C'è di che rallegrarsi: l'ultimo
libro di Giovanni Orelli è una raccolta di racconti.
Il titolo è bellissimo: Da quaresime lontane.
C'è di che rallegrarsi perché l'autore ritorna
alla prosa, al genere in cui meglio traspare il suo talento
letterario. Ritorna, divertito reduce da un periodo poetico
dettato perlopiù dal gioco e dallo scherzo (si ricordino
Quartine per Francesco e il recente Un eterno
imperfetto), al "suo" genere.
Sono storie che - fatta qualche piccola eccezione - si muovono
in spazi sempre cari a Orelli, e, quindi, quando non ci
si sposta nel tempo per tornarsene al secolo scorso, s'intravvedono
sullo sfondo il paese e i suoi personaggi (o, talvolta,
"categorie" di personaggi). Si respira il ciclo
della vita. Tutto questo, poi, miscelato densamente con
una lingua e uno stile brillanti, elastici, con una scrittura
spesso "alta", fitta di citazioni. Quasi un gioco
a incastro, basato sul cozzare dei vari livelli linguistici
e della materia. Tanto che si respirano, lungo le pagine
del libro, un'ironia e un'arguzia deliziose, e solo raramente
forzate. Si legge ammiccando, sorridendo. Non per questo,
beninteso, mancano momenti di riflessione, di rimpianto,
d'inquietudine: diversi personaggi, sotto il velo dell'ironia
e della facezia, diventano perfino grotteschi, e non esitano
a chiamarci in causa.
Sono aspetti che appaiono evidenti soprattutto nei primi
due racconti del libro, i più lunghi, forse i più
belli. Il primissimo, Ricreazioni, è una sorta
di diario di vita di una sfortunata, scontenta maestra-mamma,
passata da un matrimonio fallito immediatamente e da tre
anni come cameriera in un'osteria: "Tempo è
denaro. Il mio tempo perduto è invece perduto come
una valuta svalutata, carta straccia, buona solo per giocare
alla bottega. "Deus dabit quibus vult", sentenziò
una giorno la nonna, con in mano un suo libro di preghiere.
Dio darà a chi vuole. Si vede che io non sono nella
lista di Dio". Antagonisti principali sono la figura
del tutore ("lo zio lavativo"), il delegato scolastico
("quello che all'osteria, dopo aver celebrato sé,
celebrava la donna sua, la Signora: "La mè fömna,
la mè Frau", la mia donna, la mia Signora: raddoppiava
il dialetto col tedesco, inconsciamente conformandosi alla
cospicua stazza della consorte sua"), l'ispettore scolastico
("per lui, ufficiale anche del formidabile esercito
svizzero, la scuola andava bene se la pagina del diario
era scritta in bella grafia, in ordinata sintesi, se sul
vecchio apparecchio radio che quando ascoltavamo la radioscuola
gracchiava e trullava peggio di un maiale sazio di siero
non c'era un granello di polvere: in tutto uguale al suo
amico colonnello per il quale l'esercitazione militare era
andata bene se aveva potuto verificare che la martingala
della tunica era ortodossamente tesa"), il "severissimo"
professore d'italiano del collegio ("alto e, più
che pallido, cenere (e non rideva mai)", e che "giudicò
che non avevo fantasia. Per lui la fantasia era scrivere
nel tema in classe che la campagna era fasciata da una nebbiolina
leggera che lasciava piovere goccioline sottili, intime")
e il marito che "subito accertato, con quel suo fiuto
da imbroglione, che poco o niente gli portavo di quello
che gli avevano fatto credere o sperare [...], mi ha mandata
all'inferno" ("Me lo fece capire presto, con quella
sua faccia di latte cagliato, che era molto deluso [...].
Mi ha lasciata qui con un fiasco di grappa che non entrava
più nella valigia; la casa ipotecata. E pregna. Ad
aspettare, come dicono i paesani delle donne incinte. Oppure:
che è in compera").
Più complesso, per contro, il confronto tra generazioni
del secondo racconto (quello che, tra l'altro, dà
il titolo al libro). Vissuto in prima persona da un professore
d'italiano - in tutto troppo simile a Giovanni Orelli per
rimanerne indifferenti -, è il riaffiorare del tempo
che fu, delle quaresime lontane (un passato perlopiù
infantile, spesso ancora visto con gli occhi del bambino).
Il professore - con moglie un po' canzonatrice, un po' raziocinante
- guarda i suoi figli crescere e li accompagna nelle loro
attività più disparate, dal judo alla scuola
di ballo. Ed è un bellissimo dialogo, talvolta pronunciato,
reale: "Dicono: io andrò in Giappone, io compero
un soggiorno lungo trenta metri. Domandano se guadagna di
più un dentista o un professore. Tocca a me sghignazzare.
"Bene, io farò il dentista". "Io sposo
un dentista". Il ragazzo parla di viaggi supersonici
e spaziali. È naturale, mi dico. Cosa sognavo io?
Nemmeno lo ricordo. Ma sognavo, poi? Mi bruciano il terreno
sotto i piedi, in tutte le direzioni, mi risospingono alla
mia infanzia, intrauterina, che mi pare sia quasi tutto
quello che ho. Poi la maggiore sentenzia a voce alta: "Io
non mi sposerò mai, lo giuro"". Restano,
come era stato per gli antagonisti di Ricreazioni,
alcune frecce scagliate qua e là (aspettando le figlie
alla scuola di ballo: "Certo mi trovo un po' imbarazzato
nel piccolo corridoio in mezzo alle giovani madri che aspettano,
e aspettando ci si sorride, solidali, anche se alcune, certe
signore della mediocrazia imperante, rimangono pertinacemente
impermeabili al sorriso, e distorcono il delicato viso:
presumendo, in lor matta presunzione, le feci di assidersi
in sgabello di altezzosità, conviene poi che elle
fieramente putiscano, o grave nocumento arrechino"),
ma è un aspetto secondario. Anche perché,
in questo racconto, la nostalgia è più concreta,
è malgrado tutto più vicina: "un altro
pezzo di quella che dicono infanzia è ritornato netto:
agosto e settembre, il tempo dei mirtilli che vendevamo
ai collegi di Turgovia e San Gallo. Ci saranno ancora i
ragazzi in divisa? in fila davanti al proprio posto, che
recitano la preghiera, con gli occhi alla lunga fetta di
pane, con su la marmellata dei nostri mirtilli. Ho paura
che questo odore i miei figli non lo conosceranno mai, così
come io non ho conosciuto la loro ginnastica correttiva".
Arriva persino a confondersi con sentimenti più enigmatici,
forse d'inquietudine: "Girare il mondo, ecco, nella
parte del nonno, a trovare figli generi nuora e nipoti.
È dunque destino che debba viaggiare da vecchio?
Portandomi dietro i peccati tenuti nel cassetto? Se non
farò la fine di un re Lear della scuola, in pensione.
A me se di vecchiezza la detestata soglia evitar non impetro.
O tornare su in paese, quando sarai bacucco. Le capre hanno
un meraviglioso senso dell'orientamento, mi guideranno loro.
Se non le avranno ammazzate tutte".
Yari Bernasconi
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