Professor Giovanni Orelli, o
"san Giovanni Orelli", come recita l'ultimo emistichio
della raccolta, il suo nuovo Un eterno imperfetto
si divide in cinque parti (organizzati a mo' di grammatica:
1. Tempi, 2. Nomi e..., 3. Preposizioni, 4. Proposizioni,
5. Varia) e un epilogo (Grammatica, si può vivere
senza?), tutte anticipate da una citazione dell'incompiuto
romanzo (per morte improvvisa dell'autore) Bouvard et
Pécuchet, opera che "pourrait avoir comme
sous-titre "Encyclopédie de la bêtise
humaine"", scriveva in una lettera lo stesso Flaubert.
Similmente - ma in modo più diretto e incisivo, già
alla sesta poesia (Imperfetto, 2.) eccola riaccostarsi
al francese: "Eterno è l'imperfetto / solo nelle
grammatiche, in Flaubert, / ma nella vita no." Mi viene
immediatamente da chiederle: perché? Che genere di
rapporto esiste tra l'opera di Flaubert e la sua?
Flaubert è stato visto attraverso
Proust, il prediletto del Novecento, e attraverso alcuni
lettori di Proust. Cito solo Georges Poulet, che insegnava
a Zurigo (poco noto, hélas! agli italiani), in tema
di "distance intérieure" e, per l'Italia,
tra i molti (Macchi, Contini, Lavagetto, ...) la lettura
di Giacomo Devoto. Indipendentemente da questioni di valore
(Virgilio è immenso, io sono piccolo piccolo) potrei
applicare a me una affermazione che il grande latinista
Antonio La Penna, nel suo recentissimo e splendido libro
su Virgilio (Laterza 2006) fa a proposito delle Bucoliche:
il "far entrare la realtà contemporanea nel
mondo bucolico". Parafrasando quel giudizio, potrei,
osando, dire: "far entrare la realtà contemporanea
nel mondo della grammatica".
C'è forse una parola che
più di altre può permettersi di racchiudere
in sé uno dei grandi caratteri della sua poesia:
"giuoco". I suoi versi, infatti, sono scenario
- soprattutto con il "filastrocchico" delle
Quartine per Francesco e quest'ultima raccolta - dell'incontro-scontro
tra una componente candidamente ludica e una componente
inevitabilmente dotta (lei stesso, altrove, ha detto: "Nonostante
mi venga continuamente rimproverato da molti - ed io me
ne infischio - non posso esimermi dal fare citazioni. Io
mi sono nutrito di letteratura: non me ne pento, anzi me
ne vanto"). Ebbene: quali sono - se ce ne sono - i
limiti e i vantaggi di una simile bipolarità? Provocatoriamente,
poi, le si potrebbe rimproverare un eccessivo ludisme:
cosa risponde?
In tema di ludisme (la risposta
potrebbe essere lunghissima), per farla breve propongo un
pensiero di Dürrenmatt (che preferisco, e di non poco,
a Frisch), con il quale pensiero concludevo una mia mini-presentazione
per un libro su Dürrenmatt (Locarno, Dadò 2005):
"Ho chiamato i miei pezzi "commedie" pensando
ad Aristofane, che riuscì a portare le contraddizioni
dei tempi suoi sulla scena, dando loro valore, appunto,
universale. Al mito egli contrappose il paradosso. Dal momento
che non gli riusciva più di trovare un senso nel
suo terribile presente, non restava che mettere in scena
l'insensatezza. La tragedia si scaglia contro il mondo e
vi si schianta; la commedia invece rimbalza, ricade sulle
natiche, e ride". Al ludismo aristofaneo, si aggiunga
il callimachismo, che per il La Penna è "la
ricerca di uno stile asciutto ed elegante, carico di cultura
ed elaborato per lettori colti".
Remo Fasani, nella Prefazione
a Né timo né maggiorana (1995), affronta
il suo "passaggio dalla poesia in dialetto a quella
in lingua" in questi termini: "passaggio che Orelli
compie quando si accorge che la sua tematica (e il discrimine
può situarsi quasi a metà della prima raccolta)
non è più quella che corrisponde al mezzo
dialettale, e allora, per coerenza estetica non meno che
per sincerità morale, dà l'addio al pur amato
dialetto. Una lezione che si vorrebbe additare a quanto
oggi hanno fatto del dialetto il loro idolo e quasi la bacchetta
magica della poesia. Ma la poesia non necessita né
di idoli né di bacchette magiche, bensì di
un diretto e oggi duro confronto con la realtà che
ci circonda; e il mezzo di confronto, se dev'essere totale,
è dato dalla lingua a tutti comune". Condivide,
20 anni dopo Sant'Antoni dai padü, queste impressioni
di Fasani sulla sua "conversione"? E ancora: è
davvero la "lingua a tutti comune" l'unico mezzo
totale di confronto con la realtà? A me, non condividendo
questa visione, viene subito da pensare a Luigi Meneghello,
che, parlando della costante scomparsa del suo dialetto,
in Pomo pero scrive: "morendo una lingua non
muoiono certe alternative per dire le cose, ma muoiono certe
cose". Cosa ne pensa?
Lingua e dialetto. Fasani, che ha
scritto una bella prefazione a Né timo né
maggiorana, è in perdonabilissimo errore circa
"l'addio al pur amato dialetto". Non c'è
stato (e non ci sarà) addio. Io ho fatto un uso parco
del dialetto per la poesia, e per fini musicali. Recentemente
Vals (Mauro Valsangiacomo) ha pubblicato cose mie in dialetto,
prevalentemente traduzioni, fatte per "scoprire"
il ritmo del poeta tradotto (Orazio, Dylan Thomas, la Dickinson,
Villon... attualmente S. Ambrogio, Cavalcanti...): discorso
lungo e complicato.
Mi piacerebbe, per concludere, che si parlasse un po' della
poesia contemporanea: a quali autori si sente più
vicino? A quali più lontano? Secondo lei, che ruolo
dovrebbe ricoprire - e che ruolo ricopre - la poesia nella
contemporaneità (potrebbe anche essere un modo per
chiederle cosa funziona e cosa non funziona)?
[Do] la parola a Tzvetan Todorov,
in un "entretien" con J.L. Kuffer per "Le
Passe Muraille" 69, avril 2006, p. 3: "Vous vous
rappelez la position de Mallarmé dénonçant
"l'universel reportage" et prônant une littérature
purifiée de tout contact avec la réalité,
toute vouée à la perfection formelle. Or je
crains que Mallarmé en France ait vaincu. C'est vrai
pour les écrivains, qui ont succombé à
cette fascination formaliste, autant que pour les universitaires
et la critique au sens large". Io sono per Baudelaire
più che per Mallarmé (e Rimbaud). Potrei portare
il discorso alle lettere italiane, ma sarebbe troppo lungo.
Dante è comunque in testa.
Propos recueillis par Yari Bernasconi
Page créée le: 08.05.06
Dernière mise à jour le: 12.05.06
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