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Ospite del mese
Guglielmo Volonterio

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Intellettuale "scomodo", scrittore coltissimo e talvolta ermetico, il critico cinematografico Guglielmo Volonterio, da cinquant'anni è una delle coscienze critiche più acremente impegnate nella decostruzione della cultura svizzera italiana. Le sue opinioni e riflessioni non potevano non interessare il Culturactif, che lo ha interrogato su alcune delle sue provocatorie tesi.

Guglielmo Volonterio (1926). Critico cinematografico per il "Corriere del Ticino" (1969-95) e la RSI (1970-1991), collabora pure alla rivista "Cenobio". Dal 1982 è presidente del Fondo Carlo Cotti della Città di Lugano. Nel 1985 è chiamato dall'UNESCO a far parte della Commissione di ricerca sull'evoluzione delle nuove immagini elettroniche e sui rapporti tra cinema e televisione.

E' autore di saggi dedicati al cinema (Per uno spazio autonomo. Storia del Festival del Film di Locarno 1946-1977, ed. Festival, 1977; Dalle suggestioni del Parco alla Grande Festa del Cinema. Storia del Festival di Locarno 1946-1997, Venezia, Marsilio, 1997) alla critica d'arte (Alla ricerca di un ragazzo. Catalogo Carlo Cotti, 1989; La parabola del 'soggetto' della storia, catalogo Mario Comensoli, Milano, Skira, 1998) e di una monografia estremamente puntuta sull'intellettuale ticinese Enrico Filippini (Il delitto di essere qui: Enrico Filippini e la Svizzera, Milano, Feltrinelli, 1996).

E' autore anche di opere di narrativa: Le bontà, quattro racconti (Lugano, Mazzuconi, Premio Schiller e Menzione Premio Veillon nel 1958); La seduzione dell'attimo, romanzo (Venezia, Marsilio, "Libro della Fondazione Schiller Svizzera 1999").

I libri di Guglielmo Volonterio (critica):

Il delitto di essere qui, Enrico Filippini e la Svizzera (Pierre Lepori)
Dalle suggestioni del Parco alla Grande Festa del Cinema (Tullio Kezich)
La Seduzione dell'attimo (Manuela Camponovo)

Guglielmo Volonterio, a scorrere la sua bibliografia si resta impressionati dalla vastità del suo orizzonte di interessi: l'arte (Carlo Cotti, del cui fondo luganese lei è presidente), la Videoarte (attraverso la commissione "nuove immagini elettroniche" dell'UNESCO), il cinema (con lunghi anni di militanza critica ma anche studi ponderosi, in particolare sul festival di Locarno), infine la letteratura (sia come critico - con forti valenze filosofiche - sia come narratore). Filosofo, scrittore, critico? Qual è l'identità in cui meglio si riconosce oggi?

Domanda legittima, per la quale, tuttavia, a pensarci troppo, non ci si riconosce più! E' il caso delle fotografie giovanili che, a rivederle, spiazzano nel tempo e nello spazio. Potrei cavarmela richiamandomi alla tesi di Derrida: "L'autore è sempre oltre il testo". E c'è anche l'ultimo Paul Ricoeur a darmi una mano, quando confessa che il "resto" trascurato da un suo libro fornisce il materiale per il successivo. Quanto a me, nolente o volente, sono un "giornalista" con tutti i demeriti di questa professione che esige la tempestività, talvolta a discapito dell'approfondimento: così, mentre scrivevo di cinema, coglievo la necessità di ampliare le mie conoscenze all'estetica, alla letteratura, all'arte in genere, alla videoarte in quanto apertura a nuovi "giochi linguistici". La letteratura, però, è l'attività che mi attira di più, per il fatto che mi offre uno spazio ludico maggiore di ogni altra disciplina.

Dopo l'esordio coi quattro racconti de Le Bontà (1957, Prix Schiller, Menzione Prix Veillon), lei ha un po' lasciato da parte la produzione narrativa, fino al recentissimo La seduzione dell'attimo (Marsilio, 1999). Si può dire che la sua attività intellettuale ha un po' messo in ombra l'aspetto creativo, oppure ha sempre concepito le due produzioni come facce di una stessa medaglia (penso alla forte tensione filosofico-argomentativa dell'ultimo suo romanzo, in particolare)?

La risposta è implicita nella precedente: Le Bontà nasce in una condizione particolare, tipica del giovane: la "scoperta" come alternativa alla scrittura "locale", degli americani, Dos Passos in particolare. Ma essa riflette pure un momento esistenziale doloroso, quello in cui ho avvertito l'impossibilità - per questioni fisiche - di proseguire la mia attività cinematografica, dopo il diploma in regia Cinematografica a Milano. In fondo Le Bontà sono racconti sull'estraneità: un'estraneità che dovevo riscoprire nei confronti del mondo circostante, ticinese. Ma l'estraneità l'ho pure avvertita riguardo alla realtà italiana, milanese (in quel momento molto viva), nel quadro della quale avevo compiuto gli studi di cinema e le relative prime esperienze. Per non essere totalmente estraneo, mi sono inventato critico. Come detto, ho compiuto un percorso da una disciplina all'altra, seguendo una "catena di differenziazioni" (per dirla ancora con Derrida), che costruisce l'identità personale.

Se dovessi estrarre un tema centrale del suo ultimo romanzo (oltre a quello dell'erotismo che ha stupito più di un lettore), direi che potremmo concentrarci sul concetto di "alterità". E' un po' il filo conduttore di tutto il suo lavoro, no?

In La seduzione dell'attimo, scritto dalla fine degli anni Ottanta, volevo riprendere il discorso metalinguistico del Gruppo 63 [il principale movimento d'avanguardia italiano del dopoguerra, fondato da Edoardo Sanguineti e altri intellettuali, a Palermo, proprio nel 1963], incentrandolo sulla necessità della mediazione dell'Altro, al fine di riconoscere il proprio sé. Il problema dell'Altro significa la caduta delle facoltà auto-identitarie, sostituite da forze estranee, soprattutto quando si ha a che fare con le attrezzature tecnologiche, come ha ben evidenziato il filosofo Umberto Galimberti. Quanto all'erotismo: nel romanzo è descritto come elemento di distanziazione dall'atto fisico, introduce una riflessione a freddo, in opposizione ai festosi coinvolgimenti delle rappresentazioni al cinema. In pari tempo costituisce un'arrogante eliminazione di un tabù, proprio di una piccola collettività sorniona e pusillanime.

IL DELITTO DI ESSERE QUI

In un'intervista recente, rilasciata - non caso - a Mattia Cavadini (scrittore ticinese d'avanguardia, oltre che giornalista alla RSI), lei ha osteggiato una certa "tradizione letteraria ticinese" che sembra diffidare dell'aspetto sperimentale della letteratura. Ha evocato, in questo senso, la mancanza di un metalinguaggio (cioè di strumenti per riflettere sul proprio linguaggio) per la cultura ticinese. Mi sembra che il problema vada ben al di là del fatto letterario. Storicamente, in fondo, il Ticino si è "dovuto" costruire (chiuso tra la diffidenza per gli italiani a sud e quella per i germanici a nord) con una retorica del "da nümm" ("da noi" in dialetto ticinese - "la repubblica dell'iperbole" secondo la definizione di Francesco Chiesa) che si fondava sulla "trasparenza" (o genuinità) dell'adesione al reale (quindi: niente metalinguaggio!). Non le sembra però che la situazione sia cambiata, rispetto a quando Guido Calgari cantava "il vasto ciel d'Italia, l'Elveta libertà" in Sacra Terra del Ticino (1939)?

Non approvo la sua deterministica spiegazione circa l'isolamento del Ticino nei riguardi del Nord e del Sud. Reputo invece che il "politico ticinese" ha avvertito nell'arte una potenzialità rivoluzionaria, nel senso di un radicale cambiamento di mentalità e costumi, meno legati all'ortodossia cristiana, a una certa qual "prudenza" nell'affrontare problemi sociali, nel "dire", nel prendere coscienza. Per questa mentalità, anche "prendere coscienza", al limite, costituisce un "delitto", che porta ad essere "cacciato" (così si auto-definiva Enrico Filippini, scrittore ticinese, 1932-1988). Si pensi: sotto il regno del pittore Pietro Chiesa (1876-1959) le collezioni statali ticinesi dovevano acquisire solo opere di ticinesi! E nessuno voleva prendere atto di quella forma creativa che per quasi mezzo secolo fu il Monte Verità [la colonia artistico-naturistica, installata sulle alture sopra Ascona, dal 1900 in poi]. Si arrivò nel 1936 a rifiutare al grande Paul Klee la nazionalità svizzera: da una parte per il marchio lanciato dalla Germania nazista di "arte decadente". Dall'altra perché esperienze come quelle di Klee comportavano visioni ben differenti dal natural-simbolismo in auge allora, coinvolgendo Weltanschauungen che mettevano in discussione l'estetica ufficiale. Quanto alla cultura del metalinguaggio, nella sua forma più radicale - l'unica che io conosca - essa agisce coinvolgendo il Soggetto tutto con se stesso. Il limite è la rinuncia creativa. Se alla domanda "cos'è la letteratura?" non si trova risposta.

Lei ha appena menzionato un personaggio intellettualmente centrale, nelle sue riflessioni: Enrico Filippini. Scrittore estremamente sperimentale (e non prolifico), co-fondatore del Gruppo 63, traduttore di Husserl e giornalista di vastissimi interessi, cui ha dedicato un libro molto forte Il delitto di essere qui. Enrico Filippini e la Svizzera (Feltrinelli, 1996): l'ostracismo di cui fu vittima (e continua ad esserlo post mortem) Filippini è per lei molto significativo, mi pare?

Non ci sono i presupposti per un esame di tale ampiezza. Non per nulla Filippini ancor oggi viene ignorato: è uno gnostico, un eretico. Imbarazza. E' uno straniero, come penserebbe Blocher. Ed è stato oggetto di ostracismi e denigrazione. Una congiura che a distanza di un quarto di secolo, ha colpito anche la mia pubblicazione, rendendo impossibile, ad esempio, l'intervento di Antonio Tabucchi alla presentazione del libro presso la Biblioteca cantonale di Locarno.

Traggo una citazione da questo libro: "In Svizzera non si è mai emarginati completamente: lo 'smacco totale' è, finché è possibile, evitato da tutti, ricorrendo a rimedi di semi-integrazione, una volta di più ricercata da tutti, spesso anche dalla vittima. Si parcheggia il personaggio scomodo in aree perimetrali, che gli consentano di esprimere parzialmente le sue qualità, agendo nella misura della imposta integrazione. Simultaneamente si favorisce la mediocrità intellettuale. E ben presto, il personaggio si trova a fare i conti con una certa libertà di manovre, che, per contro, comporterà forme segrete e fluide di autocensura, se non di omertà" (p.112). E' una posizione estremamente dura! Ma è davvero specifico della Svizzera?

La domanda è stata sfiorata dalla precedente risposta, ma solo in piccola parte. Per affrontarla ci vorrebbe ampio spazio, perché la questione è molto articolata. Perché la vittima delle angherie viene a tal punto estraniata da sé da perdere le ragioni per lottare. In Ticino non ci sono le premesse per costruire la "cultura del margine" (come la definisce bell hooks nel suo libro Elogio del margine, razza sesso e mercato culturale, pubblicato da Feltrinelli nel 1998); per un pensiero oppositivo e soprattutto resistenziale. Intendo la cultura del margine come "sensibilità per tutto ciò che è discosto e appartato" (Adorno).

ARTE E CINEMA

Ho accennato al rapporto di lunga data con l'opera di Carlo Cotti e con la critica d'arte in generale. E' forse un campo in cui la cultura Ticinese, anche attraverso l'emigrazione (che è fatto storico, prima di tutto) ha potuto svincolarsi dal suo provincialismo? E per converso: oggi che sempre più si sviluppano le strutture culturali ticinesi (penso in particolare agli istituti universitari, al conservatorio, all'Accademia di architettura) non rischiamo di perdere questa dinamica della "partenza dal Ticino"?

Non userei l'ambiguo termine "provincialismo" per designare il "ritardo" della cultura in Ticino, se si eccettuano alcune posizioni di punta, come l'italianista Padre Giovanni Pozzi (1923-2002). Anni fa, il giornalista italiano Indro Montanelli fissava il "ritardo ticinese" a 15 anni. Prima di lui, mi ricordo, un gruppo di giovani registi svizzeri, alla presentazione di loro film a Bellinzona (nel 1970), manifestavano scoramento nel ravvisare la totale impreparazione critica del pubblico locale. "Mio Dio, in che stato si trova il Ticino", aveva esclamato Francis Reusser. Certo, si possono riscontrare esempi in senso opposto; ma ciò che mi preme di illustrare è il clima di sottocultura che si respira ogni giorno, non appena si sfogliano i quotidiani o nei media. La televisione è incapace di proporre una critica letteraria, cinematografica o d'arte che abbia le carte in regola. Più che di provincialismo, parlerei quindi di ristagno, pur con qualche sporadico risveglio, nella poesia ad esempio. Lei accenna alle recenti istituzioni universitarie: qualche speranza si potrebbe nutrirvi. Finora, tuttavia, le affermazioni provengono dal campo architettonico, in cui operano progettisti quasi tutti usciti dai politecnici d'oltregottardo, se si fa eccezione per Mario Botta. Si tratta di una schiera di architetti che per il loro valore hanno costituito un vero e proprio "caso ticinese". La questione mi ha indotto a pensare che il rinnovamento in Ticino possa avvenire fuori dai tradizionali mezzi espressivi, quali la scrittura e la pittura-scultura. Oltre all'architettura, questi segni di vitalità stanno affiorando nel campo della musica jazz, nel cinema (penso a Silvio Soldini), vale a dire in quelle arti i cui linguaggi non sono appesantiti dal localismo o dagli elementi folcloristici.

Il suo ultimo libro dedicato al Festival del Film di Locarno (Dalle suggestioni del Parco alla Grande Festa del Cinema. Storia del Festival di Locarno 1947-1997, Venezia, Marsilio, 1997) è particolarmente acuto nella ricostruzione della sovrastruttura che ha guidato l'estetica di questo Festival: una sorta di demitizzazione dell'ideale utopico del festival culturale, che ha dovuto sottostare a lacci e laccioli della politica culturale federale ma anche internazionale (in particolare della Federazione internazionale associazioni produttori di film, FIAPF). Come valuta lo sviluppo che il Festival ha subito in questi ultimi anni, con l'apertura inaspettata a un cinema sempre meno cinefilo e la parziale dipendenza dai grandi distributori americani?

Le sono riconoscente di invitarmi a parlare, pur succintamente, del Festival del Film di Locarno. Bisogna chiarire subito alcuni aspetti: ogni festival, nel contesto internazionale, ottiene ragione d'essere se agisce a livello commerciale. Vale a dire se, grazie alla sua mediazione, i film presentati riescono a entrare nella distribuzione nazionale o internazionale. E' una considerazione che può determinare il valore culturale del festival, soprattutto nel caso di Locarno, che, per vari aspetti, è un festival analogo a quello di Pesaro.

Entrambi hanno l'ambizione di promuovere il Nuovo Cinema, quello del Terzo Mondo, dei paesi emergenti. Nel caso di Pesaro, la manifestazione è affiancata a una casa di distribuzione nazionale che acquista i film e li fa circolare nei cinematografi di vario genere. Per Locarno la questione è differente, e da qui nascono i grossi problemi, relativi all'esiguità del pubblico elvetico. Come Locarno ha cercato di risolvere la questione? Dividendo la manifestazione in due settori: l'uno dedicato al cinema difficilmente commerciabile, il secondo al cinema di consumo, vale a dire alla produzioni maggiori, proiettate sulla Piazza Grande. L'intenzione è di proporre i film del primo settore ai grandi distributori, presenti per il programma in Piazza. L'impostazione corrisponde alle rivendicazioni delle produzioni minori. Ora lei lamenta giustamente l'apertura inaspettata a un cinema sempre meno cinefilo e le ovvie conseguenze di parziale dipendenza dai grandi distributori. Ma è una visione ottimistica. La verità è un'altra: ci si accontenta di ciò che "passa il convento", come recita l'adagio ticinese. In sintesi, occorre tener presente quanto segue: la fama di Locarno è stata "pompata" ad arte per varie ragioni; tra le prime l'assegnazione dei contributi federali, cantonali e degli sponsor, oltre alla necessaria partecipazione del pubblico. Da questo punto di vista, gli organizzatori locarnesi sono riusciti ad autoconvincersi delle loro chiacchiere, tanto da indurre il nuovo direttore Marco Müller, agli inizi degli anni Novanta, a far opera di demistificazione della realtà. In quel frangente, Müller ha messo in evidenza i limiti di attrazione di Locarno: le Majors statunitensi ignoravano, o quasi, l'esistenza di Locarno, che non entrava nei loro calcoli commerciali. Che fare? Intelligentemente, Müller aveva deciso di rivolgersi alle sopraccennate "culture del margine", mescolando settori e programmi. Alla fine, Müller ha però capito che la sua era una posizione assurda, da "testardi" (così scrisse). Ne dedusse che il suo posto non era quello di dirigente di un festival contraddittorio, e che preferiva collocarsi all'interno delle produzioni "marginali", lui stesso diventando produttore. Quanto ho scritto nella Storia del Festival di Locarno 1946-97, scontrandomi con l'opposizione del Comitato direttivo del Festival (Pro Helvetia e l'Ufficio Federale della cultura negarono i contributi alla pubblicazione, pur ricevendo il libro un contributo cantonale e uno dal Fondo del Casinò di Locarno). Un testo che è stato additato dalla critica italiana (Tullio Kezich sul "Corriere della Sera") come un esempio storiografico da seguire. A sua volta Marco Müller, prima delle sue dimissioni da Locarno, proponeva di riprendere il mio lavoro, per un esame del festival in vista dei suoi futuri problemi.

GUARDANDO AL FUTURO

Non le sembra che, dopo la generazione che ha sviluppato un'autocritica della ticinesità "classica" (Bianconi, Martini, Felice Filippini, Orelli), una generazione veramente nuova si stia formando: negli studi storici (penso all'importante opera di analisi dell'attività delle stamperie ticinesi di Fabrizio Mena o ai lavori linguistici di Sandro Bianconi), così come nell'attività letteraria (dove c'è un cambiamento evidente)?

Certo, fermenti di autocritica e segni di rinnovamento negli ultimi tempi affiorano anche da noi. Tutto sta a vedere se i soggetti persisteranno, se hanno la tempra del combattente, se riescono a non essere "cacciati", come diceva appunto Filippini. Ma non è neppure da sottovalutare, anzi è da analizzare, un fenomeno di disorientamento che si manifesta nell'intellettuale ticinese (e non solo), in una forma di crisi creativa (direi, intorno ai 35 anni). La difficoltà è costituita dal gestire il più razionalmente possibile la crisi, che si manifesta in un bisogno di rinnovamento, sovente confuso con il banale e deleterio "aggiornamento": il "mettersi al passo coi tempi", insomma, il confronto con ciò che è di moda. In realtà, andando per le spicciole, è il momento di una ricerca che porta dalla riflessione sulla letteratura alla politica. Detta chiaramente: è il momento del metalinguaggio. In questi casi può essere necessaria la risposta del gruppo, all'interno di un centro che agisca da luogo di astrazioni teoriche. Si tratta di essere in chiaro con se stessi, nella misura del proprio radicale coinvolgimento. Poi, evidentemente, subentrano le qualità del singolo. Possiamo vederlo, storicamente, anche attraverso l'esempio dello scrittore e pittore Felice Filippini: nel 1942, Filippini pubblica Il signore dei poveri morti, un romanzo rinnovatore, che si affianca a una pittura sulla ruralità in Ticino, sulla vita dei sobborghi, con le loro feste campestri, in cui il pittore inserisce una ricca tipologia, dai tratti esasperati (un'opera giovanile tutta criticamente da riprendere). Cosa è avvenuto in seguito? Felice Filippini ha sentito il bisogno di un acculturazione nel senso dell'"aggiornamento". E fu un'acculturazione di inimmaginabile ingenuità, che cercava di applicare i modelli cubistici. Felice Filippini ha messo in crisi la propria poetica, sostituendola con un'altra, di quasi 40-50 anni precedente!

Se c'è un ambito che ha sollevato grandi ambizioni e celebrazioni, nella cultura ticinese degli ultimi vent'anni, questo è l'architettura: con la rivalutazione degli architetti e delle maestranze storiche della Svizzera Italiana sette-ottocentesca, susù fino agli attuali successi di grandi nomi dell'architettura svizzera come Mario Botta. E' un fermento creativo importante, e fino a che punto attivo sulla nostra cultura?

Mario Botta è un artista che costituisce un esempio di coerenza, soprattutto per ciò che concerne il rapporto con le "proprie radici", non intese come "identità" ma come "qualcosa che fa avanzare" (non una costante, ma la componente di un'evoluzione basata sulla riflessione del linguaggio). In effetti, anche Mario Botta ebbe a fare con la fatidica linea di 35-40 anni, tanto che per una certa critica le sue opere migliori risalgono alle esperienze giovanili (le case unifamiliari), che lo avevano promosso uno dei migliori cinquanta giovani architetti al mondo, aprendogli le porte della Triennale di Milano. Il seguito costituisce una questione che non sono all'altezza di affrontare.

Guardando al suo futuro più personale: so che sta lavorando ora a un libro di racconti e a una sorta di favola "creazionale", su sfondo fenomenologico, ce ne vuole parlare brevemente?

E' vero, sto rielaborando una favola creazionale (il titolo potrebbe essere Il bambino troiano che gioca sulla spiaggia del mare: quel bambino dell'Iliade che fa e disfa castelli di sabbia). La favola prende le mosse dalle analogie ideologiche tra l'esistenzialismo e lo gnosticismo del II secolo d.C. (secondo le tesi di Hans Jonas), entrambi caratterizzati da un'esasperata estraniazione dell'uomo "gettato" in un mondo in cui gli è vietata la conoscenza universale. Il secondo impegno letterario è una raccolta di racconti sull'identità dell'uomo nell'era della tecnologia. In questo caso mi rifaccio agli argomenti filosofici di Umberto Galimberti, indirettamente, quindi, al rapporto heideggeriano Uomo-Tecnica. Come vede, è difficile sottrarsi alla spirale del pessimismo, anche se nel suo grembo c'è una forte "volontà di vita".

Intervista raccolta da Pierre Lepori

© Le Cultur@ctif Suisse, febbraio 2004


Page créée le 15.01.04
Dernière mise à jour le 16.01.04

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