Anna Ruchat
Anna Ruchat, In questa vita, Bellinzona, Casagrande,
2004, pp. 90
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Anna Ruchat
/ In questa vita |
ISBN 88-7713-387-2
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Quattro racconti sui destino
che prima ci asseconda e poi si prende gioco delle
nostre vite. La storia di Marta, "trentenne di
una bellezza scontrosa e intermittente" che interroga
i morti per trovare una via d'uscita. La storia d'amore,
scombinata dal vento, tra un sarto affetto da nomadismo
e un'austera signora del Nord che, al contrario di
lui, detesta gli imprevisti. La storia dei "soldati
senz'armi" che se ne vanno lasciandoci in custodia
le loro tracce, la loro memoria, per esempio uno scatolone
di libri. La storia di Sonia e della sua vita non
giocata, piena di segni, angeli, tendine di organza
e polvere. Discorsi interrotti, ripresi e intrecciati
in un libro malinconico e a volte perfino crudele,
come certe ballate di Georges Brassens.
Anna
Ruchat è nata a Zurigo nel 1959. Ha
studiato filosofia e letteratura tedesca. Thomas Bernhard,
Paul Celan, Nelly Sachs, Friedrich Dürrenmatt
e Victor Klemperer sono alcuni degli autori che in
molti anni di attività ha tradotto dal tedesco.
Insegna alla scuola europea di traduzione del comune
di Milano.
Anna
Ruchat, In questa vita, Bellinzona, Casagrande, 2004
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Après une importante
carrière de traductrice littéraire (allemand-italien),
Anna Ruchat, née à Zurich en 1959, publie
son premier livre, In questa vita. La mort
est le thème qui lie ces quatre récits,
et dans lequel l'auteure voit sa principale raison
d'écrire. Elle n'est pas ici au centre d'une
réflexion philosophique, ni d'une angoisse,
elle n'est pas suffocante: elle est un fait, ni positif
ni négatif. Le pessimisme des protagoniste
n'absorbe pas la narratrice, grâce à
la maîtrise stylistique remarquable de l'auteure,
et à son amour pour la forme et la géométrie.
Le style et le jeu des formes et des perspectives
atteint parfois à une grande complexité.
En ce sens, la Ballata dei soldati senza armi est
le texte le plus ambitieux de ce recueil: entre les
strophes implacables du poème d'Aragon Il
n'y a pas d'amour heureux l'auteur aligne une
collection de jeunes hommes perdants, en alternant
constamment les points de vue et la structure syntaxique,
dans une sorte de partie d'échecs avec le passé.
Quant aux femmes, elles apparaissent souvent dans
ce livre comme des êtres solitaires, et sont
une sorte de "principe de résistance"
à la fatalité et à l'entropie.
Anna Ruchat dispose d'une qualité
d'écriture clairement influencée par
les auteurs qu'elle à traduits: Thomas Bernhard,
Paul Celan, Nelly Sachs, Viktor Klemperer et bien
d'autres. Elle dit avoir appris d'eux la précision,
la rigueur, la recherche d'un équilibre entre
l'urgence et la forme, mais surtout, ils lui ont appris
à écouter.
Anna Ruchat vit aujourd'hui
à Milan, où elle enseigne à l'Ecole
européene de traduction de Milan.
(D'après l'article et l'interview
ci-dessous)
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Anna
Ruchat: In questa vita (Pierre
Lepori) |
Con quattro racconti ruvidi, ambiziosi, esigenti, Anna Ruchat
si avventura da quella fedeltà che mette alla prova
l'elasticità della lingua che si chiama traduzione
alla scrittura in proprio, assunta fin nei recessi d'una
sensibilità affilata e dolorosa.
Al centro di In questa vita
sta la morte. Non per riflessione filosofica, per angoscia
di stile o per militanza negativa. La morte è qui
un clangore, una gelida peripezia, un colpo di vento, rivelatrice
senza scampo di un nòcciolo duro di resistenza -
un amour dur, verrebbe da dire con Mercanton, che
queste novelle richiamano alla mente- né positivo
né negativo; magari soltanto sconsolatamente biologico,
come ammette la madre ulcerata che partorisce una figlia
deforme e morta, ad apertura del libro: "no, tu
non hai voluto morire, guardati, hai fatto di tutto per
sopravviverle; hai già programmato i figli che verranno
e per questo non l'hai voluta vedere". Lo stile
è turgido di variazioni continue, come in un prisma
(woolfiano) incapace di rendere per intero la complessità
della vita, ma i racconti trovano una loro unità
profonda in questa asciutta sottomissione alle leggi implacabili
della tragedia compiuta.
In tutti e quattro i racconti la
morte è già il dato di fatto, il punto di
partenza: la bambina nata-morta di Un lutto bianco;
il rosario di vite rapidamente spezzate di una Ballata
dei soldati senz'armi che si snocciola sulla melancolia
della voce di Brassens; l'incontro (In questa vita)
tra due donne - la moglie, l'amante - di un sarto vagabondo
incapace di stabilità, descritto post mortem
dal succo dolce delle sue lettere ventose; la donna ormai
morta, in Spettri, ossessionata dallo squillo di
telefono, che misteriosamente in un mattino d'inverno chiazza
di tragedia il suo destino-passato-ad-attendere (bellissimo
il ricordo dell'ingegnere-violinista che le toglie una briciola
dal golfino di cachemire "lasciandomi intuire una
tenerezza fino a quel momento sconosciuta, un attimo").
Questa scelta netta - nessuno scampo
- potrebbe immergerci in un'atmosfera soffocante. Ma non
è così: forse non è appropriata la
definizione d'un libro "malinconico" (come
vorrebbe la quarta di copertina), perché un gelo
tutto bernhardiano percorre le pagine del volume, fino quasi
allo sfinimento cinico. E' però vero che questi racconti
sono percorsi da un nervosismo leggero, che impedisce all'autrice
di crogiolarsi nel pessimismo pervicace dei suoi protagonisti.
E che questo è possibile soltanto per una notevole
maestrìa stilistica (macchiata qua e là da
qualche caduta di gusto, come nel finale un po' strombazzante
di Ballata dei soldati senz'armi) e da una sorta
di grande amore per la geometria.
Ognuno dei quattro pezzi (brani di
vita) è infatti sostenuto da una struttura singolare,
rapsodica, ma non per questo meno precisa nelle opzioni
di stile. Un lutto bianco alterna il racconto in
terza persona della tragedia con le riflessioni cancrenose
della protagonista, al ritmo secco di una sintassi nominale.
In questa vita l'incontro tra le due donne del sarto,
tra l'anima romantica e speranzosa e la rassegnata e un
po' gelida utilitarista, s'attorciglia intorno alle lettere
che lui ha lasciato in eredità, d'un lirismo sostenuto
eppure concreto, fatto di luoghi e di venti alisei. La voce
di Spettri è invece compulsiva e cantilenante, ma
il passato immobile immutabile riaffiora negli inserti in
corsivo ("Era un mattino di fine ottobre e c'era
la nebbia, un martedì", ecc.), schiacciandoci
sotto il peso di quel coup de téléphone ch'è
l'immagine stessa della morte in agguato. Il più
ambizioso racconto della raccolta, in questo senso, è
la Ballata dei soldati senz'armi: tra l'avanzare
delle strofe implacabili di Il n'y a pas d'amour heureux
di Louis Aragon l'autrice srotola un campionario di giovani
uomini perdenti, variando costantemente punti di vista e
struttura sintattica, in una specie di partita a scacchi
con il passato: Tu/Lui, Tu/Io, Lui/Noi, Lui/Io: un balletto
volta a volta cantabile, astratto, concreto oppure stratificato
dal discorso indiretto libero. E sullo sfondo lo sconforto
bruciante, quasi gridato per "ciò che rimane
agli atti di una memoria impietosa: occhi lucidi e lampeggianti
di un bambino che poteva diventare tutto".
Anna Ruchat,
In questa vita, Bellinzona, Casagrande, 2004
Pierre Lepori
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Sette
domande a Anna Ruchat |
Dopo aver tradotto in italiano
Thomas Bernhard, Paul Celan, Nelly Sachs, Friedrich Dürrenmatt,
Viktor Klemperer (ed anche: Norbert Gstrein, Mariella Mehr,
Reidar Ekner, ecc.), lei pubblica con In questa vita
il suo primo libro di creazione. Tradurre è stato
per lei l'apprendistato, oppure un compagnon de route
della scrittura personale?
Tradurre è stato ed è
tutt'oggi un apprendistato. A stretto contatto con gli autori
che cita ho imparato cosa significano la precisione, il
rigore, cosa sono l'etica della scrittura e la ricerca del
difficile equilibrio tra necessità e forma, ma soprattutto
ho imparato ad ascoltare. Ho cominciato molto presto a scrivere
in proprio, in quelle prime prove era però evidente
un'assoluta incapacità di dominare la materia, un'urgenza
che soffocava il tutto. Quando ho cominciato a tradurre,
circa venti anni fa, ho smesso quasi completamente di scrivere,
per riprendere solo dopo aver concluso la traduzione dei
diari di Klemperer (più di mille pagine in tre anni)
che sono stati una grandissima scuola di scrittura.
In che modo ha "costruito"
una sua propria lingua di scrittura, rispetto alla potenza
e all'invadenza delle lingue letterarie che ha dovuto traghettare
dal tedesco all'italiano: quanto questo lavoro ha influenzato
il suo stile, il suo modo di affrontare la narrazione? E
in che modo il tedesco ha agito sull'italiano?
Non credo di aver "costruito"
una lingua. Come nella traduzione anche nella scrittura
la guida è l'ascolto, ascolto di qualcosa di interno
questa volta, che è però sempre risultato
di una stratificazione di esperienze e di voci di lingue
mie e altrui che si confondono e si sovrappongono. Di lì,
credo, da questo magma in cui è ormai impossibile
distinguere dei soggetti, pesco la mia lingua e la materia
dello scrivere. Dopo di che il tedesco in generale ma più
ancora la forza espressiva dei singoli autori tradotti spinge
necessariamente a cercare nell'italiano nuove possibilità,
a divaricare la lingua spingendola in territori in cui senza
l'aiuto di Bernhard, di Nelly Sachs e di tutti gli altri
non sarei arrivata.
Il genere del racconto non è
particolarmente diffuso, oggi, nella cultura letteraria
italiana; lo troviamo semmai in autori anomali, come nell'altra
"zurighese" che scrive in italiano, la Fleur Jaeggy
de La paura del cielo (le cui atmosfere possono avvicinarsi
al suo libro). Qual è il suo rapporto con la letteratura
italiana attuale?
Prima per piacere poi per "mestiere"
(e sempre anche per piacere) ho letto molta letteratura
straniera. Conosco poco la letteratura italiana contemporanea,
leggo di più la poesia. Ho una predilezione per i
diari, le lettere e le autobiografie. In fondo la scrittura
mi interessa soprattutto come testimonianza e tra i poeti
italiani contemporanei sento molto vicina Giulia Niccolai
la cui opera degli ultimi vent'anni è dedicata all'ironica,
beffarda testimonianza di un generazione che si estingue.
I suoi racconti si sviluppano
tutti e quattro nel perimetro di un lutto, di un funerale,
di una perdita irreparabile: ha voluto raccogliere questi
racconti in un libro in nome della loro unità tematica,
o si tratta di un tema "unico", volutamente cocciuto,
della sua ricerca letteraria?
Ognuno di noi, credo, ha un tema,
un motivo, una ragione dello scrivere, che spesso coincide
con il tema dell'esistenza stessa. Il titolo di questo libro
era in origine il primo verso di questa poesia di Franco
Beltrametti "gente che non c'è più/guida
i miei segni/gente che non c'è più/detta queste
parole".
Lo stile dei racconti è
estremamente elaborato, rapsodico ma calcolato, intrecciato
di più voci e più movenze linguistiche: vi
ha lavorato in modo deliberato, intellettuale, oppure seguendo
una scrittura istintiva, facendosi guidare dai personaggi?
Non c'è costruzione di uno
stile. Per me la scrittura, come la traduzione, è
un "fare". È lo strumento che mi permette
di andare il più vicino possibile alle cose e di
trovare dentro le cose stesse, anche le più terribili,
quel principio di armonia che le riporta nel movimento generale.
Poi c'è tutto il lavoro di pulizia. Smussare, togliere,
limare.
Voci narranti del suo libro sono
sempre le donne, che guardano uomini distanti, suicidi,
scostanti. Donne talvolta solidali, molto più spesso
solitarie, straziate all'interno del loro stesso guscio.
La donna è in qualche modo per lei il "principio
di resistenza" all'entropia e alla fatalità?
In un certo senso è così,
ho cercato di osservare questo "principio di resistenza",
le sue molle, i suoi congegni, da prospettive diverse. Ho
cercato di avvicinarmi agli incagli, alle trappole dell'esistenza,
che possono essere occasioni per crescere o sabbie mobili
che coinvolgono intere generazioni. Le donne in questi racconti
non sono attrici tragiche e nemmeno vittime. Sono spettatrici,
guardiane della soglia.
La spettralità è
una dimensione importante del suo raccontare, come se la
vita non fosse altro che una danza macabra e il raccontare
un'evocazione fantasmatica (che procede per strattoni, sfinimenti)
di quest'esistenza. Qual è per lei il rapporto tra
spettro e scrittura?
Quella che racconto è una
realtà in cui i confini tra il nostro mondo e quello
dei morti vengono spesso superati, percosi nei due sensi,
una realtà in cui i riti del passaggio sono stati
dimenticati e proprio sul confine vengono riappresi. Lo
spettro, se vuole, è la mia musa.
Intervista a cura di Pierre Lepori
Page créée le: 24.08.04
Dernière mise à jour le 01.09.04
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