisse parmi les ronces et les premières fourmis.
Rien qu'une ombre,
le peu qui te reste. Ta lumière à contresens.
Je suis là, posée
un instant : pour te rendre courage
et t'enlever tout espoir. Pas de paix
dans le cours des choses et des corps, mais une paix
différente brille partout et nous appelle.
Si le souffle
du temps tremble sur l'eau ou sur l'herbe :
voici des brins épars, déracinés,
et voici
le tourbillon léger des feuilles qui s'enflamment
et s'évanouissent. Tu peux me regarder, maintenant,
je n'éblouis pas.
S'abandonner et résister, deux mêmes
moments
du sang et de la respiration, de l'encre
et de la feuille, comme tu sais. Marche, écris.
Traduction: Mathilde Vischer
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Page créée le: 29.04.04
Dernière mise à jour le 01.06.04
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