Nella terza parte del grande affresco
romanzesco Le testament français, di Andrej
Makine, il protagonista, a sua volta scrittore di origine
russa ma che ha scelto il francese come strumento espressivo,
ragiona sulla sua particolare situazione linguistica e culturale:
poiché i suoi libri scritti direttamente in francese
erano stati rifiutati dagli editori francesi, egli ha dovuto
fingere di averli tradotti dal russo, ottenendo così
udienza, successo e lodi per la notevole traduzione. Curiosa
condizione, come si vede, di duplice sradicamento, di fluttuazione,
spiega Makine nello spazio entre deux langues; e
appunto da questo spazio e da questa situazione anomala
proviene una riflessione generale sulla traduzione letteraria:
le traducteur de la prose est l'esclave
de l'auteur, et le traducteur de la poésie est
son rival.
L'affermazione è immediatamente
comprensibile, e potrebbe anche risultare piuttosto gratificante
per chi si occupa soprattutto di traduzione poetica; tuttavia,
ho il sospetto che le parole di Makine non corrispondano
quasi mai a verità, e che una miscela variabile di
esclavage e di rivalité caratterizzi
sempre l'opera del traduttore, in poesia come in prosa.
Ma anche a prendere per buona una simile sentenza, sarebbe
oggi assai arduo applicarla al lavoro traduttorio di Alessandra
Moretti, che si è cimentata non senza coraggio con
un oggetto sfuggente e complesso come la pagina di Maurice
Chappaz. Pagina di prosa, certo, ma di una prosa mobile,
anomala, non strettamente narrativa, ricca di accensioni
liriche o visionarie, oppure pronta a movimentarsi in direzione
della più acre invettiva, e a mescolare registri
linguistici e stilistici diversissimi. In altre parole,
lasciando da parte il dubbio generale sul concetto, quello
che appare oggi, ragionando del Portrait des Valaisans,
è un dubbio circa le categorie, cioè circa
l'appartenenza dell'opera a un genere letterario ben definito
(anche ammesso poi, e non affatto concesso, che le categorie
"poesia" e "prosa" siano davvero ben
definite e autosufficienti). Insomma: che libro è
questo, che sembra proporsi, sin dal titolo, come un'opera
fortemente ancorata a una riconoscibilissima realtà
oggettiva -il Vallese e i suoi abitanti - e a una ben definita
modalità rappresentativa - il ritratto -, salvo poi
rimescolare le carte sai quanto all'oggetto della trattazione
(qual è davvero il Vallese di Chappaz) sia per ciò
che concerne le tecniche espressive (se questo è
davvero un ritratto, il minimo che si possa dire
è che si tratta di un ritratto ben poco convenzionale)?
Come si vedrà, dalla difficoltà di rispondere
a simili interrogativi dipendono buona parte delle caratteristiche
espressive dell'opera, e buona parte degli ostacoli che
il traduttore ha dovuto affrontare, nel suo non facile cammino
di avvicinamento, per liberarsi dal puro esclavage e indirizzarsi
verso una misuratissima rivalité.
Si potrebbe partire, ad esempio, da un'osservazione di Flavio
Catenazzi, che nell'ampia ed esauriente prefazione all'opera,
dopo aver avviato il discorso, afferma:
Modulato su questa come su altre dissonanze,
il romanzo sfugge al genere cui si è tentati di
avvicinarlo, quello realistico, configurandosi come un
viaggio a ritroso: una recherche di una dimensione perduta,
dell'isola, che, per dire con le parole dell'autore, "est
une parcelle de très âpre Eden entre cinquante
cimes blanches avec le silence, la Bible". 1
Come dire: all'inizio c'è
un paese e una vaga promessa di realismo; ma ben presto
il paese viene interiorizzato, legato alla propria vicenda
esistenziale, e il realismo lascia il posto a un atteggiamento
diverso, che conduce la scrittura verso i territori del
mito e della parola poetica. Come suggerisce ancora Catenazzi,
si potrebbe pensare, come corrispettivo italiano di un tale
movimento dello sguardo, a uno scrittore come Pavese, noto
e caro a Chappaz. Ma, per restare invece nella Svizzera
romanda, e lasciando sullo sfondo il grande massiccio montuoso
rappresentato da Ramuz, la tentazione è quella di
chiamare in causa il poeta che forse più intensamente,
con l'intensità di un vagabondo perennemente in esilio,
ha attraversato un territorio reale, storicamente e geograficamente
delimitato, sempre visibile e sempre sfuggente, negato e
irraggiungibile. Si pensa a Gustave Roud, che Chappaz ha
lungamente frequentato e venerato, e di cui si spera di
poter presto vedere pubblicata, nella versione italiana
approntata da Pierre Lepori, l'opera forse più alta,
il Requiem, ultimato dall'autore nel 1957 e pubblicato
postumo (è appena da osservare con scarsa allegria
che, ad eccezione di qualche segnalazione antologica, il
nome di Roud è finora rimasto sostanzialmente sconosciuto
ai lettori di lingua italiana, tanto in Italia quanto in
Ticino). E in effetti, aprendo il volumetto del Requiem,
ci si imbatte immediatamente in un'epigrafe che suggerisce
un'affettuosa prossimità letteraria: anche Maurice
Chappaz aveva intitolato uno dei suoi testi poetici Requiem,
e appunto da lì proviene il verso suggestivo richiamato
da Roud: L'herbe perpétuelle luit. Se però
dal piano dell'amicizia e della stima reciproca volessimo
passare a quello degli esiti poetici, l'accostamento tra
Chappaz e Roud richiederebbe non poche cautele: ed è
appunto con la cautela di chi distingue due figure assai
diverse che il nome di Chappaz è evocato da Philippe
Jaccottet nella sua limpida prefazione alle opere di Roud
pubblicate da Gallimard:
La materia delle prose poetiche di
Roud è sempre la stessa e, almeno per quanto concerne
la sua estensione, assai limitata. Un paese, innanzitutto,
un paesaggio: quello che comincia ad apparire quando si
volta la schiena alle Alpi e al lago di Ramuz, un paese
di colline rimasto ancora oggi un vero paese di contadini,
l'Haut Jorat. In questi luoghi pressoché immutabili,
ritratti sono tutte le diverse luci dell'anno, sorgono
alcuni personaggi, anch'essi sempre uguali: talvolta un
cacciatore di talpe, un merciaiuolo ambulante, una ragazza
d'albergo; ma più spesso, e quasi sempre, dei contadini:
falciatori, erpicatori, bifolchi, o divenuti soldati per
un breve periodo, o ancora sorpresi nelle loro rare feste:
corse di cavalli, gare di tiro, balli. Così si
potrebbe a tutta prima pensare che Roud, sulla scia di
Ramuz, e come farà più tardi, ancora in
modo diverso, Maurice Chappaz, abbia scritto qualche canto
delle nostre Georgiche romande. Certo, c'è anche
qualcosa di questo negli Ecrits, e non è per nulla
trascurabile, poiché Roud avrà così
salvato dall'oblio, a forza di attenzione appassionata
e di arte sottile, almeno per qualche tempo, delle immagini
pure e giustissime di un mondo minacciato.
Ma colui che guarda in questo modo il suo paese si mischia
(mischia la propria distanza, la propria personale separazione)
a ciò che guarda. E questo contemplatore è
un errante, un errante doloroso; tanto che ciò
che davvero importa, alla fine, in quelli che erano dapprima
apparsi come affreschi del mondo contadino, è il
movimento, ora di fuga o inseguimento, ora delle due cose
insieme, di questo errante. 2
La distanza che Jaccottet
attribuisce allo sguardo di Roud, e che distingue dunque
quest'ultimo da Chappaz, è la distanza dell'escluso;
e proprio quella distanza e quell'esclusione permettono
al paesaggio attraversato e riprodotto poeticamente di splendere
insieme ai suoi esseri umani come attraverso una nebbia,
e di presentarsi al lettore come assolutamente reale, eppure
estraneo. Un'osservazione dello stesso Roud a proposito
delle Georgiche virgiliane ( di cui proprio l'amico
Chappaz è stato appassionato traduttore) chiarisce
perfettamente questo punto 3:
D'un côté ceux qui vivent
leur bonheur sans le connaître, de l'autre, ceux
qui connaissent le bonheur - le bonheur d'autrui. Ici
comme ailleurs il y a le spectateur et puis l'acteur;
celui qui écrit les Géorgiques et celui
qui se contente de les vivre.
Nel caso di Chappaz, invece, il rapporto
tra scrittore/osservatore e materia attraversata e ritratta
si pone in termini assolutamente diversi; all'inizio non
c'è una distanza, ma un'adesione, un'immersione totale
e quasi panica nella pastosa realtà vallesana. Basta
del resto, per rendersene conto, rileggere la Nota dell'Autore
che apre il Portrait:
Non ho inventato niente. Ho disegnato
un Vallese romano, romano e non romando, con tutto quello
che portava con sé: i discorsi da tavola dei curati,
i mormorii delle famiglie, gli scherzi infantili, le storie
già ricordate nei quaderni del folclore, gli aneddoti
immaginari, i si-dice, le incredibili storie vere, le
confessioni di adolescenti - i miei ricordi registrati,
trasformati, durante decine di anni.
Ho riannodato il filo popolare. Non ho avuto paura di
essere triviale. Perché mi sono macerato nel dialetto,
nelle sue grosse astuzie e nel suo sapore senza sotterfugi.
L'animalità - anche a livello della lingua - deve
chiedere scusa all'intellettualità? Non ne sono
sempre sicuro. Franco, come la Bibbia e come Rabelais,
o come Freud?
Ma non ho cercato per ora di dire tutto, questo è
un mio lontano progetto. Ho provato semplicemente troppo
piacere ad ascoltare i racconti di quelli che lavorano
ridendo, per esempio gli impiegati del comune ai tempi
dei contadini
Niente è stato sofisticato. Ciononostante, che
non si metta un nome a questo o quello dei miei personaggi.
Mi hanno attraversato, sono diventati dei tipi, dei miti
a mio uso. Non hanno assolutamente più la stessa
identità. Non distinguo più l'esatto dall'inesatto,
l'ho digerito, l'ho esagerato.
Ho voluto fare il ritratto di una razza.
Se allo stesso tempo c'è dentro qualcuno, quello
sono io.
Tuttavia questa sostanziale adesione
di Chappaz alla materia di cui la sua opera si occupa non
risolve affatto il problema: impone invece di formularlo
in maniera diversa. Si potrebbe dire, seguendo sempre la
bussola discreta fornita da Philippe Jaccottet: nel caso
di Roud, ciò che conta è capire che tra l'io
poetico e la materia della poesia esiste uno iato, una frontiera
invalicabile, un movimento di fuga, e che appunto questo
movimento è il vero motore della scrittura; per leggere
Chappaz, al contrario, è necessario essere ben coscienti
di quale sia il vero oggetto di cui la scrittura vorrebbe
farsi voce. Infatti, proprio dalla particolare natura di
quell'oggetto dipenderà ciò che Jaccottet,
nel passo poc'anzi ricordato, definiva un modo ancora
diverso di cantare la civiltà agreste.
Del resto, per concludere questa strana triangolazione fra
tre dei maggiori scrittori romandi, e per trovare qualche
ulteriore conferma, si può ricorrere al volumetto
Adieu à Gustave Roud, del 1977, nel quale
l'editore Bertil Galland ha voluto raccogliere, poco dopo
la morte di Roud, le tre testimonianze di Chappaz, di Jaccottet
e di Jacques Chessex, chiamati a ripercorrere il loro ultimo
incontro con l'autore del Requiem 4. Il
testo di Jaccottet è il più breve: otto pagine
scarse, nelle quali l'autore tenta di non parlare di sé,
di contenere l'emozione con cui ripensa all'amico e maestro
scomparso, e di tracciare con discrezione un quadro umanissimo
e nel contempo critico, che prelude appunto alla futura
prefazione gallimardiana. Chessex occupa invece un numero
doppio di pagine, al termine delle quali allega tre poesie
scritte subito dopo la morte di Roud, per parlare retoricamente
soprattutto di se stesso. L'intervento di Chappaz, che apre
la raccolta, è infine il più ampio: circa
quaranta pagine, in cui vengono rievocate molte cose, con
uno stile velocissimo, di grande intensità, ricco
di frequenti salti logici e narrativi e di parti dialogate,
nelle quali non è sempre agevole capire chi sta parlando,
se Roud o lo stesso Chappaz. E in uno di questi dialoghi,
innescato da un articolo di Marcel Raymond, il discorso
verte sull'esperienza mistica, che secondo Mircea Eliade
doveva implicare la riscoperta della condizione paradisiaca
primordiale o, perlomeno, la nostalgia del paradiso perduto.
Si passa poi a Novalis, di cui Roud ammira l'estrema coerenza
nel tentativo quasi disperato di ritrovare l'Assente. E
a questo punto una voce, che sembrerebbe proprio quella
di Maurice Chappaz, riporta a sé il ragionamento,
definendo un punto di vista e di ricerca assai diverso da
quello dell'amico; della lunga digressione, conviene leggere
solo l'inizio e la fine:
Et moi? J'aime mon pays comme un être
humain. J'aime une histoire.
(
)
Je risque de me noyer si je me lasse aller . 5
All'esilio, all'assenza da cui parte
Roud sembra qui opporsi la pienezza, l'ebbrezza persino
di una realtà pastosa, densa, violenta di cui Chappaz
si sente parte. Ma qual è questa realtà? Qual
è il Vallese di cui il Portrait ci vuole parlare?
Può aiutarci un libretto relativamente recente di
Chappaz, quel curiosissimo Valais-Tibet pubblicato
dall'autore nel 2000 (e quasi subito tradotto in italiano
da Fabio Vasari per le edizioni Tararà di Verbania
6) : qui l'autore, spingendo alle estreme conseguenze
il suo rapporto con l'agricoltura vallesana di montagna,
ormai quasi scomparsa, e proponendone come corrispettivo
il lontano Tibet, ricorre a una formula chiarissima:
Je retrouve ce Moyen Âge tranquille
qui durait encore à la descente de l'avion.
La Valais se précise.
La Génèse nous suit toujours.
Un'antitesi netta prende forma in
queste parole, ed è la stessa antitesi che attraversa
il nostro Portrait des Valaisans: quella tra un prima,
tempo lungo del "medioevo tranquillo", sottratto
alla storia e consegnato al mito, e un dopo, che
rappresenterebbe il mediocre presente in cui viviamo e l'oscuro
futuro che ci attende, determinato dall'irruzione del progresso,
della mercificazione, e della stessa storia, cioè
delle forze materiali che hanno sconvolto e quasi completamente
distrutto un mondo originario, di cui sopravvivono solo
sparse tracce, barlumi. Poche pagine più avanti,
un vagabondo esclamerà:
au bon vieux temps, il y avait le
destin, maintenant il y a le salaire quotidien.
Battuta che può subito richiamare
diversi passaggi del Portrait, per esempio quello
contenuto nel capitolo La melodia beduina 7
:
L'industria rade tutto al suolo, sopprime
radicalmente la natura, la famiglia, gli artigiani e tutto
ciò che pensa con le mani.
È interessante notare come
l'antitesi di partenza si sviluppi e si complichi: da una
parte, un aggregato di natura, famiglia, artigianato e manualità;
dall'altro, l'industria e il pensiero razionale come elementi
perturbanti, che innovano distruggendo. L'opposizione, che
potrebbe per un istante ricordare uno scrittore italiano
diversissimo da Chappaz come Pasolini (il Pasolini, per
esempio, degli Scritti corsari che rivendica a sé,
in polemica con Calvino, l'immensità del mondo
contadino, cioè quella età del pane
completamente distrutta e omologata nella nuova età
della merce e del consumo), è assoluta e totalizzante,
poiché tocca tutti i livelli esistenziali e culturali,
e si applica tanto alle vite individuali quanto alle sorti
collettive. Nel capitolo La morte e gli occhi un
passo suggestivo narra gli ultimi attimi di vita di Dubois,
un addetto all'apertura dei canali di irrigazione, che precipitando
dall'alto delle rocce lancia ai compagni un ultimo grido
8:
E vi chiedo: che grido? Forse quel
"Salvatemi! , quell'"Aiuto!" pietoso o
il fatalista "Sono fregato" degli incidenti
improvvisi o i "Gesù Maria"
No,
non indovinereste mai, non metterete mai a nudo il vecchio
paese. Mentre sbatte contro i sassi, i massi, le due braccia
alzate, i pantaloni nel vento del vuoto, il grido che
sale verso gli altri, che li raggiunge: "Arrivederci,
amici!". Amo e credo in quel grido. Presuppone tanta
presenza al mondo e tanta fede. Fino all'ultimo minuto
e nell'ultimo minuto c'è questa attestazione di
un legame carnale e necessariamente di una promessa. È
garantito: il paese esiste e Dio esiste. Questo grido
è talmente il contrario dell'orrore e dell'assurdo,
correzione necessaria alle città per diventare
umane. Preferisco addirittura questo grido a quello di
molti martiri.
E poco più avanti, nel capitolo
Gli anarchici dei frutteti, la stessa contrapposizione
viene applicata alla lingua, distinguendo la parlata vallesana,
primigenia espressione di un mitico accordo tra uomo e natura,
e francese della borghesia, imposto dall'alto come un anestetico
9 :
Nel parlare vallesano tutta la natura
prendeva vita, nel francese della borghesia e dell'amministrazione
venivano nascoste le cose, venivano messe sotto cellophan
le nostre anime, e ci sono rimaste. Come scrittore, comincio
a dire: no! I no degli scrittori devono essere i più
violenti.
Si potrebbe ragionare, ovviamente,
sul rischio che una simile visione antitetica finisca per
sfociare in una paralisi e in una idealizzazione, privilegiando
in maniera eccessiva la presunta innocenza, e rifiutando
in blocco l'odiata alleanza di cultura e progresso;
ma non è questa la sede per farlo. Basterà
osservare, per avviarci alla conclusione e per ritornare
all'oggetto del nostro discorso, cioè al difficile
compito del traduttore, che, se questo è il nucleo
più profondo che pulsa in ogni pagina del libro,
le sue conseguenze linguistiche e stilistiche sono evidenti,
e tutte ordinate, verrebbe da dire, sotto il segno retorico
dell'enfasi. C'è una forma di enfasi sotto la commossa
rievocazione del Vallese selvaggio e primordiale, che si
manifesta nelle esclamazioni, nelle ripetizioni che amplificano
il discorso, nell'uso frequente del breve aneddoto che,
come un antico exemplum, sostituisce un più
ampio ragionamento con l'immagine fulminea a tinte forti;
e c'è una forma di enfasi nella rievocazione lirica
della natura, come risulta subito evidente nel passo dedicato
alla vigna, che di quella natura, e del suo rapporto con
l'uomo, rappresenta per Chappaz il termine ultimo 10:
Bisogna andare a potare. Le parcelle
ci esaltano più dei cantici, dei sermoni. La vigna
piange! Le viti contorte nel loro grande gesto di carezza
divengono tutte nere e umide. La goccia brillante è
la linfa. La vigna trasuda con i suoi germogli infinitamente
delicati, ben più fragili del vetro, e si imbandiera
di mille piccoli ali molto verdi, molto fulve: Riesling
renano o Fendant. Guardate le parcelle il mattino verso
levante: la luce palpita dietro le foglie tenere, vibra,
freme in trasparenza. Contro la terra grigia e nuda, quella
specie di morena e di diluvio che si solidifica, dove
la prima violetta si strofina da un mese, il sole danza,
volteggia tra le piantine. La Vigna si prepara come la
Vergine nella sua adolescenza. È visitata. È
traversata da raggi, ha ricevuto i germi della fioritura.
Un'enfasi lirica gonfia la rievocazione,
alza la vigna come una vela nel mare del paese sognato;
ma l'altro volto dell'enfasi, quello acre e violento, si
mostra in tutta la sua potenza nelle molte pagine di sdegno,
in cui l'autore deforma sarcasticamente l'arrogante volto
del Vallese moderno, facendo ricorso a tutte la armi della
caricatura e della satira linguistica: mescolanze di registri,
che fanno stridere il termine dialettale o popolare accostato
al tronfio linguaggio avvocatizio e burocratico, oppure
il tecnicismo vinicolo che danza accanto al vocabolo più
turpe; commistione di allusioni evangeliche e di rozzi interessi
turistico-commerciali; iperboli e risate al vetriolo. Di
questa enfasi amara e devastante il lettore troverà
un esempio chiarissimo nel capitolo Piccolo sabba moderno
, che credo suggerisca assai bene quanto il lavoro di Alessandra
Moretti abbia dovuto trasformarsi in un serrato corpo a
corpo con il testo originale: lo dico, questa volta, per
esperienza diretta, visto che alcuni anni fa, non ricordo
più bene per quale occasione editoriale (un catalogo
d'arte, forse, o un'antologia) mi era stato chiesto di tradurre
appunto una parte del capitolo Petit sabbat moderne,
nel quale l'autore trasforma una festa ufficiale del turismo
vallesano in un'orrida danza macabra officiata da politici
e notabili del paese. Ebbene, ricordo perfettamente la fatica
e la disperazione che avevo provato allora, di fronte a
una sarabanda linguistica che mi pareva difficilmente traducibile,
e che poneva problemi sia lessicali sia, soprattutto, di
tenuta stilistica. E ricordo anche, aggiungo subito, l'insoddisfazione
con cui per finire avevo consegnato la mia versione italiana
del passo, che mi pareva corretta ma non esaltante; insoddisfazione
che sono lieto di non provare leggendo adesso lo stesso
brano affrontato e risolto da Alessandra Moretti, che vorrei
ancora una volta ringraziare e complimentare per il suo
lavoro.
Fabio Pusterla
1. M.CHAPPAZ, Ritratto dei Vallesani,
introduz. di F.Catenazzi, traduz. di A.Moretti, Locarno,
Dadò, 2005, p. 7.
2. G.ROUD, Air de la solitude et autres écrits, préface
de P.Jaccottet, Paris, Gallimard, 2002; la traduzione del
passo è di chi scrive.
3. La si può leggere nell'edizione critica del Requiem
curata dal compianto Adrien Pasquali (Lausanne et Carrouge,
Association des Amis de Gustave Roud, 1997, p . 93).
4. M.CHAPPAZ, P.JACCOTTET, J.CHESSEX, Adieu a Gustave Roud,
Vevey, Bertil Galland, 1977.
5. Ivi, pp. 29-31.
6. M.CHAPPAZ, Vallese-Tibet. Icona dei contadini di montagna,
trad. di F.Vasarri, prefaz. di M.Rigoni Stern, Verbania,
Tararà, 2000. Le due citazioni successive sono dalle
pagine 10 e 34.
7. M.CHAPPAZ, Ritratto
, p. 41.
8. Ivi, p. 48.
9. Ivi, p. 59.
10. Ivi, p. 73; ma si legga l'intero passo, che giunge alla
pagina seguente.
11. Ivi, pp. 65-69.
Page créée le: 17.01.07
Dernière mise à jour le: 17.01.07
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