Mattia Cavadini
Il poeta ammutolito, Marcos y Marcos, 2004
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Mattia Cavadini
dans nos pages consacrées aux auteurs de Suisse.
Mattia Cavadini/
Il poeta ammutolito |
ISBN 88-7168-388-9
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Crollata la fiducia nell'onnipotenza
della letteratura e nei suoi paradisi artificiali,
si consolida un nuovo filone poetico, basato sul ritorno
al reale, sulla cancellazione dell'io lirico e sulla
ricerca di una possibile congiunzione fra gli elementi
del vissuto e i segni dello scrivere.
Un filone poetico di cui Philippe
Jaccottet e Fabio Pusterla, entrambi svizzeri ma appartenenti
a domini linguistici e culturali diversi, rappresentano
due delle voci più interessanti.
La poesia, con Ioro, si vota
alle cose, si radica nella realtà; il linguaggio
si libera del demiurgismo e dello stilismo di secoli,
per farsi semplice, trasparente, lasciando piena iniziativa
al reale, all'affiorare delle cose, nel loro transito
dalla vita alla morte.
"Il poeta ammutolito"
è dunque colui che, taciuto l'io (e le sue
brame di dominio, possesso e successo), si dedica
alla trascrizione delle cose così come sono,
nel loro splendore-orrore, nella loro enigmaticità.
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Mattia
Cavadini è nato a Sorengo nel 1970
e vive tra Lugano e la Valsolda. Scrittore, critico
letterario e giornalista radiofonico, è autore
di un breve romanzo, Inganno turrito, Casagrande
1995, e della raccolta di racconti Sullo sfondo,
Manni 2002. Ha pubblicato una monografia sull'opera
di Giorgio Manganelli. La luce nera, Bompiani
1997 e numerosi interventi critici sulla letteratura
italiana e francese del Novecento.
Il
poeta ammutolito, Marcos y Marcos, 2004
Après un premier ouvrage
critique consacré à Giorgio Manganelli,
Mattia Cavadini met le cap sur une littérature
totalement différente: celle des poètes
qui ont choisi de s'attacher au réel, aux choses,
au vécu quotidien. Tandis que chez Manganelli
l'écriture est un monde en soi, créé
de toutes pièces par un auteur-démiurge,
qui donne par ce travail un sens à une vie
qui en serait dépourvue, des poètes
tels que Jaccottet ou Pusterla recherchent d'après
Cavadini une transparence et un simplicité
propres à révéler les choses
"telles qu'elles sont", en leur laissant
formuler leur énigme, en laissant émaner
d'elles une dimension sacrée. Leur poésie
veut adhérer aux choses dans leur essence,
dans leur présence même - sans les ramener
à la mémoire que l'on peut en avoir,
sans même s'arrêter sur l'usage que l'on
pourrait en faire. Ces poètes cherchent à
mettre le lecteur en présence de ces choses
en s'effaçant eux-mêmes.
Le livre montre cette dynamique chez Jaccottet d'abord,
puis 'étend à Pusterla, qui a acquis
une connaissance approfondie du poète de Grignan
en le traduisant, et en a été durablement
marqué dans sa propre poésie selon Cavadini.
Cette interprétation
est toutefois mise en discussion par Pietro Montorfani
dans son article du Giornale del Popolo, pour qui
l'effacement du poète est une vue de l'esprit:
selon ce critique, la présence du poète,
la spécificité de son regard dans sa
différence d'avec le lecteur, autrement dit
sa subjectivité est en réalité
d'autant plus forte qu'elle est peu explicitée.
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Indice |
Indice
Introduzione
1. Verso la realtà
2. Dai "phantasmata" ai "signa"
3. La cancellazione dell'io
4. Un parlare basso ed esatto
5. Poesia e ontologia
I. Philippe Jaccottet
1. L'avantesto
2. L'Effraie
3. L'Ignorant
4. Airs
5. A la lumière d'hiver
6. Pensées sous les nuages
7. "Je recommence, parce que ça a recommencé..."
II. Fabio Pusterla
1. Concessione all'inverno
2. Bocksten
3. Le cose senza storia
4. Pietra sangue
Bibliografia
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Da
ascoltare: Fabio Pusterla legge Philippe Jaccottet |
Parlare è facile (da Canti dal basso,
in Philippe Jaccottet, Alla luce d'inverno. Pensieri
sotto le nuvole, a.c. di Fabio Pusterla, Milano, Marcos
y Marcos, 1997).
Ascoltare la lettura
(MP3) (4,4
Mo)
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Cinque
domande a Mattia Cavadini (Pierre Lepori) |
Il suo percorso di saggista, Mattia
Cavadini, è assai singolare. Un suo primo saggio
- dedicato alla figura del grandissimo scrittore sperimentale
Giorgio Manganelli - mostrava una sua chiara adesione a
un'idea di letteratura totalmente "altra"
(ricreazione perfetta, tutta interna al linguaggio, senza
possibilità di comunicazione con il "reale").
In questo suo saggio lei parte da un chiaro rifiuto del
"vedere opaco dell'immaginazione". Come
si è compiuto questo percorso dalla letteratura-letteratura
alla letteratura-mondo, per quali vie sotterranee possiamo
collegare la figura di giocoliere delle parole di
Manganelli e la "fedeltà al reale" di Jaccottet
e Pusterla?
Entrambi i libri partono da un'idea
soggettiva e partecipata di letteratura. Il saggio su Manganelli
aderisce all'idea di letteratura come pseudoteologia, come
teologia dell'immaginario. La scrittura viene descritta
come una sorta di dio barbaro cui lo scrittore si vota,
scrivendo. E' una scrittura che con la sua pienezza risarcisce
lo scrittore dell'insignificanza della realtà. Completamente
agli antipodi è invece l'idea di letteratura descritta
nel "poeta ammutolito": la scrittura qui si vuole
aderente alla realtà. Adesione che si compie per
sottrazione: lo scrittore cancella il proprio io e accoglie
le cose nella loro essenza (attraverso una scrittura che
si vuole trasparente come il cielo). E' chiaro che non è
solo l'idea di letteratura che cambia, ma anche la concezione-intuizione
del mondo. Chiedere alla letteratura (e all'immaginazione)
di scontare l'insignificanza del reale implica una posizione
negativa e nichilista. Diversamente cercare dentro le cose
una intrasignificazione, una loro Inngkeit, implica una
fiducia se non addirittura una fede nel reale (in cui si
ravvisano scintille di senso). Cosa lega queste due concezioni
apparentemente agli antipodi? La ricerca di un senso. Inizialmente
cercato in modo surrettizio dentro la scrittura, nel mondo
immaginario; poi rintracciato felicemente dentro il reale
(nel visibile alla ricerca dell'invisibile). Le vie sotterranee
che mi hanno condotto da una concezione all'altra sono da
rintracciare nelle esperienze personali, che sono così
forti che possono essere comunicate solo allusivamente:
nascita, morte, intuizione di un altrove.
Une fois n'est pas coutume,
vorrei interrogarla sul titolo del suo denso saggio: è
forse bene sgombrare il campo da un possibile equivoco:
Il poeta ammutolito rivendica una vera e propria eclissi
dell'autore-demiurgo, ma non postula certo una poesia "senza
il caldo di me/ o almeno il mio ricordo" (Luzi).
Come si colloca l'io-lirico rispetto all'effacement?
Temo che la risposta a questa domanda
mi traghetti su un terreno pericoloso e seducente, quello
che unisce psicologia e religione in un groviglio esoterico.
E' certo che l'io-lirico (con la sua voce, le sue esperienze,
i suoi affetti, il suo calore) non può essere trascurato
o negletto. Il problema allora è quello, ancora una
volta, di leggere dentro gli avvenimenti che segnano l'io
(a volte anche dolorosamente) il loro significato ulteriore;
significato che consente, nel migliore dei casi, anche un'evoluzione
personale. In termini esoterici si parla di passaggio dall'Io
al Sé (ma questo è ambito mistico che attiene
solo a pochi iniziati); in termini più semplici potremmo
parlare di capacità di vedere dentro l'individuale
il significato universale delle proprie esperienze. Ed è
quello che dovrebbe fare la poesia se non vuole franare
rovinosamente nella mitografia privata.
La direzione della sua ricerca,
mi sembra, non è soltanto poetica, ma anche e soprattutto
spirituale (con riferimenti precisi alla filosofia buddhista,
ma anche a un valore "eucaristico" della poesia,
presente in certa tradizione italiana): la poesia, in questo
senso, per lei, si avvicina alla mistica, in particolare
nel caso di Jaccottet? Stupisce di più, questa tensione
mistica rispetto a un poeta più laico, talvolta anche
più "politico" qual è Pusterla
Effettivamente a me interessa la
scrittura unicamente come percorso di conoscenza, come strumento
di contatto e avvicinamento a una dimensione metastorica.
In questo senso mi piace pensare il percorso creativo come
a un mezzo che consente di trasformare il tempo in spazio,
l'istante in eternità. Una sorta di pratica mistica
che mette in contatto chi scrive con la permanenza, con
quel nucleo irriducibile che si sottrae alla fuggevolezza.
Questa è sicuramente una riflessione che consapevolmente
entra nel percorso creativo di Jaccottet (così come
la riflessione attorno alla necessità della cancellazione
dell'io, come testimoniano molti suoi scritti poetici e
diaristici), meno consapevolmente (mi pare) si insinua invece
nei testi di Pusterla. Eppure, soprattutto in "Bocksten"
e ne "Le cose senza storia" questa tensione verso
un nucleo altro e irriducibile, verso una verità
metastorica mi sembra che si respiri anche in Pusterla (come
ho cercato di evidenziare nel libro). L'aspetto della consapevolezza
conta poco. Basta ricordare cosa diceva Platone: la divinità
parla per voce dei poeti a loro insaputa. E' però
interessante osservare che le due raccolte di Pusterla che
maggiormente risentono di questa tensione siano concomitanti
con due esperienze di vita che introducono necessariamente
ad una riflessione sul non-essere: la morte del padre (per
quanto riguarda "Bocksten") e la nascita della
prima figlia (per quanto attiene a "Le cose senza storia").
Per cui non mi sembra assolutamente casuale che in quelle
due raccolte la voce di Pusterla si sia arricchita di una
sacralità che in altre poesie e raccolte viene invece
offuscata e inquinata da uno sguardo più ideologico
e politico.
"Uno sguardo trasparente,
senza memoria, senza storia, capace di rendre le monde
au visage de sa présence" (Bonnefoy): lei mette
in forte evidenza il tema del reale, il rovello dell'adesione
quasi-senza-letteratura a una numinosità delle cose.
Come si colloca, in questo contesto, il tema dello sguardo,
molto presente in Jaccottet? E che cos'è il linguaggio,
per Pusterla e Jaccottet?
Lo sguardo è essenziale. Così
come l'udito e gli altri sensi. Purché sia scevro
da ideologia (e non sempre è così), desideri
e paura. Solo a una pura ricettività (animale e infantile)
si offre il mistero del reale. Detta così è
semplice, più difficile è attuarla e praticarla.
Jaccottet se ne è accorto, nel suo lungo percorso
di scrittura, a volte aderendo a volte confessando l'impossibilità
di guardare le cose pacificamente ed equanimemente. Il dolore,
la rabbia, così come l'idolatria e l'eccessivo amore
a volte offuscano lo sguardo. Ecco allora che il percorso
prima di essere letterario è un lavoro sull'io, di
lenta purificazione.
Per quanto attiene al linguaggio, l'ideale sia per Pusterla
che per Jaccottet mi sembra di poter dire sia quello di
una fitta trasparenza. Ovvero un linguaggio che sia trasparente
nei riguardi del reale (quindi coincidenza fra cosa e parola,
fra significato e significante), che vi aderisca pienamente,
dando però il senso di una profondità, di
una porosità (profondità e porosità
che qualificano non solo le parole ma anche le cose, che
si superano costantemente in altro, che spesso sono simboli,
segni, allusioni a una realtà altra).
Nel suo libro lei sceglie due
poeti con una visione del reale estremamente prossima: sappiamo
che Fabio Pusterla, più giovane, ha tradotto lungamente
le opere di Philippe Jaccottet. Lei crede che l'attività
di traduttore di Pusterla lo abbia influenzato nelle scelte
poetiche; ha trovato tracce di una filiazione diretta, in
questo senso, nell'opera dei due poeti?
Assolutamente sì. Ma penso
che la lezione di Jaccottet (lezione legata da un lato alla
pratica dell'effacement, dall'altro alla coincidenza fra
vita e scrittura) sia stata accolta da Pusterla perché
predisposto all'ascolto di questa particolare lezione. Il
libro che risente maggiormente di questo tirocinio è
ovviamente "Le cose senza storia", concomitante
all'incontro e alla traduzione di alcune raccolte di Jaccottet.
D'altronde il titolo è già una sorta di riconoscimento
di questo tirocinio: l'idea di aderire alle cose nella loro
essenza, al di là della storia, della memoria o del
possibile uso e possesso è una enunciazione di senso
che il primo Pusterla non si sarebbe sognato di affermare
e che segna un passaggio evolutivo nella sua poetica.
Intervista a cura di Pierre Lepori
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Mattia
Cavadini / Il poeta ammutolito
- estratti |
La poesia sarà concertazione piena, totalizzante,
degli oggetti e dei gesti dentro l'orizzonte dell'immanenza.
L'imaginatio, la vanitas mitopoietica, vengono
sacrificate alla prassi della pura denotazione. Le pregiudiziali
fantastiche che ineriscono alla relazione soggetto-oggetto
sono come rimosse. Gli objecta sono rappresentati
nel loro ontismo. Ciò non significa neutralizzazione
o appiattimento, ma rivelazione di una Innigkeit impreveduta,
emersione del sacro dall'intima porosità del reale:
Il faut se vouer à l'ici et
au maintenant qui sont l'épiphanie de la finitude,
et y forcer le langage. 1
Per fare questo occorre un atto di
accettazione. Accettare d'essere null'altro che testimoni,
testimoni dei moti della terra. Terra che ci invita a confidare
nella finitude, giacché nulla scampa alla
bi-unità di vita-morte. E sarà proprio nell'assunzione
della propria finitude che si spalancherà
l'accesso al sacro (il sacro nel sensibile). Iscrizione
di un senso, di una promessa nella realtà. Promessa
in re, e non post o ante rem (questo
fu l'errore delle poetiche di fine-inizio secolo: rifiutare
il quotidiano in nome dell'assoluto).
Contro l'orfismo romantico e decadente di fine Ottocento,
che si spinge sino nel cuore del nostro secolo, sorge dunque
una nuova istituzione poetica: il cosismo, la poetica delle
cose, per cui ciò che il poeta intende comunicare
"viene reso attraverso maniere di equivalenze ricercate
in oggetti convenienti"2 . Istituzione che
in Italia muove da Pascoli ai Crepuscolari, dai Crepuscolari
a Montale, da Montale ai poeti d'oggi (fra cui Pusterla).
Più in dettaglio, considerando non solo l'oggetto
tematico (le cose) ma anche la produzione testuale (il prosaismo),
occorre anche menzionare, in un'inchiesta sui debiti, la
componente sperimentale e avanguardistica Lucini-Gozzano-Campana-novissimi,
la cometa di Saba con la sua coda (Penna, Bertolucci, Caproni),
nonché la riscoperta, sotto influsso pavesiano, dei
dialettali (Tessa, Noventa). In Francia, la medesima istituzione,
ha i propri antesignani nel Rimbaud di Mémoire
e nel Nerval di Myrtho, di Delfica e di
Artémis; antesignani cui fanno seguito i poeti
post- e antisurrealisti, quali (per fare solo alcuni esempi)
Ponge, Deguy, Thomas, Bonnefoy, Char e Jaccottet. Si tratta,
come lo suggeriscono i nomi stessi, di un'istituzione poetica
che, nonostante si impegni a rappresentare una realtà
inafferrabile, rifiuta altresì il ricorso ad associazioni
gratuite e ad artifici autoreferenziali. Si tratta di un'istituzione
poetica che smette i panni sontuosi del simbolismo, per
indossarne di più comuni. La poesia diventa, montalianamente,
cronaca di triti fatti:
Le quotidien: allumer le feu (et
il ne prend pas du premier coup, parce que le bois est
humide, il aurait fallu l'entasser dehors, cela aurait
pris du temps), penser aux devoirs des enfants, à
telle facture en retard, à un malade à visiter,
etc. Comment la poésie s'insère-t-elle dans
tout cela? Ou elle est ornement, ou elle devrait être
intérieure à chacun de ces gestes ou actes:
c'est ainsi que Simone Weil entendait la religion, que
Michel Deguy entend la poésie, que j'ai voulu l'entendre.
Reste le danger de l'artifice, d'une sacralisation "appliquée",
laborieuse. Peut-être en sera-t-on reduit à
une position plus modeste, intermédiaire: la poésie
illuminant par instants la vie comme une chute de neige,
et c'est déjà beaucoup si on a gardé
les yeux pour la voir. Peut-être même faudrait-il
consentir à lui laisser ce caractère d'exception
qui lui est naturel. Entre deux, faire ce qu'on peut,
tant bien que mal. Sinon risque d'apparaître le
sérieux du sectaire, la tentation de porter la
bure du poète, de s'isoler, en "oraison"
(ce qui gêne quelquefois chez Rilke). Pour moi du
moins, je dois accepter plus de faiblesse. 3
(
)
Mallarmé fu, in Occidente,
tra i primi a invitare a "la disparition élocutoire
du poëte"4 . Invito che mirava ad un'idea
assoluta dell'arte, all'idea dell'"uvre pure".
Scordare l'Io per cedere l'iniziativa alle parole, ad un
sistema di simboli che dicessero il vuoto di un universo
pervaso dalla distruzione, che accennassero all'informulato.
L'invito di Mallarmé fu, dunque, un invito pericoloso:
era la trasposizione formale del nichilismo filosofico:
abolire l'Io e la soggettività ad immagine della
caduta del tolemaismo, a rappresentazione della confusione
di senso. Il rischio di un nichilismo formale, di una specularità
letteraria era latente. La tentazione era nuovamente quella
di cedere ad una visione assolutistica ed autoreferenziale
della letteratura: letteratura come pseudoteologia, come
demiurgismo registico.
Diversa è la motivazione che spinge Jaccottet ad
affermare: "l'effacement soit ma façon de resplendir"5
; diversa la motivazione che ha indotto Pusterla a dar voce
alle cose senza storia. La fede negli oggetti, nella
vita semplice, di tutti i giorni. Oggetti che sono chiamati
ad esprimere, con la loro semplice presenza, quanto l'Io
sa di non saper dire. A loro è concesso il compito
supremo della poesia: mettere il mondo davanti alla sua
presenza, lasciare che l'istante si manifesti nella pienezza
senza memoria. La poesia viene così restituita all'immanenza,
alla realtà. Ogni cosa si presenta nel suo aspetto
assoluto, nella sua essenza, nella sua capacità di
unirsi alle altre. Il reale si dissipa nel linguaggio, identificandosi
con il vocabolo che lo rivela. La crisi dell'Io si risolve
in una fiducia preidealistica e prekantiana nel reale, nell'intuizione
dell'oggetto rappresentativo e delegato.
Il poeta ammutolito, Marcos y
Marcos, 2004
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Il
poeta ammutolito / Pietro Montorfani |
Riflessione sui poeti svizzeri
e la ( finta) cancellazione di sé Se il poeta
si sente di troppo
'Il poeta ammutolito' ( edizioni
Marcos y Marcos) è una recente indagine critica di
Mattia Cavadini sui nostri Pusterla e Jaccottet. Affrontando
il tema della letteratura senza io, tra suggestioni Zen
e crisi di fine Novecento. Ma per dire il reale ci vuole
l'io.
Ogni testo lirico ha una sua ragione
di fondo, un " perché" che lo fa esistere.
In gran parte queste ragioni profonde traspaiono dal tono
della poesia, nella voce di chi, con i versi, comunica con
il lettore. Più difficile è capire che questa
voce non è, in tutto, la voce dell'autore, ma una
sorta di struttura intermedia, quasi un figura di narratore
come ce ne sono nei romanzi. A questo personaggio intermedio
la critica ha dato il nome di " io lirico". Nella
storia della poesia occidentale ci sono stati autori, come
Baudelaire o Rimbaud, con dei " se stesso" poetici
tanto solidi e forti ( a tratti addirittura violenti) da
riuscire ad imporsi al lettore, portandolo a condividere
la loro visione del mondo. Ma non sempre l'io lirico raggiunge
queste vette: soprattutto nel Novecento, secolo di crisi
quant'altri mai, abbiamo poeti che conversano con i lettori
in tono minore, avanzano dubbi e rifiutano di esporre certezze.
Nel Novecento l'io lirico cerca di farsi da parte, continua
a interpellare il lettore sulle cose della vita ma lo fa
senza imporre nulla ( o quasi) della sua presenza. Mattia
Cavadini, in un recente studio dal titolo Il poeta ammutolito.
Letteratura senza io: un aspetto della postmodernità
poetica ( Marcos y Marcos, marzo 2004), indaga questa
dinamica di indebolimento dell'io lirico mettendo a confronto
due importanti autori elvetici: Philippe Jaccottet e Fabio
Pusterla. Sia Jaccottet che Pusterla sembrano infatti incarnare
una tendenza poetica tipica dei nostri tempi, e non a caso,
dato che i due poeti svizzeri sono voci importanti della
letteratura francese e italiana contemporanea. Cavadini
fa notare come Pusterla e ( soprattutto) Jaccottet nel corso
della loro produzione poetica abbiano cercato di ridurre
al minimo la presenza ingombrante dell'io lirico per lasciar
parlare le cose, per mettere il lettore di fronte alla realtà
senza alcun intermediario che dica " io". Ma è
veramente possibile un'operazione di questo tipo? A livello
di strutture letterarie sicuramente sì, meno convincente
è però la riflessione di Cavadini quando sembra
trattare indistintamente l'io lirico e l'io tout court
del poeta: per dare voce alle cose occorrerebbe «
spogliarsi, immiserirsi, non essere che coscienza pura,
senza giudizio, senza desiderio, senza memoria » (
pag. 62), bisogna che il poeta « freni la propria
immaginazione, dimentichi la propria cultura. È un
lavoro di sottrazione: non essere che testimone »
( pag. 59), « diventando lui stesso fiore, uccello
o montagna » ( pag. 80). Il critico fa sue le riflessioni
di Jaccottet, che negli anni ' 60 era rimasto molto affascinato
dagli haiku, cioè da quella tradizione lirica orientale
caratterizzata da brevità e dalla rappresentazione
di paesaggi e elementi naturali in una totale assenza dell'io
lirico. È la poetica, dice Jaccottet, dell'effacement
de soi, per essere unicamente testimoni delle cose.
Ma come si fa a essere testimoni della cose senza un io
( pur celato tra le righe, pur zittito) che si indirizzi
con forza al tu del lettore? La testimonianza è la
forma comunicativa che più necessita di qualcuno
che dica " io": si può essere, certo, delle
semplici pellicole fotografiche su cui lasciar imprimere
la realtà circostante, ma ogni poeta è una
pellicola diversa, una diversa inquadratura e quindi una
diversa finestra sul reale. Difficile credere che le cose
possano parlarci da sole e che il poeta ne sia soltanto
un portavoce passivo. Ogni gesto poetico ha all'origine
una scelta che dice fortemente " io". Ezio Raimondi,
nel suo capitale saggio Scienza e letteratura, nota
che « quanto più l'oggetto si presenta in una
forma oggettiva, tanto più il soggetto riafferma
la propria esistenza » . D'altronde la stessa parabola
lirica di Jaccottet sembra smentire, con gli anni, la poetica
dell'effacement de soi: nei Chants d'en bas
la morte di un amico, la scoperta della dimensione duplice
( alto e basso) del reale riporta a galla con forza un "
io" e un " tu" che si erano soltanto assopiti.
Infatti anche nei testi precedenti di L'ignorant
e di AirsJaccottet « non abolisce l'io »
( Jean Starobinski). Questo perché il poeta romando,
pur ispirandosi agli haiku, si ricorda della lezione di
un altro grande poeta di paesaggi e oggettività:
il Montale degli Ossi e, ancor più, dei Mottetti,
poeta che come pochi altri ha sondato le dinamiche dell'io
lirico perché non ha mai dimenticato che l'alterità
( in ogni forma: dalle donne amate, ai segni del reale,
alla moglie morta) impone un " io" ben vivo che
vi si rapporti.
PIETRO MONTORFANI
Page créée le: 05.04.04
Dernière mise à jour le 03.06.04
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